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Quale allegria nel paese dei balocchi

In Thailandia gli ormai noti turisti del sesso ora si confondono con i turisti della cannabis, diventata legale lo scorso anno. La scommessa economica, quella politica e lo sconvolgimento di un posto che ha tra i suoi pilastri culturali il divertimento, ma è sempre meno felice

Un fumo dall’odore speziato si diffonde nelle spiagge e nei locali della Thailandia. Sembra di essere tornati agli anni in cui questo era un terminale per i giovani lungo le vie dell’Asia: è ancora tempo di sesso, droga e rock’n’roll. «La prostituzione è illegale, ma sappiamo come vanno queste cose. Capisci cosa intendo». Il giornalista Pravit Rojanaphruk spiega così, con un esempio che in Thailandia capiscono tutti, le contraddizioni create dalla legge che dovrebbe regolamentare la vendita e l’uso della marijuana e della cannabis. Una legge che è la metafora di un modo di pensare e che negli ultimi mesi, in coincidenza con la riapertura dopo la pandemia, condiziona turismo ed economia.

Secondo la legge del 16 giugno 2022 la marijuana, la cannabis e i prodotti derivati con meno dello 0,2 per cento di Thc (tetraidrocannabinolo, il principale componente psicoattivo) non sono più classificati come narcotici bensì come “erbe controllate”. Il problema è che fatta la legge, esattamente come per la prostituzione, si sono trovati molti modi per eluderla. La Thailandia è diventata un Wild Wild West. La marijuana è usata in cibi, gelati, biscotti, bibite, infusi, medicine, condimenti, cosmetici, in centri benessere e in corsi di yoga, venduta online e in circa cinquemila punti vendita (quasi tremila nella sola Bangkok) aperti negli ultimi nove mesi, riforniti da oltre un milione di produttori che hanno ottenuto la licenza di “Plook Ganja” (coltivazione di marijuana).

«La Thailandia è una zona grigia riguardo questi problemi. La legge non è precisa e si presta a molte interpretazioni, da parte dei venditori e da parte dei clienti. E il governo chiude un occhio», dice Pravit, in prima linea nell’opposizione a un governo che trae origine da un colpo di stato militare. Ha pagato i suoi articoli con due periodi in carcere per un eufemistico attitude adjustment. Ma non ha cambiato modo di pensare. «E’ una questione politica. Chi sostiene questa legge è appoggiato dai coltivatori e dai venditori, che possono rivelarsi decisivi nelle prossime elezioni». È una forma di voto di scambio: il governo ha già regalato un milione di piante ai proprietari di un piccolo pezzo di terra. Al contrario, chi si oppone alla legge rischia pesanti ritorsioni. Come il dottor Supat Hasuwannakit, funzionario del ministero della Sanità, uno dei maggiori critici dell’uso della cannabis, che è stato trasferito in una città dell’estremo sud thailandese, la regione in cui si susseguono gli attentati dei separatisti islamici.

L’anima politica di tutte queste manovre è Anuthin Charnvirakul, attuale viceprimo ministro e ministro della Sanità, leader del Bhumjaithai Party (il Partito dell’orgoglio thai), il promotore della legge. A quanto dicono ha anche un interesse personale, dato che tra i beni di famiglia c’è una coltivazione di cannabis. In un video che risale a prima delle elezioni del 2019, Anuthin decantava i benefìci medici della marijuana, ma anche il suo uso ricreativo domestico. In compenso, tanto per aumentare la confusione e la difficoltà nel comprendere il modo di pensare di questa parte di mondo, Anuthin sostiene la legge che vieta l’uso e il semplice possesso di sigarette elettroniche, punito anche con cinque anni di carcere. «La legge sulla marijuana è un po’ come quella sulla vendita di armi negli Stati Uniti. È una questione di soldi», dice ancora Pravit. In questo caso si parla di un business che entro il 2025 dovrebbe raggiungere 1,27 miliardi di dollari per poi decuplicare entro il 2030. «Poi c’è l’elemento corruzione: c’è chi guadagna parecchio per offrire protezione».

In realtà la legge è l’ennesimo punto di contrasto tra i cosiddetti “gialli”, i sostenitori dell’ammart, l’aristocrazia militare ed economica, e i “rossi”, appartenenti alle classi popolari, seguaci dell’ex premier Thaksin Shinawatra, deposto da un colpo di stato nel 2004, che aveva condotto una guerra alla droga a colpi di esecuzioni extragiudiziali. Se alle prossime elezioni vincerà il Peua Thai, il partito populista che candida Paetongtarn Shinawatra, figlia di Thaksin, la marijuana tornerà nella lista dei narcotici – fuorilegge. Dal punto di vista di Pravit la legge è l’ennesima espressione di un sistema malato: «Le regole qui cambiano rispetto all’occidente, la legislazione sulla droga non si lega a una posizione ideologica ma opportunistica».

