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Partire o restare? I rimorsi dei dissidenti

Dall’inizio della guerra in Ucraina cinque milioni di russi hanno lasciato il loro paese. Chi torna dice: basta parlare di guerra. Chi è rimasto dice: vuoi colpevolizzarmi? Chi resiste perde gli amici e si riunisce in piccoli gruppi. Cento anni dopo, il nuovo significato di esilio

Io ho perso tantissimi amici”, dice Katya Kabalina, e aggiunge che ha deciso di scrivere d’ora in poi in inglese sulla sua pagina Instagram, un altro segno di rottura con la Russia. “Uekhat” oppure “ostat’sya”, partire o restare: due verbi apparentemente neutri che per milioni di russi stanno assumendo lo stesso significato preciso e drammatico che avevano per i loro genitori e nonni. Partire, senza precisare da dove e verso dove, è l’eufemismo di emigrare, anzi, di scappare. Un tormento già raccontato da Iosif Brodsky e Sergey Dovlatov, due delle voci più addolorate dell’esilio sovietico. L’alternativa all’esilio era il grido rabbioso “Non sono partito, e non sperate, non partirò” di Vladimir Vysotsky, il bardo semiclandestino degli anni ’70. Katya, artista e curatrice che è nata in Ucraina, si è laureata a Pietroburgo e ha lavorato a Mosca, appartiene a una generazione per la quale la decisione di partire o restare è tornata a dividere vite, famiglie, amicizie. “Per me, partire è stata una decisione quasi ovvia, l’80 per cento della mia cerchia se ne stava già andando quando è iniziata la guerra, il restante 20 per cento è andato via insieme a me”, riassume Katya le statistiche della sua generazione.

Katya e il suo compagno Danila Tkachenko sono due dei circa cinque milioni di russi che sono usciti dal loro paese dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, o almeno questi sono i dati del Servizio federale di sicurezza (Fsb), che controlla anche le frontiere. In patria li aspetta l’arresto. Danila è un celebre artista e fotografo, si era inventato una performance per il 9 maggio: aveva affittato un appartamento e riempito i condizionatori appesi fuori dalle finestre di candelotti fumogeni che avrebbero dovuto detonare durante il passaggio dei carri armati diretti verso la parata militare in Piazza Rossa. Il trionfo del militarismo di Putin doveva venire coperto da una cortina di fumo giallo e azzurro, i colori della bandiera ucraina: un progetto spettacolare che gli agenti dell’Fsb sono riusciti a bloccare. Danila e Katya sono riusciti a fuggire, e la polizia è venuta a perquisire le loro case, a interrogare i loro genitori e ad arrestare un loro amico, l’artista Grigory Mumrikov, accusato di essere un complice. Dopo tre mesi, a Grigory sono stati concessi i domiciliari, ma rischia ancora cinque anni di carcere per “teppismo”, nonostante Danila giuri di non aver coinvolto nessuno nel suo piano: “Mi rendevo conto che era pericoloso, così come mi rendo conto che non potrò tornare in patria fino a che non cambierà il regime”.

Un gesto forte, una sfida esplicita e intenzionale: Kabalina e Tkachenko sono dissidenti nel senso del termine che ricorda chi combatteva il comunismo sovietico, e che oggi viene rivisitato e ridiscusso da molti dei loro compagni di esilio.

Non è dato ovviamente sapere quanti dei cinque milioni siano scappati – dal pericolo di venire arruolati, da un autoritarismo che in pochi giorni si è trasformato in dittatura militare, dalla vergogna di associarsi a un paese tornato a essere un impero del Male, dalla paura di rimanere prigionieri nel caso di chiusura dei confini – e quanti siano partiti per motivi più pratici, né quanti di loro nel frattempo siano rientrati. Non pochi, a sentire Katya: qualcuno ha finito i soldi e non è riuscito a trovare lavoro, altri hanno cominciato a temere di perdere i legami con i genitori e gli amici, altri hanno scoperto che tutto sommato non erano abbastanza contrari a una guerra di cui non condividevano forse le modalità, ma non disdegnavano del tutto le ragioni. La stragrande maggioranza di chi è fuggito dalla Russia non ha voluto chiedere l’asilo politico o un visto umanitario in Europa per non tagliare i ponti, per non mettere a rischio i parenti rimasti a casa, perché “un russo non diventa profugo come un africano qualunque”, dice sdegnato il programmista Evgeny.

Ma anche tra chi è fuggito per motivi esplicitamente politici la consapevolezza di far parte di un esodo dalle dimensioni gigantesche e prospettive incerte stenta ancora a farsi strada: “Io non mi sento un esule, preferisco considerarmi uno che è andato per tre mesi a fare uno stage all’estero”, dice Albert, giovane collaboratore di una delle tante testate di opposizione messe fuorilegge. A Riga, Vilnius ed Erevan sono scappate redazioni al completo, e intere società di informatica hanno trasferito tutti i dipendenti fuori dalla Russia: si chiama “relocation”, un termine del Business English che permette di occultare il troppo drammatico “emigrazione” o l’ancora più forte “esilio”. A Mosca, tra chi è rimasto il trend è: “Basta parlare di guerra”, e il canale HelpDeskMedia – fondato dal media manager Ilya Krasilshik, ora incriminato e ricercato per aiutare le vittime ucraine e i profughi russi a fuggire – fa raccontare ai suoi follower questo nuovo fenomeno di rimozione. Bisogna “continuare a vivere”, anche perché “tanto da noi non dipende nulla”, e quindi “non roviniamoci la vita inutilmente”: tutte frasi che chi se ne è andato si sente ripetere più volte al giorno. È così che si perdono gli amici, ma Katya pensa che allora non erano amici veri: “Gli amici sono le persone con le quali condividi le cose importanti, e per me questa guerra è importante, è la cosa più importante, è impossibile”.

