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Orche anticapitaliste all’arrembaggio

Staccano a morsi i timoni degli yacht, spingono la testa contro gli scafi, affondano navi: vogliono riprendersi l’oceano e magari anche fare la rivoluzione femminista. Contro l’uomo cattivo, ma anche contro lo squalo predatore e di destra, nemico del popolo. Benvenuti nella lotta di classe del mondo accanto

Grande Squalo Bianco contro Orca Assassina, chi avrà la meglio? Mi offro di arbitrare questo truculento match sottomarino nello stile pacchiano del wrestling alla messicana, a patto che si resti sui fondali inoffensivi di un combattimento tutto allegorico (non ci tengo a finire spolpato prima del gong). Cominciamo, dunque, con la presentazione dei contendenti. Alla vostra destra, politicamente parlando, ecco a voi lo Squalo. Quando il dittatore cubano Fidel Castro ebbe occasione di vedere il film omonimo di Steven Spielberg, intuì che aveva davanti una grandiosa metafora degli spiriti animali del capitalismo yanqui, disposto a sbranare gli esseri umani pur di salvaguardare i profitti, nella fattispecie i profitti della stagione balneare dell’isola di Amity, a sua volta metafora degli Stati Uniti. «Fantastico!», proruppe il regista quando gli riferirono i commenti dell’insolito recensore in tenuta verdeoliva, e subito aggiunse: «È il grande tema di Un nemico del popolo». Lo era, in effetti: nel dramma di Henrik Ibsen, riadattato poi da Arthur Miller, un dottore si attirava la malevolenza dell’intera città, e in particolare del sindaco suo fratello, quando annunciava che le acque della stazione termale erano contaminate e che bisognava chiuderla per un po’, interrompendo gli affari. Ma prima che il pubblico pagante si spazientisca passo a presentare la sfidante, pronta a salire all’altro capo del ring. Alla vostra sinistra, sempre politicamente parlando, potete ammirare l’Orca. E questa, scommetto, non ve la aspettavate. Lo Squalo sarebbe di destra e l’Orca di sinistra? E chi l’ha deciso, Giorgio Gaber?

A rigore, tutto è cominciato nella primavera del 2020, quando branchi di orche hanno preso a speronare yacht e pescherecci nello stretto di Gibilterra, al largo della penisola iberica. Da allora a oggi ci sono state più di cinquecento segnalazioni: orche che premono il corpo e la testa contro gli scafi e staccano a morsi i timoni, barche messe fuori rotta, ribaltate, in alcuni casi definitivamente affondate. Perché proprio negli ultimi anni abbiano adottato questo comportamento non è chiaro agli studiosi. Forse sono attratte dalle vibrazioni emesse dalle barche, o incuriosite dallo sciabordio dell’acqua intorno alle chiglie, forse trovano piacevole la sensazione di strusciarsi contro gli scafi in vetroresina, forse giocano e basta, poco importa: stiamo o non stiamo arbitrando un match allegorico? E come si sa, di questi tempi, lo spirito allegorico si deposita volentieri nei meme, i pronipoti pop e scamiciati degli emblemi barocchi.

Ecco allora un’orca incurvata come una falce che s’incrocia a un martello, accompagnata dal motto Eat the rich, mangia i ricchi, la frase attribuita a Rousseau che è tornata in voga nell’anticapitalismo di ultima stagione, tramontati ormai i fasti della “Gastronomia operaia” del Settantasette («forchetta, coltello, mangiamoci il padrone»). Adesivi con orche disegnate nello stile della grafica sovietica. T-Shirt che invitano a unirsi all’insurrezione delle orche, ad affondare gli yacht dei padroni, a divorare la diseguaglianza. Ma non c’è solo l’anticapitalismo, perché anche l’allegoria è andata a lezione di intersezionalità: lo affianca quindi il motivo anticoloniale del land back, del riprendiamoci l’oceano dei nostri antenati usurpato dai bipedi ingordi, e accanto a questo compare la rivendicazione femminista, perché le orche vivono in società rigidamente matriarcali e all’origine delle rivolte sembrerebbe esserci un’orca femmina di nome White Gladys («L’unica femminista bianca che sostengo», ha scritto una commentatrice su internet). A incorniciare il tutto, prevedibilmente, c’è la questione ecologica. Le orche rivoluzionarie hanno individuato la specie nemica del pianeta e ora conducono una lotta per la sopravvivenza in tutto analoga alla lotta di classe – del resto sappiamo che Karl Marx aveva salutato entusiasticamente la teoria di Charles Darwin, trovando in essa una «base scientifica naturale per la lotta di classe nella storia» (ne nacque una trafila plurisecolare di fraintendimenti e di equivoci, nonché un capitolo affascinante della storia delle idee).