Per i conservatori «è una valvola di sicurezza», dice Sandro Calvani, ex direttore dell’Unicri, lo United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute, e dirigente dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la droga e il crimine (Unodc) che da anni lavora per la Mae Fah Luang, una fondazione impegnata nella riconversione delle piantagioni da oppio: «I territori che hanno caffè di alta qualità o durian di classe A hanno un pil alto. La stessa cosa può accadere con la cannabis», spiega Calvani. E la marijuana può davvero rappresentare un’importante alternativa al durian, un frutto puzzolente e dal sapore acre che gli asiatici considerano una specie di manna. «Solo in questo modo, con uno sviluppo alternativo, si possono risolvere, almeno in parte, i problemi di una società sempre meno felice, dove le tensioni sociali sfociano nell’odio». Secondo Calvani, dunque, la lotta alla droga non si risolve con il proibizionismo ma con un miglioramento delle condizioni di vita, bisogna combattere le cause, non gli effetti: «È un fenomeno che non si può fermare, come l’acqua del Mekong».

«La ricerca della felicità in modo naturale. Il piacere di rilassarsi, di stare bene. Tutto questo non ha nulla a che fare con la droga». Anche Poo Yai ha una visione al tempo stesso pragmatica e arcadica del problema. È un uomo che per tutta la vita ha operato in un settore in cui è facile crearsi dei nemici: la riconversione della coltura da oppio. Lo ha fatto e lo fa in Thailandia, in Birmania, in Afghanistan. È per questo che preferisce non apparire. Poo Yai, come l’abbiamo chiamato, significa semplicemente “anziano”, un appellativo di rispetto molto usato nei villaggi di campagna. Lui vive in un villaggio nell’estremo nord della Thailandia, quasi al confine con la Birmania. Di fronte alla sua villa, un misto di design occidentale e architettura tradizionale, tre grandi serre ospitano 2.435 piante di cannabis. Secondo lui questo tipo di coltivazione è un modo di opporsi al monopolio dei grandi gruppi, ai signori della guerra.

«È cannabis, non marijuana», precisa. In questa distinzione sta la prima grande confusione: cannabis e marijuana non sono due piante diverse, sono due nomi diversi per la stessa pianta della famiglia delle Cannabaceae. Convenzionalmente la marijuana ha una percentuale maggiore di Thc, la cannabis di Cbd, il cannabidiolo. «La marijuana ti tira su, ti dà la carica. È per i giovani. La cannabis ti fa dormire, ti dà relax. È per gli anziani», spiega Khun Poo Yai, adattando la mimica facciale alle diverse condizioni per poi guardarmi con un sorrisetto mentre parla della cannabis. «La cannabis è come il mango. Ce ne sono tanti tipi ma alla fine sempre mango è».

Il giorno seguente, tornando alla piantagione per altre foto, al posto di Khun Poo Yai c’è la giovane responsabile della piantagione. Gironzolando per i campi attorno, vedo un gruppo di alberelli ben più cresciuti rispetto alle piante nelle serre. «Quella è marijuana, non cannabis», dice la ragazza con orgoglio, accarezzando le grandi foglie.

«La Thailandia sta diventando una specie di free zone. In commercio trovi marijuana e cannabis di ogni tipo. Alcune molto potenti. Senza contare che la cannabis può essere mescolata ad altre sostanze», dice Jeremy Douglas, rappresentante per il sud-est asiatico dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la droga e il Crimine (Unodc). Anche lui paragona questo mercato a quello del sesso. «Ci sono tanti negozi di cannabis quante sale massaggio. In questo settore, però, i piccoli chiuderanno, i grandi diventeranno più grandi e i produttori faranno i soldi veri». A conferma di ciò un piccolo commerciante lamenta una corsa al ribasso, mentre i grandi player che fanno il mercato globale aspettano che la situazione si regolarizzi. Douglas non fa commenti politici, o legislativi. Si limita a rilevare che le regole non sono osservate e che gli stessi funzionari thai ammettono che ci sono problemi di controllo. «Dobbiamo essere realistici: la situazione può essere pericolosa. Già molti giovani thai sono finiti in ospedale». In effetti nel 2022 i dipendenti da marijuana sono aumentati e tra loro si conta il 17 per cento dei pazienti psichiatrici che sono stati sottoposti a cure intensive, la percentuale più alta degli ultimi cinque anni.

Quello che Douglas teme di più, tuttavia è «l’effetto contagio. Altre nazioni stanno guardando alla Thailandia». Non lo dice, ma c’è da credere che si riferisca soprattutto a Laos e Cambogia, attratte dal miraggio di guadagni facili sia col commercio della cannabis sia col turismo indotto. Senza contare gli investimenti esteri come quelli di un grande gruppo malese che sta pianificando la costruzione di “One-stop cannabis entertainment center”.

