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Ogni volta che inciampo in un altro sguardo

Francesca Mannocchi e Daniele Raineri si raccontano quel che rimane fuori fuoco quando tornano dalla guerra in Afghanistan. Lo smarrimento delle ragioni, le identità che ci sfuggono e le mani sui cancelli: la realtà sono le domande che ci inseguono

Caro Daniele, voglio parole che non siano gabbie

 

Caro Daniele,

come si comincia una lettera a un amico?, mi sono detta prima di scrivere sulla pagina bianca del computer la c, maiuscola. Ho pensato: guardandomi intorno. E così faccio. Intorno è neve, le linee morbide dei monti e quelle rigide delle vette sono coperte di bianco. Lungo la strada che lenta mi porta in Germania vedo neve e boschi. Realizzo di non conoscere i nomi degli alberi, non ne so definire le differenze, la singolarità, l’identità. E senza nomi le cose che vedo hanno meno significato, io ne sono meno consapevole, tu stesso, mentre ricevi queste righe, non riesci a immaginare cosa i miei occhi stessero vedendo, davvero, mentre pensavo di scriverti. Ieri è morto Gianni Celati. Ho fatto quello che fanno molti quando uno scrittore che hanno amato non c’è più: ho passato in rassegna le frasi sottolineate sui libri, ho ripetuto a voce bassa le righe che negli anni ho mandato a memoria. Mi sono domandata se il vizio di estrarre una frase da un testo, virgolettarla e pubblicarla (vizio dal quale, come sai, non sono esente) anziché celebrare, omaggiare, in verità snaturi un autore. Credo di sì, sai? Ep pure insisto anche io, sul pubblico altare della commemorazione. Ho recuperato i suoi interventi pubblici, in verità pochi: era un uomo riservato, una qualità a cui andiamo tutti, lentamente disabituandoci.

In una vecchia intervista Celati racconta che un giorno, all’inizio degli anni Ottanta, di ritorno dagli Stati Uniti, ricevette una chiamata da un fotografo, Luigi Ghirri. Ghirri gli disse di aver messo su un gruppo di colleghi per andare in giro, insieme, a guardare l’Italia, guardarla ancora, guardarla di nuovo. Ghirri gli propose di tentare di ridescrivere il paesaggio assieme. Immagini e testi. E Celati accettò, si mise in cammino con loro per scoprire cosa restasse dell’immaginazione del paesaggio italiano che era rimasta inchiodata alle cartoline del Touring Club. Così seguì i fotografi e si guardò intorno, passò notti a parlare con Ghirri e a rendersi straniero ciò che fino a quel momento gli era parso familiare. Ghirri gli raccontava il suo modo di figurarsi le cose, e metteva in pratica, con gli obiettivi al collo, il suo modo di proporle, mai aggressivo, coerente al metodo che andava formulando, cioè che in fotografia non fosse importante tanto e solo quello che fotografi ma anche e forse soprattutto quello che lasci fuori, quello che deselezioni dall’inquadratura. Un ribaltamento del pensare cosa sia quello che stiamo guardando, come se a dare senso a quello che osserviamo fosse ciò che decidiamo di sollevare dallo sguardo. Ghirri stava invertendo il significato della soglia naturale che è un’inquadratura, come chi non sopporta più la finzione, come chi sente il bisogno di un nuovo rapporto col reale, che prevede l’imprevedibilità, il vagabondare. Lo stupore. Questo era per lui la camera oscura, una pozza d’acqua che ribaltasse il significato dell’immagine riflessa. E questo suggeriva il rifarsi gli occhi di cui facevano esperienza Ghirri e Celati nella ricerca del nuovo paesaggio italiano, il segreto che ci stavano suggerendo, guardando oltre il bordo delle cose. Che lo specifico del nostro ruolo, del nostro lavoro di narratori, sia ritrovare uno sguardo. La loro non era tanto un’esortazione a osservare cose che non vediamo più, quanto un monito.

Forse, col loro percorrere strade apparentemente già battute a lungo, ci stavano dicendo che l’unico esercizio possibile, necessario, sia essere attenti e avvertiti su quello che c’è fuori dalla soglia. Il rischio, altrimenti, non è tanto quello di non vedere più cose troppo a lungo trascurate, ma di non vedere cose che, al contrario, vediamo troppo, sommersi non da immagini, ma da icone.

Ha a che fare questo con noi, Daniele, col nostro lavoro, col nostro sguardo sul mondo?

Credo di sì, ci penso, ne parliamo da tempo. Sei una delle poche persone con cui, in questi anni, ho condiviso gli inciampi e i dubbi dello sguardo.