Più che il materialismo dialettico, però, la fantasia delle orche ribelli mi fa pensare a un’antica e incantevole favola mistica, Il processo degli animali contro l’uomo, testo di una società segreta ismailita, i Fratelli della Purezza, vissuti tra l’ottavo e il decimo secolo dopo Cristo (la traduzione italiana, a cura di Paola Tonussi, è stata pubblicata di recente dall’editore De Piante). Nella favola non ci sono orche, a meno di ipotizzare che sia stata un’orca a far naufragare il vascello degli umani sull’isola del re dei Jinn, o Genii, entità soprannaturali intermedie tra il mondo angelico e l’umanità. Su quest’isola i nostri simili sono sottoposti a processo dagli animali di tutte le specie, che contestano la pretesa dell’uomo di schiavizzarli e di spadroneggiare sulla natura. La parte dell’agitatore anticapitalista è affidata all’usignolo, che così arringa contro gli umani avidi e incontentabili: «Sgobbano come muli per sbarcare il lunario, studiano per apprendere arti e mestieri che fiaccano il corpo e lavori che degradano l’anima: stabilire stime, commerciare, fare lunghi viaggi per soddisfare le loro voglie e i loro bisogni, accumulando e accaparrando mentre sopportano ristrettezze da avaro spilorcio. Se tutto questo prendere e spendere è lecito, è comunque un prezzo alto da pagare. Ma se poi i profitti sono fatti in modo improprio e le spese poco saggiamente, ne conseguono dolori e sofferenze. Noi invece siamo lontani da tutto questo. Il nostro cibo e nutrimento ci viene dal suolo e dalla pioggia». Inoltre, prosegue l’usignolo – e qui indossa le penne di un promotore della decrescita felice e del consumo critico – «una volta che abbiamo consumato il necessario per la giornata, lasciamo l’eccedente. Non abbiamo bisogno di fare scorte e conservare, custodire e proteggere, o accumulare per il futuro».

Un dietrologo ipotizzerebbe che le orche degli attentati agli yacht hanno studiato nella stessa scuola coranica, ma poi si sono radicalizzate. La verità più semplice è che il canovaccio di questa nuova favola non l’ha scritto una società segreta di Bassora alla fine del primo millennio, ma la vanno scrivendo da alcuni decenni gli sceneggiatori e i registi di Hollywood. Proprio questo giugno ha compiuto trent’anni Jurassic Park, capostipite di una popolosissima famiglia di parabole ecologiche che abitano ogni cantuccio del cinema e della serialità. In un certo senso era già tutto lì, specie negli sproloqui che Spielberg aveva messo in bocca a Jeff Goldblum nella parte di un matematico texano esperto di teoria del caos in giacchetta di pelle nera e occhiali da sole, secondo cui la hybris tecnologica degli umani opera incessantemente uno

«stupro del mondo della natura». E i dinosauri ribelli del parco a tema – che per coerenza allegorica erano tutti femmine, salvo cambiar sesso e riprodursi per dettagli fantazoologici della trama che qui ometto – vendicavano la grande Madre Natura divorando i capitalisti. Finiva sbranato da un cucciolo di lucertolone il trafficante corrotto di embrioni di specie estinte; inghiottito da un tirannosauro, per giunta mentre era seduto sul gabinetto, l’avido avvocato rappresentante degli investitori, incurante dei delicati equilibri ecologici e interessato solo ai profitti del parco. Chissà se Fidel Castro ha trovato il tempo di vedere Jurassic Park, e di recensirlo. Avrebbe potuto notare un dettaglio tutt’altro che irrilevante: c’è un ricco capitalista, nel film, che non finisce sbranato. È il buon nonnetto visionario che ha messo in piedi tutta la baracca, ma che poi si è pentito della propria tracotanza. È, in breve, l’alter ego di Spielberg. Il parco a tema inaugurato da Jurassic Park, nel frattempo, è diventato un inesauribile franchise.

Le orche anticapitaliste su questo non possono certo competere con i dinosauri, e hanno generato fin qui solo un momento di hype, un’effimera e scherzosa increspatura a fior di social network, qualche adesivo, qualche poster, qualche t-shirt. Ma sono state attratte in branco dalle vibrazioni emesse da creature più grandi di loro. Qualcuno in vena di moraleggiare ne ricaverebbe forse la lezione che l’antagonismo non può che nuotare nella scia delle trasformazioni del capitalismo; qualcun altro potrebbe biasimare il consumismo capace di consumare tutto, perfino le armi progettate per abbatterlo.

In quanto arbitro, per definizione imparziale e cornuto, non posso esprimermi, solo fornirvi la cronaca del grande match. Ebbene, chi avrà la meglio tra lo Squalo del capitalismo e l’Orca della rivoluzione? Nella realtà non c’è partita: vince l’orca, che è più grande, più veloce, più intelligente. Ma guai a confondere realtà e finzione, come dimostra il triste caso di Keiko, il piccolo di orca protagonista di Free Willy, liberato a furor di pubblico nel 2002 e incapace di sopravvivere nell’oceano dopo una vita in cattività (morì l’anno dopo). Se è nelle acque dell’immaginario che dobbiamo nuotare, un’ottima approssimazione del nostro duello possiamo trovarla nel videogioco del 2006 Jaws Unleashed, uno dei tanti tasselli del franchise nato dal film di Spielberg, dove il giocatore è chiamato a impersonare lo squalo. Ebbene, a un certo punto – è il primo grande combattimento che prevede il gioco – lo squalo finisce nella vasca di un’orca assassina, sotto gli occhi del pubblico assiepato sui gradini di un’arena. È proprio la situazione ipotetica in cui ci troviamo noi. Nel mondo reale, dicevamo, l’esito sarebbe scontato. Qui però siamo nella finzione, e al termine di un lungo e sanguinoso inseguimento sottomarino lo squalo salta fuori dall’acqua, trionfante, con l’orca tra le fauci, tagliandola in due a mezz’aria. Con l’antagonista fuori gioco, può tornare libero nell’oceano a sfogare il suo istinto predatorio e a sbranare tutti i bagnanti che crede. Eppure – garantisce anche nel videogame il sindaco – «non c’è alcuna minaccia per la sicurezza dei turisti o dei cittadini di Amity».

Guido Vitiello (Napoli, 1975), scrittore, ricercatore e docente universitario. Insegna Cinema alla Sapienza di Roma. I suoi ultimi libri sono «Una visita al Bates Motel» (Adelphi, 2019) e «Il lettore sul lettino» (Einaudi, 2021).