La cannabis è già diventata la nuova attrazione turistica della Thailandia. È come se si fosse tornati agli anni Settanta, quando era la destinazione di culto per i giovani della hippie generation. «Per il 99 per cento, i clienti sono farang, stranieri», dice una commessa di un locale di Khao San Road. «Il bello qui è che puoi fumare dappertutto. Non come a Thonglor dove trovi sempre qualcuno a cui dà fastidio». Locali così li trovi in tutta la città, anche a Thonglor, la via dei condomini di lusso, ma Khao San resta il punto zero per i giovani occidentali che cercano un guru, un party, un mito lungo le vie dell’Asia. E forse la donna anziana che entra nel locale, oltre che un po’ di roba, cerca soprattutto un ricordo.

Apparentemente, la Thailandia ha infranto il progetto dell’Asean di creare una comunità drug-free e ha rotto il fronte di tolleranza zero del sud-est asiatico nei confronti delle droghe. Basti pensare che negli ultimi dodici mesi a Singapore sono stati impiccati quattro uomini per traffico di droga. In realtà alla “liberalizzazione della cannabis” non ha corrisposto un cambio di politica riguardo alle altre droghe. Per il traffico di stupefacenti in Thailandia è ancora in vigore la pena di morte (per quanto non sia stata comminata negli ultimi dieci anni) e migliaia di tossicodipendenti sono detenuti in “centri di riabilitazione”. Nel febbraio del 2023 sono state emanate norme ancor più severe riguardo metanfetamine e stimolanti a base di amfetamine (Ats): chi sia trovato in possesso anche di una sola pillola è considerato spacciatore e non consumatore e rischia fino a vent’anni.

Questa stretta è stata determinata dal boom della produzione di Ats da parte dei sindacati birmani e, soprattutto, dalla strage compiuta il 6 ottobre del 2022 da un ex poliziotto tossicodipendente che ha ucciso 37 persone, molti bambini. La strage non ha alcuna connessione con la marijuana, ma quell’episodio ha profondamente colpito il sentimento popolare, che non fa distinzione tra droghe. Anche questo è l’espressione del modo di pensare asiatico secondo cui bisogna creare un equilibrio. Lo stesso principio è seguito dal Supremo Concilio del Sangha, la comunità monastica thai: i monaci non possono fumare o coltivare cannabis ma la possono utilizzare per curare i malati.

È sempre la ricerca dell’equilibrio, della giusta via di mezzo, che regola l’uso della cannabis nella medicina tradizionale. «La cannabis era alla base dell’autoterapia, la cura di sé, un sistema olistico che doveva prevenire le malattie», dice Thongchai Lertwilairattanapong, direttore del dipartimento di Medicina Tradizionale e Alternativa Thai.

«La cannabis è usata come pianta medicinale da cinquemila anni, è citata in oltre quarantamila ricette del Kampee That Phra Narai, il primo testo di medicina thai, trascritte durante il regno di Narai il Grande, oltre 350 anni fa». Il dottor Thongchai è un cultore di antichi testi e la sua ricerca può apparire filologica, ma è proprio in questa chiave che il suo dipartimento sta rivalutando le forme di automedicazione che si sono diffuse nelle comunità rurali del nord e del nord-est. «Noi promuoviamo la conoscenza di questa medicina che è un lascito della nostra cultura», dice Thongchai con orgoglio: «La missione del nostro dipartimento è diffondere la medicina tradizionale. E oggi sono molti gli stranieri che vengono a studiarla». Secondo lui, quindi, la Thailandia dovrebbe perfezionare la legge per creare un nuovo modello nell’uso della cannabis a scopo medico.

Intanto i grandi ospedali privati che hanno fatto di Bangkok uno dei centri mondiali dell’hospitality, ossia il turismo medico non solo per un check up ma anche per le terapie, si stanno attrezzando con reparti in cui la cannabis è applicata nei disturbi del sonno, per l’ansia, la terapia del dolore. Negli ultimi tempi, poi, la marijuana viene definita un game changer, qualcosa che può ridefinire le regole nel trattamento dei sintomi del long Covid.

Alla fine, per riprendere uno degli elementi imprescindibili nella cultura thai, va rilevata l’iniziativa di un gruppo di legislatori che vuole presentare in Parlamento una legge per la legalizzazione della prostituzione, un settore che fattura quasi sette miliardi di dollari l’anno. Sempre per rimanere nell’ambito del sanuk, il divertimento, che è una delle colonne della cultura e dell’economia thai, il ministro dell’Agricoltura Chalermchai Sri-on si è fatto promotore dell’uso della gomma thailandese per la produzione e la vendita a livello mondiale di sex toys. Considerando che, secondo la legge in vigore, la pena per il commercio o il possesso di sex toys può arrivare a tre anni di carcere, be’, ormai abbiamo capito come qui in Thailandia vanno certe cose.

Massimo Morello (Ancona, 1949), giornalista freelance. Dal 2006 vive a Bangkok dove si occupa principalmente di sud-est asiatico. Il suo ultimo libro è «Burma Blue» (Rosenberg & Sellier, 2021).