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Più forte dei burocrati

Ma lei questo lo può descrivere? E io ho detto: posso. Anna Achmatova e gli scrittori proibiti nella Russia sovietica: i versi a memoria, i foglietti bruciati e le pagine di corteccia di betulla nel gulag

In questo periodo terribile, in cui in occidente qualche burocrate (lo dico senza connotazioni negative) si è convinto dell’“inopportunità” della letteratura russa e dell’arte russa in generale, e si è spinto a vietare conferenze, mostre, proiezioni, concerti, a me viene in mente quella pagina di Guerra e Pace, di Tolstoj, dove Pierre Bezuchov, il protagonista, un russo che è stato catturato dai francesi nel corso della campagna napoleonica, è lì, di notte, nel recinto dei prigionieri, guarda il cielo stellato e, tutto d’un tratto, scoppia a ridere. E ride forte, e a lungo. E ride per un pensiero che gli è venuto: “Ma la mia anima immortale, come fanno a tenerla prigioniera?”. Con la letteratura russa, è uguale. Come fanno a tenerla prigioniera? Tanti anni fa, a Mosca, dovevo trasferirmi dal centro in periferia, in una casa celebre, dietro al Cremlino, dove aveva abitato anche la figlia di Stalin. La mia insegnante di russo mi ha detto che su quella casa era stato scritto un romanzo, La casa sul lungofiume, di Jurij Trifonov, e mi ha chiesto se l’avevo letto. “No”, le avevo risposto, “e tu l’hai letto?”. “Per forza, l’ho letto”, mi ha detto lei, “era proibito”. I libri proibiti, nella Russia sovietica, circolavano più e meglio di quelli non proibiti, la gente li batteva a macchina e se li passava e libri memorabili come Il Maestro e Margherita, di Bulgakov, Requiem, di Anna Achmatova, o Mosca-Petuški, di Venedikt Erofeev, li avevano letti tutti prima ancora che fossero stampati. Requiem, di Anna Achmatova, ha una storia singolarissima. Alla Achmatova avevano ucciso due mariti e avevano arrestato il figlio, e lei faceva delle lunghe code davanti al carcere di Leningrado, Le croci. Una volta “una donna che stava dietro di me, con delle labbra blu e che, naturalmente, non aveva mai sentito il mio nome, si è riscossa dal torpore che ci avvolgeva tutti e mi ha chiesto in un orecchio (lì sussurravano tutti): ‘Ma lei questo lo può descrivere?’

E io ho detto:

‘Posso’. Allora una cosa che sembrava un sorriso è scivolato lungo quello che una volta doveva esser stato il suo viso”, ricorda l’Achmatova. E si è messa a scrivere Requiem, o piuttosto a pensare Requiem, non si azzardava a scriverlo perché aveva paura che glielo sequestrassero. Allora aveva chiesto aiuto a delle amiche. Una di queste, Lidija Cˇukovskaja, racconta come faceva: “Anna Andreevna, quando veniva a trovarmi, mi recitava versi di Requiem in un sussurro, ma a casa sua, alla casa sulla Fontanka, non si risolveva neppure a sussurrare; d’un tratto, nel bel mezzo del discorso, si interrompeva e, indicandomi con gli occhi il soffitto e le pareti, prendeva un pezzetto di carta e una matita; poi diceva ad alta voce qualcosa di molto frivolo: ‘Volete del tè’, oppure: ‘Come siete abbronzata!’, scriveva velocemente fino a riempire il foglietto e me lo porgeva. Io leggevo i versi e, quando li avevo impressi nella memoria, glieli restituivo in silenzio. ‘L’autunno è venuto così presto’, diceva Anna Andreevna ad alta voce e, acceso un fiammifero, bruciava il foglietto in un posacenere.

Era un rito: le mani, il fiammifero, il posacenere – un rito splendido e doloroso”. Tanti anni dopo, Achmatova era ormai celebre, considerata, era stata più volte all’estero e ci si aspettava che da un momento all’altro le conferissero una onorificenza da Oxford, il “Mantello di Oxford”, o qualcosa del genere. Una volta era a casa sua con Lidija Cˇ ukovskaja, le avevano portato un libretto fatto a mano, dei foglietti di corteccia di betulla sui quali erano tracciati, graffiati, i versi di Requiem. Veniva da un gulag. I prigionieri di quel gulag avevano bisogno delle poesie di Anna Achmatova. E le poesie di Anna Achmatova avevano trovato il modo di arrivare fino a loro. Lidija Cˇuckovskaja, visto questo libretto (che si trova ancora nella casa museo sulla Fontanka) aveva detto all’Achmatova “Questo vale più di cento mantelli di Oxford”. E aveva ragione. La letteratura russa è stata più forte dell’esercito sovietico, del politburo, del terrore, della guerra, dei gulag, sarà più forte anche dei nostri burocrati (e lo dico senza connotazioni negative).

Paolo Nori (Parma, 1963), scrittore e traduttore. Ha curato diverse opere di autori russi. Ha pubblicato, tra gli altri, “Le cose non sono le cose” (Fernandel, 1999), “Bassotuba non c’è” (Derive Approdi, 1999), “Si chiama Francesca, questo romanzo” (Einaudi, 2002), “Noi la farem vendetta” (Feltrinelli, 2006), “I malcontenti” (Einaudi, 2010), “Le parole senza le cose” (Laterza, 2016), “La grande Russia portatile” (Salani, 2018), “I russi sono matti” (UTET, 2019), “A cosa servono i gatti” (Terre di mezzo, 2021, illustrato da Andrea Antinori), e “Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij” (Mondadori, 2021).