Nel suo momento di massimo splendore l’Nba è vittima di un equivoco pericolosissimo, potenzialmente letale.
L’iperretorica del campetto, dei modi bruschi e delle provocazioni, dell’umiliazione (disrespect) come valore, la partizione manichea dello sport in un mondo di vincenti e perdenti stanno creando mostri i cui effetti minano alle basi l’impero del basket professionistico. Più delle finali tra Miami e Denver si parla di Ja Morant, della sua salute mentale e della lunga squalifica che riceverà per aver ripetutamente mostrato sui social pistole e fotogrammi di una vita da gangster. Più della poesia del basket di Nikola Jokic´ si parla delle relazioni pericolose di Zion Williamson e della sua vera o presunta bigamia. Più che di evoluzione di un gioco intelligente e spettacolare si parla dell’involuzione dei suoi protagonisti, così lontani dallo scenario immaginato e coltivato da David Stern, l’uomo che guidò l’Nba dalle stalle alle stelle, trasformando un campionato di atleti rissosi e persi nei fantasmi delle dipendenze in una macchina da spettacolo e denaro come nessun’altra.
In un contesto sempre più affollato di star autoproclamate e giovani milionari con il vizio dell’autostima i miei Boston Celtics passano per essere una squadra gentile, garbata.
Perdente e garbata. Se lo dite a un americano di media cultura sportiva c’è il caso che vi possa ridere in faccia, anche sguaiatamente, ma è così che li vedo io che tifo Celtics da quando ero un bimbo. Duri, organizzati, antipatici come larga parte del loro pubblico american-irish, questo vi direbbero ma gentili no, mai riferito a una squadra che nell’Nba è sempre stata, che con l’Nba (National Basketball Association) è nata.
Invece lo sono, gentili.
Tra le molte cose che in quest’anno di sport non sono andate come avrei voluto c’è che i Celtics non hanno vinto il loro diciottesimo titolo nazionale. Li chiamano banner e sono delle grandi bandiere celebrative che vengono appese al soffitto del palazzetto: il TD Garden di Boston ne è pieno come un vicolo dei quartieri spagnoli di Napoli nel giorno di bucato. Hanno vinto moltissimo, i Celtics, ma i trionfi si sono diradati nel corso degli anni e negli ultimi quaranta ne sono arrivati solo tre (negli ultimi trenta appena uno).
Le squadre vincenti, quelle in grado di avere più stagioni felici in fila, si dice che fondino una dynasty, un gruppo di giocatori capaci di prolungare il successo. I Boston Celtics hanno avuto, sono stati la più grande dynasty sportiva della storia dell’Nba e avvicinarli sarà difficile se non impossibile. Le due bandiere di quella squadra incredibile erano Bob Cousy e Bill Russell, le due che spiccavano in una squadra di giocatori splendidi. Cousy era bianco, piccolo e funambolico, Russell era nero, alto e atletico come nessun altro. Insieme aiutarono la squadra a vincere undici titoli tra il 1957 e il 1959. Cousy si fermò a sei anelli (la squadra vince una coppa e ai giocatori vengono consegnati degli anelli celebrativi), Bill Russell stabilì un record inarrivabile di undici, di cui otto consecutivi. Russell cambiò per sempre la pallacanestro, cambiò il concetto di difesa e costrinse allenatori e tattici a ripensare agli spazi in campo, ai tiri migliori da scegliere per evitare di incrociare le braccia infinite di Bill. Russell però andò molto oltre e diventò punto di riferimento assoluto per la battaglia dei diritti civili degli afroamericani, fu amico di Mohammed Ali e partecipò attivamente a un momento di radicali cambiamenti della società americana, lui nato nel sud da una famiglia di lavoratori in cui la schiavitù era una memoria non troppo lontana.
Russell portò Boston alla gloria assoluta senza mai diventare davvero un figlio della città, che lo accolse in principio con diffidenza, con piccoli e odiosi atti di razzismo e che di rimando scatenò la diffidenza di Bill per la città. Fu un amore freddo, se mai ne è esistito uno, una storia in cui la qualità sublime di Bill in campo fece da collante. Pochi a Boston parteciparono al grande sogno di Russell, pochi si prestarono alla sua lotta.
Bill Russell se n’è andato nel luglio del 2022, fino all’ultimo è rimasto un esempio per le nuove generazioni di giocatori ma soprattutto di giovani americani. Nel 2011 Barack Obama lo premiò con la medaglia presidenziale della Libertà, massimo riconoscimento per un civile; pochi anni dopo Russell si inginocchiò contro le diseguaglianze e a sostegno di Colin Rand Kaepernick, atleta del football e protagonista di una delle campagne di sensibilizzazione più importanti degli ultimi decenni. In quella foto Bill Russell è un anziano signore serio che con grande fatica si posa sul ginocchio destro e lancia il suo messaggio di silenziosa eppure rumorosissima adesione.
In una vita lunga e piena Russell ha dovuto combattere con tanti episodi di razzismo.
Il numero 6 è stato ritirato dai Celtics tanti anni fa: nessuno potrà più indossarlo. Sul parquet del TD Garden per tutta l’ultima stagione ha campeggiato un grande 6, forse un modo per convincere la grande anima di Bill a scendere di tanto in tanto e dare qualche buon consiglio.