Ricordi quel giorno di primavera del 2018? Mosul era caduta da mesi, le telecamere si erano spente, una dopo l’altra. Eravamo nel campo di Jeddah per parlare con chi restava a testimoniare la fine della guerra: le sopravvissute. Donne che nel catalogo giornalistico siamo soliti definire “le donne dell’Isis” e che, ci siamo resi conto, sono ben più, ben oltre, la semplificazione di questa formula. Sono quello che resta fuori dall’inquadratura, la loro esistenza è al di là della soglia. Le abbiamo ascoltate, abbiamo appuntato sul taccuino parole e gesti, ci siamo trovati poi la sera, di fronte a un caffè al cardamomo, a domandarci se davvero fossimo in grado di separare i nostri pareri dalle ragioni dell’altro. Perché questo in fondo è il senso del nostro lavoro: non aderire a un parere. Non far aderire un altro, il lettore, al nostro giudizio. Ma avvicinare chi ci legge alle ragioni dell’altro, anche quando sono fastidiose, inospitali, disagevoli.

Siamo vittime anche noi, ci dicevano quelle donne, sedute nelle tende irachene, con accanto i figli amputati e rifiutati. Orfani segnati dallo stigma dei padri.

Siamo vittime anche noi, ci dicevano, coloro che ci avevano considerato e forse ci consideravano ancora rappresentazione di chi vìola il patto tra gli uomini e Dio, noi: gli infedeli.

Ci siamo interrogati, insieme, su come raccontare queste “donne dell’Isis” che si sentivano vittime.

Ci siamo chiesti come portare questo altrove, di cui noi eravamo stati testimoni, nel bagaglio di conoscenza di chi ci legge, e se esistesse un tempo giusto per raccontare le cose. Se avessimo gli strumenti, nella cassetta dei nostri attrezzi, per liberare le loro esistenze dalla gabbia dei titoli, delle parole che vanno avanti per conto loro, delle semplificazioni che fingono consapevolezza e producono un consenso confuso. Se avessimo, in sostanza, le parole precise, lo sguardo puntuale. Ingredienti che vanno, sempre, di pari passo. Mi sono – ci siamo? – ritrovati smarriti.

Ho fatto esperienza dello stesso smarrimento in Afghanistan, la scorsa estate, mentre Kabul cadeva. E oggi, quando sono chiamata a osservare cosa accada lì. Ero a Kabul mentre la città cadeva, tu eri a Kabul mentre gli aerei militari evacuavano gli afghani accalcati all’aeroporto. Ho osservato i tuoi scatti da lì, uomini e donne dietro le reti che separavano i salvati dai sommersi. Le buste, gli stracci, le coperte, i bambini aggrappati ai genitori, esistenze portate via in fila per uno. Ho in mente una foto in particolare che hai consegnato a noi che non c’eravamo. Le mani che afferrano il cancello chiuso che separa chi può salire su un C-130 da chi è destinato a restare. C’è una ragazzina vestita di rosso, in basso a sinistra, che pare sul punto di dire qualcosa. Il filo spinato circonda tutta l’immagine, dal bordo in alto a sinistra a quello in basso a destra. Al centro un varco, chiuso. A destra un ragazzo, lo veste un abito tradizionale, celeste. Lui non prova a parlare. Le dita incastrate tra la rete metallica e il filo spinato. Tace come chi ha perso e tace come chi, in silenzio, giudica.

Il ritiro favoloso, l’hai definito. E così è stato quello che hai riassunto, con intelligenza, come il premio di consolazione arrivato a colmare il ritardo delle nostre scelte politiche, a riempire il divario tra le intenzioni e il fallimento, ad accarezzare il senso di impotenza di chi non ha capito.

Ha a che fare, questo, con la strada che mi conduce in Germania mentre realizzo di non conoscere i nomi degli alberi, lambendo i boschi austriaci? Credo di sì, Daniele.

Mi chiedo, ti chiedo: abbiamo i nomi per descrivere chi è rimasto in Afghanistan o abbiamo nomi solo per descrivere chi è stato evacuato, perché ci è prossimo, simile, perché è quel tratto, minuscolo, di Kabul che l’intervento militare ha occidentalizzato per riconoscere una somiglianza impossibile, per riempire una differenza che non andava colmata ma interrogata?

