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Quarant’anni e non sentirli

Stefano C. mi ha messo nella chat di whatsapp per la storica riunione dei coetanei del mio paese. Il dialetto e le foto di come eravamo, la festa del santo patrono, la chiesa. Noi spatriati torniamo a casa, confusi. Che ci faccio qui, ma anche: voglio stare per sempre qui. Le teste calve dei bambini da un lato, le teste tinte delle bambine dall’altro

Stefano C. mi ha chiesto il tuo numero”, mi ha scritto un giorno una mia amica del paese. Io mi sono

fermata a pensare al motivo per cui lo potesse volere. Stefano C., mi si è acceso un po’ il cuore.

È uno del mio paese, e quindi è stato anche un mio compagno dell’asilo, delle elementari e delle medie. In un attimo, mi sono rifugiata con la mente per le strade dove ho abitato fino a vent’anni, da cui manco precisamente da altri venti, e ho rifatto il tragitto dalla mia vecchia casa fino a scuola, passando sotto casa di Stefano C., spiandolo uscire e poi riprendendo il cammino qualche passo dietro di lui.

Sono ritornata, così, una bambina che va a scuola. E sono ritornata in fretta anche a Stefano C., che non era solo un mio compagno di banco, era soprattutto il mio fidanzato.

Fidanzati senza esserci mai baciati, ma sempre in cerca l’uno dell’altro: per vederlo facevo sega al catechismo e mi mettevo le gonne un po’ più corte del solito. Lui per me, invece, il sabato pomeriggio rinunciava ai suoi pochi soldi pagandomi le mezze pizze che mangiavamo seduti sui gradini di un emporio. E così eravamo felici.

Gli anni che sono trascorsi da quelli in cui ci rincorrevamo per le vie del paese non ci hanno allontanato davvero, non ci siamo mai persi di vista io e lui, e abbiamo continuato a piacerci, da lontano e in silenzio.

Ho pensato a tutto questo quando la mia amica mi ha detto di avergli passato il mio numero. Ho detto: “Ora ci prova”, invece ha fatto molto di più.

Mi ha messo in una chat.

Sono stata una delle prime a essere inserita, quindi mi sono goduta lo spettacolo di vedere una a una le persone che venivano aggiunte. Nomi che si susseguivano e si accavallavano, alcuni mi ricordavano qualcosa, altri erano comuni se non uguali tra loro, altri ancora non mi dicevano niente. Sino a che Stefano C. non ha dato un nome a questa chat: 40 anni e non sentirli.

A quel punto ho capito perché mi aveva cercata, e cosa ci facevo lì.

Ero dentro la chat di chi, al mio paese, San Donato in provincia di Lecce, cinquemila anime leggiadre e niente più, compiva (e compie) quarant’anni nell’anno in corso. “Na 80 ina simu”, ha scritto Stefano come

prima frase nella chat, all’interno della quale il dialetto era la lingua ufficiale. Ottanta bambini che per anni non si erano allontanati mai gli uni dagli altri, sempre legati agli stessi banchi della scuola, alla stessa strada dove uscire da adolescenti, alle cene in casa tra genitori, e che poi, da un momento all’altro, si sono detti quasi addio, io non ti conosco più.

Queste persone, una di seguito all’altra, comparivano nella lista della chat. Una chat che sin dalle prime battute mi ha chiesto di essere presente, attiva, scrivente. Mi ha chiesto di andare di nuovo a scuola. E io non mi sono tirata indietro.

“Buongiorno”. “Buongiorno con un fiore”. “Buon martedì”. “Buon martedì con una tazza di caffè”. “Buon martedì col caffèlatte”, “Buongiorno, sta bba fatiu”, “Ci sinti ca scrie alle 6 de matina?”, “Lu Cesare D.”, “Ah, buongiorno. A proposito, ma lu Cesare S. l’ati aggiuntu?”, “Sì sì, ma nun bole cu ci stae intra alla chat, dice per motivi di privacy”. “Di privacy, e cce bbe sta privacy?”. Cuore, gatto che ride, cuore che ride.