Da nove anni Marcus Smart gioca a Boston, ancora non ha vinto il suo campionato e a oggi è riuscito a portare a casa solo il titolo di miglior difensore dell’anno. Bill Russell amava molto Marcus Smart, gli piaceva quel piglio irredentista, la voglia di lottare sempre e comunque. Smart è una guardia e per essere ancora più precisi è un difensore d’élite che non ha paura di prendersi dei tiri nei momenti cruciali della partita. Anima della squadra, quattro anni fa Marcus ha denunciato un episodio di razzismo, uno dei tanti subìti nei suoi anni bostoniani. La cosa paradossale, il gradiente ancora più alto di tristezza per Smart è che quell’insulto sia arrivato da una sua tifosa, come a marcare i ruoli, come a dire che se sei nero vai bene in campo, funzioni in quanto circense ma a quel rettangolo si ferma la tua vita, l’adesione completa tra professione e persona.
Altrimenti non sei nero, altrimenti sei un negro.
I Celtics sono gentili, Boston non lo è.
Jaylen Brown è una delle due stelle dei Celtics. Nato in Georgia, figlio del sud come Bill Russell, Brown ha conseguito un master a Berkeley. Giocatore costruito con disciplina ed enorme dedizione, giovane uomo appassionato e leader del movimento Black Lives Matter, Brown è uno dei motivi per cui a Boston è arrivato Malcolm Brogdon in arte The President.
Così come Brown anche Brogdon vanta un titolo di studio prestigioso (Master’s Degree in Public Policy) e una presenza costante e centrale nel coinvolgimento degli atleti nella lotta politica per i diritti civili.
Insieme a loro a Boston c’è il talento del vecchio Al Horford, swingman elegantissimo, manuale di tecnica e uomo solido, c’è la vocazione al gregariato del fantastico Derrick White, c’è il gigante buono Robert Williams IIIº (detto Timelord a causa della sua idiosincrasia per le sveglie) e ci sono tutti gli attori non protagonisti di un cast che sembrava inevitabilmente destinato al successo.
Non è andata così, non sempre le squadre gentili vincono e spesso accade che vengano eliminate dai bulli.
Il talentuoso bullo che ha fatto fuori i Boston Celtics si chiama Jimmy Butler e su di lui esiste una mitologia talmente ricca e ipertrofica da spingerci a non parlarne qui. Il talentuoso che non è bullo, che gioca a Boston e che invece merita un capitolo a parte si chiama Jayson Tatum ed è l’altra stella della cosmologia bostoniana.
Tatum non è un bullo ma per ora non è nemmeno Bill Russell o Larry Bird, i numi tutelari di ogni vittoria dei Celtics.
Bird era ed è un campagnolo dell’Indiana, senza physique du rôle, senza alcuna passione per lo star system, con il dono magico del basket. Uno dei più grandi di sempre, per alcuni di noi il più grande.
Buffo o forse del tutto naturale che i due titani della tradizione green siano così lontani e diversi tra loro ma che li unisca un filo sottile fatto di sobrietà e cultura del lavoro. Tatum è un bravo ragazzo e ha forse lo stesso dono di quei due, gli manca per ora la durezza e forse la convinzione incrollabile
nei propri mezzi e nei compagni.
Jayson Tatum gira per i palazzetti di tutti gli States con il figlio Deuce, avuto appena dicannovenne e de facto adottato dall’immancabile madre di Tatum. Un po’ figlio, un po’ padre, un po’ stella e un po’ perso in questa grande confusione di ruoli pubblici, Tatum è la bandiera di questi Boston Celtics gentili che continuano a veder sfumare la vittoria sulla linea del traguardo.
Colpa sua? Colpa di Joe Mazzulla, allenatore giovanissimo subentrato a inizio stagione a Ime Udoka?
Ché le storie delle squadre gentili sono come quelle delle famiglie infelici, tutte diverse e piene di colpi di scena drammatici. Udoka lo scorso anno aveva portato i Celtics alla loro prima finale dopo tanti anni di digiuno e assenza per essere allontanato dalla panchina a pochi giorni dall’inizio della nuova stagione. Uno scandalo di quelli che l’Nba considera incompatibili con la propria etica, una relazione extraconiugale all’interno dell’azienda Celtics che è costata a Udoka il licenziamento. Joe Mazzulla ha soli 34 anni, più giovane di almeno uno dei suoi campioni. Serio, preparato, gentile e forse ancora inadeguato a quel palcoscenico.
A volte alla vittoria si arriva per gradi, a volte il manicheismo muscolare di cui sopra è solo una scorciatoia stupida e banale, a volte son le sfumature a raccontare le storie più belle.
Quella dei miei Boston Celtics a oggi è ancora un’incompiuta di cui tutti un po’ frettolosamente vogliono scrivere il finale o pensano di conoscere la soluzione.
Di certo c’è che la delusione è un bene di lusso, uno di quelli che costano troppo per i passionali, che non ci possiamo permettere. L’Nba e il suo carrozzone scintillante in fondo non sono che un’enorme stanza giochi per noi adulti, un eterno giorno della marmotta in cui tutto si ripete e solo poche variabili possono determinare esiti diversi.
Se spero che i miei Celtics smettano di essere una squadra gentile?
No, mai.
Come dicono alcuni tizi assennati a Boston, You will never regret being kind.