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Questa è la nostra vita: gli Auster

Da quarant’anni Paul Auster vive a Park Slope, a pochi metri da dove ha perso prima la nipotina Ruby e poi il figlio Daniel. Intrecci umani, letterari e newyorchesi nel mistero tragico di un padre e di una madre, quando il talento non serve a niente

Il 26 aprile 2022 Daniel Auster, anni 44, figlio dello scrittore Paul e della scrittrice e traduttrice Lydia Davis, viene trovato incosciente sul binario nord della stazione Clinton/Washington Avenue di Brooklyn. Pochi giorni prima era stato arrestato e rilasciato su cauzione in attesa del processo per l’omicidio colposo della sua bambina di dieci mesi, Ruby, scomparsa a novembre dopo aver ingerito eroina e fentanyl mentre Daniel, strafatto, dormiva sul letto del loro appartamento di Park Slope.

Daniel muore poche ore dopo al Brooklyn Hospital Center. Causa del decesso: overdose accidentale di stupefacenti. Quella parola – accidentale – viene scritta più volte sul verbale della polizia, e ribadita dagli agenti in tutte le interviste: la dose di stupefacenti assunta quel giorno da Auster non era diversa dal solito. Il padre omicida negligente non si è ammazzato.

Nel grande album mai scritto sugli Auster – quello che Paul ritrova nella casa del padre, completamente vuoto ma con il titolo dorato in copertina Questa è la nostra vita: gli Auster – di certo un capitolo sarebbe dedicato a New York. “Cara, sporca, divoratrice New York,” (4 3 2 1, Einaudi). Da quando Paul Auster mette piede in città – squattrinato, infelice per la fine dell’amore con Davis, confuso sulla modalità espressiva del suo talento e con il fantasma del padre – non è solo la vita interiore che si lega alla città dando vita ai suoi romanzi di culto: Trilogia di New York, Follie di Brooklyn, Sunset Park (Einaudi). La sua penna – non è un modo di dire, Auster ha scritto a penna venti libri – contiene tutti gli umori di New York, “babilonia orizzontale di lingue”. Brooklyn diventa il regno degli Auster. “Se Brooklyn, con tutti i suoi borghesi iper intellettuali, prendesse il posto dell’Upper East Side – scrive il New York Magazine nel 2003 –, Paul Auster sarebbe il suo Woody Allen”.

Da quarant’anni Paul Auster vive a Park Slope, quartiere di brownstone e passeggini, a pochi metri di distanza da dove ha perso prima la nipotina e poi il figlio. L’adolescenza turbolenta di Daniel si alimenta della strana energia che caratterizza la città alla fine degli anni Ottanta: quella fatta di libertà, feste, travestimenti, sudore, sogni queer contro l’era Reagan, arte, droga. Tanta droga. Daniel è un gregario dei Club Kids, la generazione che ruba la scena delle feste underground di Andy Warhol e le porta nei locali di New York facendone un business sfavillante. “Ci fomentavamo e ci sfidavamo l’un l’altro per spingere oltre le nostre esperienze creative individuali”, scrive Walt Cassidy – nome d’arte Waltpaper – nel libro New York Club Kids (Damiani Editore).

Da attore non protagonista di quell’onda, Daniel Auster riesce a essere testimone della sua fine. Nel marzo del 1996, diciottenne, si trova a casa del re dei club newyorkesi Michael Alig durante l’omicidio dello spacciatore colombiano Andre “Angel” Melendez. Il cadavere di Melendez viene fatto malamente a pezzi e gettato nel fiume. Due anni dopo Alig e il suo coinquilino Robert “Freeze” Rigg finiscono in prigione per l’omicidio dell’uomo, Daniel viene condannato a cinque anni di libertà vigilata per 3000 dollari rubati quella sera al cadavere, forse in cambio del silenzio. Non verrà mai interrogato dalla polizia. Le cronache locali di quegli anni ipotizzano un intervento diretto di Paul Auster per evitare il carcere al figlio. A insinuarlo è l’avvocato di Alig, secondo cui il procuratore distrettuale di New York, il mitico Robert Morgenthau braccio armato della tolleranza zero del sindaco Giuliani, sarebbe amico di Auster, nonché specializzato in “figli difficili delle celebrity cittadine”. Sono gli anni della guerra di New York, non si fanno prigionieri inutili: l’obiettivo di Morgenthau e di Giuliani sono i burattinai che tengono i fili del delirio cittadino, come l’impresario di discoteche Peter Gatien di cui Alig è un esecutore, e non i piccoli tossici destinati a morire che ci girano intorno.

Pezzi di questa storia si ritrovano in Quello che ho amato (Einaudi) di Siri Hustvedt, seconda moglie di Paul Auster e quindi matrigna di Daniel. Il romanzo, pubblicato nel 2003, si compone di tre finali differenti e nel terzo il figlio tossico del protagonista, Mark, trascina tutti in una vicenda di violenza e disperazione che ricorda moltissimo quella dei Club Kids killer. “Odio Mark – fa dire Siri Hustvedt alla matrigna del giovane. – Un tempo lo amavo. Certo, non l’ho amato subito, ma ho imparato ad amarlo lentamente, e poi a odiarlo, e spesso mi chiedo, lo odierei se lo avessi partorito io? Se fosse mio figlio?”. Hustvedt – legata ad Auster da quando Daniel aveva tre anni – ha sempre negato che il “ragazzo fantasma” del libro fosse ispirato a lui. Eppure, nello stesso anno di uscita di Quello che ho amato, un personaggio simile si ritrova anche nel romanzo di Paul Auster La notte dell’oracolo (Einaudi): il figlio di John Trause (anagramma di Auster) è un tossico che terrorizza la sua matrigna. Con una differenza di trama fondamentale: nel romanzo di Hustvedt è il padre buono che muore, in quello di Auster è il figlio cattivo.