In breve tempo mi abituo al buongiorno di persone di cui ricordo pochissimo o che in alcuni casi addirittura non riconosco. Di alcuni, dei più attivi in chat e di quelli a cui riesco ad associare un viso, memorizzo il numero in rubrica così che diventi più facile leggere i molti messaggi che arrivano, distinguerli l’uno dall’altro.

Dopo un mese dalla sua creazione identifico solo una parte dei partecipanti, li riconosco e li differenzio dagli altri. E quelli che rimangono? Decido di affidarmi alle foto identificative del loro whatsapp personale. Le guardo, le sbircio, le fotografo e le ingrandisco. Ma non mi aiutano, ci sono infatti molte immagini di bambini – i loro figli – e la discendenza fisiognomica per me è una derivazione impossibile da fare. Mi cruccio per le mie dimenticanze, e mi tormento chiedendomi come si possano scordare le persone con le quali si è passato tanto tempo della propria vita. Sono andata via dal mio paese e ho così innalzato un muro nella mia memoria.

Allora mi viene in mente di chiamare mia madre. Lei che vive a San Donato circondata di cassetti pieni di ricordi, mentre io sono lontana e non ho niente che mi faccia ricordare i miei anni di scuola, i miei anni felici.

“Cerca nei cassetti, tira fuori i compleanni delle medie in cui ero bruttissima, o gli scatti della comunione vestita di bianco”, le dico. “Rivolta tutta la casa ma trovale queste foto di quando, a scuola, stavamo bene e avevamo tutti i capelli in testa”.

Mia madre, il pomeriggio dello stesso giorno, mi manda alcune foto, fotografate dal suo vecchio cellulare: la nostalgia di quelle immagini mi strazia. Ci sono io con una felpa a fiori da cui non mi separavo mai, Stefano C. sempre accanto a me con una maglietta verde con la macchinina. Io col vestito da sposina della comunione, Stefano C. sempre accanto a me con il papillon rosso. Ancora io con la gonna della domenica, quella che avevo comprato per far vedere le gambe a Stefano C. Guardo lui prima degli altri, cerco di ricordarmi perché è successo che non ci siamo mai baciati e non lo ricordo. Poi guardo tutti gli altri miei amici del paese, nessuno è morto, penso.

Quelle foto diventano preziose per tutti, le condivido e nella serata la chat viene inondata di altre immagini sgranate, colorate con i colori accesi degli anni ’80 e ’90, rimandate di volta in volta con uno zoom su qualcuno che è ritratto in una posa buffa, per cui è divertente prenderlo in giro oggi, ad anni di distanza. Ma oggi, oggi come siamo? Come facciamo a riconoscerci dopo tutti gli anni passati lontani gli uni dagli altri, impegnati a cambiare, in qualche caso proprio per non farci riconoscere? Come siamo oggi?

“Allora quannu ne itimu?”, domanda Donato C. (uno dei tre Donato C. di San Donato nati nello stesso anno). Ed è questa la domanda davvero attesa, perché se c’è un senso in questa chat è quello che ha lo scopo di farci ritrovare, di rimetterci insieme dopo trent’anni o poco meno che non ci vediamo. Di avvicinare soprattutto noi, gli spatriati, gli abbandonanti, i senza casa, i confusi. Noi che siamo andati via, che abbiamo lasciato tutto e tutti, famiglia e amici, e abbiamo scelto nel cento per cento dei casi di andare su, risalire la penisola, arrivare sino a Milano, a Torino, a Trieste addirittura.

Siamo noi che dobbiamo scendere per vedere gli altri, per farci accogliere, figlioli prodighi, dal paese che ci ha amato e cresciuto come un grande padre.

Non ci sono tante alternative, agosto è il mese giusto, qualche giorno dopo la festa del santo patrono, San Donato, nostro padre appunto.

Si torna a casa… l’entrata al paese che preferisco è quella dalla circonvallazione. Ai lati della strada, gli alberi di ulivo consumati; lì davanti il piccolo paese acceso dalle luminarie. Non ho perso una sola festa del santo, ogni anno sono giù al paese e tutte le volte penso a che cosa ci faccio qui, al fatto che non sarei mai dovuta venire, e che non vedo l’ora di tornare a casa.