È lì che dovremmo avere il tempo di sederci, osservare, rifare lo sguardo e trovare le parole. Nella distanza tra le nostre intenzioni e l’identità di un altro che ci sfugge. Perché è nella distanza che ci separa dall’altro che si compone il senso del nostro scrivere. La distanza che non pacifica ma ci bracca come tutte le domande a cui non sappiamo rispondere. Non conosco i nomi degli alberi, e non ho nomi per dire il consenso dei talebani, e la singolarità delle donne coi volti coperti dal burqa.

Non ho nomi per dire cosa sia giusto, cosa sbagliato, cosa opportuno, cosa sensato. Ho una mappa sull’atlante e un percorso da seguire.

A un certo punto della sua vita Celati scopre il cinema e con esso il montaggio. Dice, a proposito di come si cuciono le immagini, che il montaggio fosse vicino alla forma della scrittura, e lo conducesse a una nuova educazione alla visione. Ricorda, in un’intervista alla radio, un aneddoto che lo lega a Zavattini. Un giorno i due si incontrarono, Celati era affascinato dal metodo neorealista, dal rapporto che il nuovo cinema fatto di pochi mezzi instaurasse con lo spazio. Zavattini gli disse: prendi un atlante, punta a caso il dito e concediti un incontro con un luogo in cui non sai cosa guardare, perché di fronte a quel non sapere sei nudo e in quella nudità sta il racconto. Per Celati quelle parole furono una pedagogia. In fondo andava cercando questo, nel suo scrivere, nel suo errare camminando e in fondo anche nel suo cinema naturale: la trama di un luogo prima ancora che la trama delle persone.

Ogni volta che comincio a scrivere un pezzo, Daniele, mi chiedo quanto siamo imprigionati nei nostri schemi, nell’urgenza di vedere confermate le nostre teorie, se siamo – anche noi che in fondo ci sentiamo affrancati dall’omologazione – vittime della narrazione di narrazione. Se siamo, da ultimo, anche noi, sempre più ciechi e come si recuperi l’innocenza dello sguardo.

Abbiamo ascoltato e letto molto nelle settimane in cui gli aerei militari occidentali evacuavano vite selezionate e con esse la responsabilità su chi restava. Poi abbiamo smesso di leggere, ascoltare. C’è da dire, abbiamo scritto meno. Anche io e te.

Oggi mi domando e ti domando: come si fa a sottrarre gli eventi agli schemi dei giudizi sbrigativi? Oggi per esempio, sto andando in Germania, a Nordhausen, a incontrare due amici afghani arrivati con i voli di evacuazione di agosto. Uno era un collega giornalista, uno un professore di relazioni internazionali. Uso l’imperfetto, un tempo passato, perché oggi nessuno dei due si riconosce più nella singolarità che sente di aver lasciato all’aeroporto Karzai di Kabul, il 29 di agosto.

Fahim, il (fu) professore, nel raccontarmi di cosa maggiormente senta la mancanza mi ha detto: la mia reputazione. Non la sua casa, il suo ufficio, la sua famiglia, l’ocra che ammanta Kabul.

Ma la sua reputazione.

Abbiamo raccontato gli sforzi per portare via gli afghani dall’Afghanistan. Penso che quella narrazione fosse e sia un grave danno. Dovremmo raccontare come l’Afghanistan possa essere un posto dove vivere per gli afghani. Come si fa a rendere favoloso anche il loro stare, oltre che il nostro andare via da sconfitti? Come ci rifacciamo lo sguardo, anche noi, puntando il dito sull’atlante di questi eventi giganteschi, Daniele? Non conosco i nomi degli alberi nei boschi coperti di bianco né quelli per descrivere le donne velate dal burqa. So, però, che ho molte più domande che certezze.

Che mi fido a consegnartele, perché so che analizzi senza la pretesa di essere nel giusto.

Ti stringo, Francesca

 

Cara Francesca, io sono come la squadra rossa nel tombino

 

Cara Francesca,

mentre ti scrivo queste righe so che sei in partenza per l’Afghanistan ed è un’informazione che non metterei nero su bianco su una pagina di giornale se non sapessi che la Review uscirà quando tu ormai sarai arrivata a Kabul. Altrimenti non lo farei. Partenze, voli, scali e trasferte sono cose che dovrebbero restare confinate alle conversazioni tra addetti ai lavori, perché chi va in un’area ostile del mondo è meglio che non veda annunciati in anticipo e con squilli di tromba i suoi spostamenti. Per molte ragioni che sono ovvie da capire. Qualche anno fa ho visto una reporter scrivere su Twitter da un hotel in Turchia, al confine con la Siria: “Che atmosfera internazionale qui. Siamo un’olandese, due francesi, un’italiana e due americani, tutti pronti a passare il confine”. Santi numi. Poi qualche minuto dopo cancellò il tweet con un sussulto di buon senso. È un lavoro che funziona in questo modo, un po’ sotto le luci e un po’ no. E così apparirai sul posto e di conseguenza sugli schermi delle tv o nelle stories di Instagram o su una pagina di giornale e poi sparirai di nuovo e questo andirivieni crea una strana intermittenza confusa per tutti gli altri. Capita di perdere il filo e di non riacciuffarlo più. Dove sei ora, ti chiederanno di punto in bianco in chat, sei in Italia? Oppure sei a Kabul? E Tizio e Caio sono forse anche loro laggiù con te oppure sono qui?