Quell’anno l’attenzione dei media sul rapporto tra vita vera e finzione dei due romanzieri diventa ossessiva. Il New York Observer pubblica un articolo in cui mette in fila tutte le prove che dimostrerebbero la veridicità della storia raccontata da Hustvedt e il suo rancore verso quel figliastro diventato mostro.

L’anno successivo Lydia Davis, la madre naturale di Daniel, rilascia una lunga intervista al New Yorker in cui racconta che quando era in procinto di pubblicare una storia con protagonista sua madre, chiamò il figlio per un consiglio. Daniel suggerì alla mamma di tagliare un po’ di cose “per non urtare la sensibilità della nonna”. Solo una grande scrittrice può usare una frase della vittima-carnefice per rispondere alle disavventure familiari diventate gossip letterario. Davis non condanna chi fa uso della propria vita per alimentare la letteratura, ma in quell’intervista marca una linea rossa: “Far soffrire i bambini per me costituisce il limite da non sorpassare”.

Nella sua vasta opera di racconti brevi c’è solo un componimento, Egoista (Creature dal giardino, Bur Rizzoli), che sembra ispirato in maniera diretta alle vicende del figlio Daniel. “Il vantaggio di essere egoisti è che quando i tuoi figli si fanno male – scrive – non ti scoccia tanto, perché tu di tuo stai bene”. Non bisogna però essere un po’ egoisti, avverte Davis, ma egoisti sul serio perché è l’unico modo per non morire di disperazione quando i figli si metteranno davvero nei guai. Solo se sei davvero una madre egoista “dentro di te ti senti sollevata, lieta, persino contenta che non stia succedendo a te”.

Lydia Davis è stata una madre egoista o è

una narratrice dell’egoismo di cui può essere capace una madre?

In Il vecchio dizionario azzarda un paragone tra la cura verso un tomo di centovent’anni e quella del proprio figlio. “Perché non tratto mio figlio bene almeno quanto il vecchio dizionario?”, si chiede mostrando il conflitto perpetuo di identità tra essere scrittrice ed essere madre. Ma Davis fa di più: allarga lo sguardo di chi legge sui confini e i significati della cura. Quanto è difficile occuparsi di un essere umano e cosa implica per chi lo fa. Che cosa succede se un essere umano che hai messo al mondo tu si rompe? Un dizionario si può aggiustare o, al massimo, si può buttare.

Sarebbe opportuno conoscere le risposte prima di mettere al mondo i figli, ma il crudele destino comune della genitorialità è che si arriva impreparati. E le motivazioni, avverte la poetessa, spesso sono meno profonde di quanto si voglia raccontare: “A un certo punto della sua vita, lei capisce che non è tanto che voglia un figlio, quanto che non vuole non averlo o non averlo avuto” (Un doppio negativo).

Anche Paul Auster ha lasciato traccia dell’epifania della (sua) paternità (L’invenzione della solitudine). Come spesso accade nella vita e nei libri dello scrittore americano, avviene dopo un fatto traumatico: la morte sfiorata del figlio per polmonite con complicanze asmatiche a due anni. “Solo in quel momento gli si era chiarita la portata del suo essere padre: per lui la vita del figlio contava più della sua; se per salvarlo fosse stato necessario morire , l’avrebbe fatto senza esitazione. Perciò era stato solo in quel momento di paura che davvero era diventato, una volta per sempre, il padre di suo figlio”. Grazie a quella intuizione riesce a tornare alla traduzione dell’opera di Stéphane Mallarmé, che verrà pubblicata in seguito sulla Paris Review. Sono i frammenti scritti nel 1879 dal grande poeta francese al capezzale del figlioletto e ritrovati solo alla fine degli anni Cinquanta. Tradurre il dolore acuto di Mallarmé equivaleva “a offrire una preghiera di ringraziamento per la vita di suo figlio”. La letteratura, ancora una volta, entra nella vita e la trasforma in volontà espressiva. Ma Auster non sarebbe il popolarissimo scrittore che è se non avesse la capacità di rassicurare il lettore con riferimenti semplici dopo averlo impressionato con l’erudizione. Ed è per questo che poche pagine dopo, rivela che il più grande libro sulle colpe dei padri e sulle aspettative dei figli è il Pinocchio di Collodi (Feltrinelli). “A un certo punto, Pinocchio capisce di voler diventare un bambino in carne e ossa: ma appare chiaro che ciò non potrà accadere finché non ritroverà suo padre”. Geppetto crea Pinocchio, ma è Pinocchio, il “burattino buono a nulla”, la marionetta che non riesce a “non fare il cattivo” a mettere in salvo Geppetto dagli artigli della morte. Il figlio salva il padre. E in quella storia tutti i bambini del mondo possono intuire ciò che a volte succede da grandi, l’evoluzione desiderabile della relazione più misteriosa del mondo. Tuttavia non bisogna farsi illusioni, avverte lo scrittore: “Tutte le migliaia di ore che A. ha trascorso con lui nei primi tre anni di vita – scrive Auster auto-relegato a un’iniziale puntata –, tutti i milioni di parole che gli ha detto, le lacrime che gli ha asciugato… tutto questo svanirà dal ricordo del bambino, per sempre”.

Forse questa potente storia di droga, solitudine e letteratura ci vuole dire solo questo: l’amore, e il talento, non salvano nessuno. Ma non per questo smetteremo di coltivarli.

Serena Danna (Avellino, 1982), giornalista. È vicedirettrice di Open.