Anche la risposta di chi è rimasto in Russia a questa obiezione è ormai un cliché: “Mi stai colpevolizzando”. Il senso di colpa è un altro criterio divisivo. È difficile rimproverare di complicità con il putinismo quelli che non possono lasciare la Russia, e non sono pronti ad andare in prigione per i 15 secondi di gloria che la polizia concede a chi srotola un manifesto contro la guerra in piazza. Allo stesso tempo, dalla enorme massa dei russi più giovani, colti e dinamici che si sono rifugiati tra Tbilisi, Erevan, Istanbul, Dubai e le capitali europee non è ancora nato un movimento politico corposo, dopo sei mesi di esilio.

Qualche concerto di beneficenza, un po’ di cortei e tanti salotti politici con i soliti intellettuali e oppositori, gli stessi da vent’anni. Molti russi scappati stanno aiutando i profughi ucraini – Alla Gutnikova, la giovanissima dissidente della rivista studentesca Doxa, che aveva trasformato il suo arresto in una performance sui social, dopo la fuga dalla Russia e qualche mese di silenzio è rispuntata a Berlino, dove fa la volontaria all’aeroporto – ma si fa molta fatica a fare causa comune. Chi per eccesso di sensi di colpa – “un mio amico si è messo a piangere di fronte a una ucraina, lei l’ha guardato con disprezzo”, racconta Katya – e chi per totale assenza del medesimo. Chi resta in Russia rimprovera ai partiti di aver disertato il fronte della lotta alla dittatura per godersi gli agi occidentali, chi è scappato accusa i rimasti di essere codardi conniventi con il regime, e di non voler rischiare la loro posizione. “Io non ho nulla da rimproverarmi, ho fatto la mia scelta e ho combattuto fino a che ho potuto”, dice Danila, ed è uno dei pochi a non avere esitazioni e rimorsi. Il dubbio atroce di non essere scesi in piazza quando si poteva, di non essere andati a votare quando quasi si poteva, di non essere stati l’ultima pagliuzza che ha spezzato la schiena del regime tormenta un’intera generazione, e paralizza in un dibattito interminabile e infruttuoso quella che dovrebbe diventare l’élite che costruirà un giorno una nuova Russia.

Chi è rimasto a casa a fare resistenza contro il putinismo non ha un nome, spiega Danila: “Sono divisi in piccoli gruppi, massimo 3-4 persone: quelli che stanno sabotando i binari ferroviari, per esempio. Ma non parlano con nessuno, non riescono a fare network, del resto è l’unico modo per non farsi prendere”. Partigiani sconosciuti che incendiano gli uffici di reclutamento e smontano i binari, sostenuti da anonimi graffitari che dissacrano la propaganda putiniana riempiendo le città russe di scritte “no alla guerra”. Uno slogan che molti dissidenti cominciano a mettere in discussione: potrebbe anche implicare un “pacifismo” da appeasement.

Evgeny Kiseliov – probabilmente il primo famoso giornalista russo a essere diventato esule politico a Kyiv già alla fine degli anni Duemila – conosce tutti i protagonisti del movimento liberale e li rimprovera dell’incapacità di andare fino in fondo: “Solo una vittoria militare dell’Ucraina potrà salvare la Russia dal disastro”.

Ma la leggendaria intellighenzia russa – o quel che ne resta – non ha perso il suo talento nel dividersi con barriere insormontabili, e nel restare imprigionata in un narcisismo vittimista autoreferenziale anche rispetto a una guerra che sta distruggendo a cannonate il mito della superiorità della “grande cultura russa”.

Un dilemma che molti ventenni però non hanno: Alla Gutnikova manifesta a Berlino gridando “Slava Ukraini”, nella chat Telegram dei “russi contro la guerra” si può accedere soltanto dopo aver cliccato il banner “La Crimea non è nostra”, e Danila e Katya stanno lavorando su un network di “decolonizzazione” che dovrebbe unire artisti di diversi paesi e generi. “Se ci dividiamo per correnti siamo da capo”, dice Tkachenko. Si tratta ora di scrivere un manifesto programmatico nel quale possano riconoscersi ucraini e georgiani, russi e kazaki, lettoni e bielorussi, i figli delle vittime e quelli dei carnefici, in una rivoluzione che dovrebbe recidere definitivamente il cordone ombelicale con l’impero sovietico. Se riuscirà, potrebbe produrre una via d’uscita dalla Urss

2.0 di Putin. Se fallirà, si lascerà dietro una generazione di sradicati, la quinta (la sesta? l’ultima?) ondata di immigrazione, esattamente cento anni dopo la partenza del “piroscafo dei filosofi” sul quale Lenin aveva mandato in esilio gli intellettuali di cui la neonata Urss pensava di poter fare a meno.

Anna Zafesova (Mosca, 1969), giornalista, scrittrice e traduttrice. Il suo ultimo libro è “Navalny contro Putin. Veleni, intrighi e corruzione. La sfida per il futuro della Russia” (Paesi Edizioni, 2021).