Credo come tutti in questa discrezione prima delle trasferte, penso sia un approccio cool ma alle volte funziona persino troppo. Una volta dopo un viaggio tornai in redazione con i bagagli per scrivere un articolo al computer e un collega, bravissimo e amabilissimo e rapito da altre cose, mi chiese: che fai, parti?

Sei in viaggio verso l’Afghanistan per raccontare cosa succede laggiù e mi scrivi di questo smarrimento. È davvero possibile capire e vedere le cose che accadono, domandi, den tro e fuori all’inquadratura? Per quel che mi riguarda ho adottato una soluzione pratica per superare questa sensazione di smarrimento. È roba terra terra, così basic che non dovrei nemmeno raccontarla ma funziona: faccio redteaming. È una parola che ho imparato dagli americani, che trasformano qualsiasi cosa in un verbo e in questo caso viene da red team, squadra rossa. I militari americani, quando devono fare un’esercitazione il più realistica possibile, creano una squadra che impersona i cattivi con il compito di mettere in difficoltà i buoni. In questo schema per convenzione i cattivi sono la squadra rossa, red team, e i buoni sono la squadra blu. Il sistema dovrebbe produrre condizioni il più possibile somiglianti a quelle di uno scontro vero. Vuoi sapere se una base militare è sul serio preparata a respingere le operazioni del nemico? Fai redteaming: formi una squadra rossa e la mandi contro quella base con la missione di entrare. Se ci riesce, vuol dire che non era così a prova di infiltrazione. Se non ci riesce, forse c’è qualche speranza che gli uomini all’interno

della base se la possano cavare in una situazione reale. Ecco, siamo tutti il red team di noi stessi – o meglio: contro noi stessi. Io lo faccio con una malevolenza e un’insistenza e una conoscenza dei dettagli che un hater sessantenne antivaccinista sui social si sogna.

Quello che ho scritto regge, mi chiedo? Quello che penso funziona nella realtà oppure dovrei pensare l’esatto contrario? Questo dato che mi piace citare è solido oppure è un’invenzione? In questo punto ho esagerato e invece in quest’altro punto sono stato troppo cauto? Ci ho visto giusto? Non ci ho capito nulla? Come una squadra rossa che si cala in un tombino per entrare nella base attraverso un condotto poco sorvegliato e sorprendere alle spalle le sentinelle, prendo le cose che so e che credo di avere capito e cerco di fregarmi. Tanto che alla fine quando sui social arrivano le critiche contro qualcosa che ho scritto mi sembrano blande rispetto a quelle che avevo in mente. Pazienza, torniamo alla domanda. Conoscendoti, anche tu fai parecchio redteaming, magari senza pensare a questa parola americana. Questa pratica può forse risolvere lo smarrimento del quale mi parlavi, di chi deve azzeccare qualcosa nel raccontare quello che ha davanti agli occhi? Un pochetto. È soprattutto una coperta di Linus alla quale non rinunciare? Certo che sì.

Tra l’altro questa storia dei rossi e dei blu si sentiva molto in questi ultimi anni in Afghanistan dentro le installazioni della Coalizione con l’aggiunta dei green team, vale a dire i soldati afghani, che le forze internazionali non consideravano rossi (i nemici talebani) ma nemmeno del tutto e pacificamente blu.