Eppure non posso farne a meno. La festa di San Donato è l’occasione in cui io, negli anni, ho rivisto l’uno o l’altro dei componenti di “Quarant’anni e non sentirli”. Rivederli significa incontrarli per strada, sugli scalini della scuola media, riconoscerli solo in alcuni casi, salutarli con un “Tutt’apposto?” e sentirsi rispondere “Tutt’apposto”; oppure rivolgergli un sorriso debole, passare avanti e pensare che stanno ancora là, come me, vivi e tornati di proposito per festeggiare il santo.

Ma averci davvero a che fare con le persone con cui sei cresciuto è un’altra cosa. Sentirli parlare, vedergli addosso l’età, il tempo passato, gli anni. Avvertire che tutto è cambiato, percepire la fortuna e la sfortuna che sono cadute su ognuno di loro, immaginare le vite che hanno fatto, se si sono evoluti o se sono rimasti dov’erano. E domandarsi in continuazione se desideri appartenere a loro o preferisci allontanarli come fossero bestie feroci.

Andiamo al ristorante? Certo che sì. Due primi e due secondi? Non risparmiamoci. Prima ci facciamo benedire in chiesa? Non vedo l’ora di assistere a una messa, c’è pure la statua del santo fuori dalla nicchia. Paghiamo l’animazione per la festa, canti e balli mentre mangiamo? Assolutamente, l’animazione è tutto!

La chat va avanti così, a suon di proposte strabilianti fino a che non si giunge alla conclusione che tireremo fuori 50 euro da lasciare alla ferramenta di Carlo S., mentre arrivano anche le liste aggiornate di chi potrà esserci e di chi deve rinunciare.

Ma rinunciare ad esserci, quando sei vivo, è facile. È quando muori che è complicato. Un giorno mi sveglio e la chat è piena di messaggi, molto più piena del solito. “Condoglianze”, “Ma come è successo?”, “Io so che era malato da tempo”, “Io non sapevo niente, sono sconvolta”, “Stefano condoglianze a te e a tutta la famiglia.”

È successo qualcosa a Stefano C., ripercorro la chat, che è lunga ma ce la faccio, arrivo sino alle cinque del mattino e trovo le prime condoglianze, ma non riesco a capire comunque che cosa sia successo. Allora non mi resta che chiedere alla mia compagna di banco, anche lei nella chat come me, anche lei del mio paese, ma che a differenza mia ha deciso di restare, ed è una delle persone più aggiornate che conosco su quello che succede a San Donato.

“Te lo ricordi Maurizio R., il cugino di Stefano C.?”, mi chiede. No, certo che non me lo ricordo. Prova a descrivermelo nell’aspetto fisico, ma quella descrizione a me non serve a niente. Allora prende una foto di quelle che erano arrivate in chat qualche tempo prima e lo evidenzia, bambino, con un cerchio rosso che non dimenticherò mai.

Certo, ora lo riconosco, ora so chi è. Maurizio R. è morto per una malattia che si portava dietro da tempo, ma nessuno si aspettava che accadesse adesso.

Mando un messaggio di condoglianze privato a Stefano C., e cerco di non affliggermi per la morte di un ragazzo che non vedevo da circa 25 anni. Ma devono passare dei giorni prima che io e tutta la chat di “40 anni e non sentirli” ci riprendiamo da questa morte. Lo facciamo solo quando torna a scrivere Stefano C., dopo alcuni giorni, e ci catapulta ancora in quello stato di eccitazione febbrile. La messa, la cena, la festa… siamo di nuovo pronti a tutto.

Metto un vestito carino, quello che in assoluto mi sembra più carino tra quelli che ho nell’armadio. È uno strazio guardarmi e vedermi addosso tutti questi anni passati, soprattutto gli ultimi quattro, quelli che mi hanno cambiata di più dopo la gravidanza e la nascita di mia figlia, sia nel corpo che nella testa. Ma per questa sera faccio in modo che non me ne importi troppo e metto un vestito corto e scollato, il peggio che posso fare. Mi faccio tormentare dall’idea che tutti, guardandomi, restino convinti del fatto che ero una bambina carina e carina sono rimasta, il tempo non ha corso su di me.

L’appuntamento è in chiesa e quando entro, quello che vedo sono tutte le teste calve dei bambini messe su un lato della navata, e le teste tinte delle bambine dall’altro lato, tra bionde innaturali, corvini brillanti e nessun filo bianco. Spontaneamente si sono divisi in maschi e femmine, come a scuola, perché sempre a scuola si torna.

In chiesa, a farci benedire da Don Riccardo, ci sono anche i genitori di Maurizio R. È a lui che abbiamo deciso di dedicare la messa, e i genitori non potevano mancare. Per ringraziarci di questo gesto, poi, hanno deciso di portarci a fare un aperitivo al bar di Alberto e io l’ho trovata un’idea grandiosa.

Siamo stati al bar della piazza di San Donato, davanti agli scalini della scuola media da qualche anno ristrutturata, e abbiamo bevuto e mangiato schifezze con la foto di Maurizio R. appoggiata sul tavolo, in mezzo a noi, mentre suo padre ci riempiva i bicchieri e sorrideva forse per la prima volta da molto tempo.

Ci siamo preparati così alla grande festa, che è arrivata poco dopo, quando in macchina – io in quella della mia amica esperta di cose di San Donato – abbiamo percorso i pochi chilometri che ci separavano dal ristorante. Siamo scesi dalle auto, abbiamo salutato i pochi che non c’erano all’aperitivo e quando li ho visti tutti lì, riuniti, vicini, sorridenti e ciarloni, mi sono improvvisamente ricordata di ogni faccia. Donato C., Donato C., Federica B., Valentina D., Andrea G. e tutti gli altri. Mi sono ritornati alla memoria in un momento, e ho scoperto che per quanto avessimo un aspetto diverso, dentro ognuno era rimasto qualcosa e chiaramente quel qualcosa era un bambino.

La festa è cominciata subito. Il cibo nei piatti era abbondante e sfarzoso, buono non lo so ma era tanto, due primi e due secondi, vino senza limiti, scarsissimo e dolce. La musica era fastidiosa al punto giusto, e l’animazione così volgare che non si finiva di ridere. Abbiamo giocato a Ciao Darwin, con le squadre dei maschi e delle femmine che si esibivano in karaoke, balli di gruppo e sfilate di moda; ho indossato una parrucca e imbracciato una chitarra. Non mi sono tirata indietro mai.

Stefano C. era uno dei pochi a non essere cambiato, bellissimo, e ho sperato tutto il tempo che ci provasse ancora con me. Ma non l’ha fatto, a parte uno sguardo compiaciuto con cui ha approvato il mio vestito.

Nonostante questo, ho pensato comunque che quello fosse il paradiso. Ho pensato di volerlo rifare sempre, ogni anno. Ho pensato di voler tornare a casa, di volermi trasferire a San Donato, nel mio guscio, di nuovo, a casa mia con mia madre e mio padre, ed essere bambina ancora per poter stare con queste persone qui.

Dopo qualche giorno dalla festa, un pomeriggio che mi sono addormentata sul mio divano di ciniglia, a San Donato, e il caldo era impossibile, mi ha svegliato un messaggio della chat di “Quarant’anni e non sentirli”. Conteneva una mia foto con la parrucca e la chitarra in mano, davanti a un microfono, circondata da tutti quei bambini amici miei.

Ho fatto una smorfia di disgusto, e mi ha attraversata come un dolore, che contrastava con tutta l’allegria che leggevo dentro quella immagine.

Allora mi sono chiesta a quale vita appartenessi, se a quella del paese, nella mia vecchia casa, o a quella di oggi, lontana dai ricordi.

Non ho risposta a questa domanda, che mi tormenta sempre. Perché forse è proprio lì che sto, in bilico tra una casa e l’altra, tra una vita e l’altra, mentre aspetto ancora che Stefano C., prima o poi, provi a baciarmi per la prima volta.

Ilaria Macchia (San Donato, 1981), sceneggiatrice e scrittrice. Ha pubblicato “Ho visto un uomo a pezzi” (Mondadori, 2017). La sua ultima sceneggiatura è “La Storia”, serie tv ora in fase di riprese.