Verdi, quindi alleati con un colore intermedio. Si parlava di attacchi “verde su verde” quando qualche infiltrato talebano, che si rasava la barba con cura e si era arruolato con pazienza e aveva superato il corso di addestramento ed era stato infine mandato in qualche caserma, di colpo dopo mesi o persino anni di condotta impeccabile imbracciava il suo fucile e cominciava a sparare contro i commilitoni. Era una tattica che non produceva perdite importanti, ma dal punto di vista psicologico era devastante. Crisi d’identità profonde. Ricordo che quando il presidente dell’Afghanistan era Hamid Karzai, il plotone d’onore in alta uniforme che gli presentava le armi quando passava sul tappeto rosso fuori dal palazzo non aveva pallottole nei fucili – tanto per restare sul sicuro. Sarebbe stato un “verde su verde” imbarazzante. E poi c’erano anche gli attacchi “verde su blu”: quando un soldato afghano imbracciava l’arma e sparava alle truppe internazionali. Di episodi verdi su blu ce ne sono stati a decine. Va molto questa serie tv, Succession, che ruota tutta su alcuni tradimenti e voltafaccia abietti fra persone che in teoria sono molto legate fra loro, ma in confronto all’Afghanistan sembra un inno alla fratellanza fra gli uomini.

E sempre a proposito dello smarrimento: è giustificato, lo è in generale e lo è ancor di più quando si parla della guerra civile afghana. Il paese cambia di mese in mese, quello che è vero oggi non lo sarà più fra poco, quello che era vero fino a poco tempo fa oggi non vale già più. L’ultima volta che sei stata a Kabul i talebani erano degli alieni che stavano arrivando da fuori a prendere possesso della città (ma sappiamo che molti erano, appunto, già dentro, e facevano finta di non esserlo). Oggi ci siamo abituati a considerarli il governo in carica ma non riconosciuto e andiamo nei loro uffici a farci rilasciare il permesso temporaneo per lavorare. La resistenza ai talebani nella valle del Panjshir sembrava una cosa reale sui media e su Twitter in estate, lasciava immaginare chissà quali battaglie partigiane su per i monti e tra le valli del centro, ma è svaporata nel nulla. Lo Stato islamico invece era materia per qualche nerd di politica estera: adesso è una minaccia fissa nella vita degli afghani e tutti ne hanno parlato a lungo. Qualche mese fa si poteva andare a Jalalabad, la città nell’est con le sue strade dritte, i suoi canali e i bambini che ci si tuffano dentro, il grande mercato con i tendoni. Un caldo da arrostire. Oggi quella città è territorio ostile persino per i talebani, che cadono ogni giorno in imboscate dietro ogni edificio (un caso di “rosso su rosso”?) e fanno la stessa vita da assediati che facevano le truppe internazionali quando negli anni passati finivano in una zona ad alta densità di guerriglia. Solo che nel caso dei talebani quella, Jalalabad, sarebbe casa loro. Invece è diventata la capitale dello Stato islamico in Afghanistan e i terroristi oggi danno la caccia ai talebani con lo stesso gusto con il quale i talebani davano la caccia ai soldati del governo fino a ieri. Se nemmeno i talebani capiscono il paese, vuol dire che lo smarrimento è una condizione universale.

Sul telefono mi arrivano i messaggi whatsapp degli afghani che mi hanno aiutato durante l’ultima trasferta. Sono in pericolo, chiedono di essere aiutati per sbrogliare la trafila internazionale che consente di ottenere asilo all’estero. Ma è un problema non banale perché se andiamo a guardare i requisiti per farsi salvare allora qualche milione di afghani ne avrebbe diritto e potrebbe spostarsi in Europa a cominciare da domani. Ecco, questa è una differenza con il passato: immagino che qualche anno fa tornare da una trasferta volesse dire anche separarsi da quei luoghi e da chi ci abita, ma oggi non è più così. Le cose funzionano in tempo reale. Qualche tempo fa una famiglia afghana è arrivata in Italia in aereo grazie a un corridoio umanitario, nel giro di un’ora sono cominciati i messaggi: allora vuol dire che c’è qualche speranza? Aggiornaci su quello che succede. Poi è successo di nuovo e questa volta i contatti afghani sono stati più veloci di me a vedere la notizia. A Natale mi sono arrivati gli auguri dall’Afghanistan ed erano un pensiero gentile e però volevano anche dire: noi siamo in questa bara di paese e il coperchio si sta chiudendo sopra le nostre teste, è possibile fare qualcosa per farci uscire da qui?

Cara Francesca, vedo nelle immagini da Kabul che c’è tanta neve. Vestiti pesante, ti abbraccio

Daniele

Francesca Mannocchi (Roma, 1981), giornalista e scrittrice, inviata di guerra. Nel 2019 ha diretto con il fotografo Alessio Romenzi il documentario “Isis, Tomorrow” presentato a Venezia. Tra i suoi libri: “Io Khaled vendo uomini e sono innocente” (Einaudi, 2019) e “Bianco è il colore del danno” (Einaudi, 2021).

Daniele Raineri (Genova, 1977), inviato del Foglio.