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Questo è il Kennedy che tocca a noi

RFK jr vuole diventare presidente. Perché ti candidi? Perché sono un Kennedy. Oggi il marchio pù potente d’America è un misto di nostalgia e complottismo: solo io, dice, conosco la verità. Eccoci qui, nel punto esatto in cui QAnon incontra Camelot

Mi ero ripromessa che non avrei scritto del Kennedy candidato alla presidenza dell’America che ci tocca in questo secolo se non con l’arrivo delle primarie, il prossimo anno, ma poi ho sentito Steve Bannon. L’architetto sulfureo e mezzo delinquente del trumpismo ha detto: i democratici ignorano Robert Kennedy jr perché ne sono terrorizzati, quando gli prenderanno le misure sarà troppo tardi. Come con Trump. Quando Donald Trump si candidò alla presidenza degli Stati Uniti nel giugno del 2015 – la discesa trionfale dalle scale mobili della Trump Tower con Melania vestita di bianco davanti a lui, Ivanka vestita di bianco ad aspettarlo giù, i pollici alzati e le note di Rockin’ the Free World di un Neil Young che si sarebbe parecchio risentito – iniziarono ad arrivarmi proposte: facciamo un pezzo su Trump. Per molto, troppo tempo ho risposto: prima di pubblicare un articolo che prenda sul serio Donald Trump, dovrete passare sul mio cadavere.

Eccoci qui, dopo diecimila articoli dedicati a Trump, alle prese con un avvocato-agitatore-politico di sessantanove anni, la voce fastidiosamente roca, che mette insieme il complottismo di Trump e la nostalgia kennedyana, QAnon meets Camelot: non riesco a pensare a nulla di più perverso e ahimè rappresentativo di Robert F. Kennedy jr, candidato alle presidenziali del 2024 per il Partito democratico – e mi sembra evidente: ha sbagliato partito.

Terzo figlio di Bobby ed Ethel Kennedy, nipote di John Fitzgerald Kennedy, RFK jr aveva nove anni quando suo zio fu ucciso a Dallas nel 1963 e quattordici quando a essere ucciso fu suo padre, nel 1968 nella cucina dell’Ambassador Hotel di Los Angeles, dopo che aveva festeggiato con i suoi sostenitori la vittoria alle primarie in California. Le immagini del figlio al funerale del padre, lo sguardo perso mentre trasporta la bara, sono parte integrante della campagna elettorale di RFK jr assieme a tutti i documenti video che vi vengono in mente dell’epopea dei due Kennedy, presidente e aspirante presidente, ammazzati nel giro di cinque anni. L’ultimo dei Kennedy ad aspirare alla Casa Bianca utilizza il suo cognome come prima arma elettorale: il suo sostegno, che si aggira attorno al quindici-venti per cento nei sondaggi prematuri e strampalati che circolano a sei mesi dalle primarie, è quasi esclusivamente legato al nome di famiglia. Perché ti candidi? Perché sono un Kennedy. Perché lo sostieni? Perché è un Kennedy. E pazienza se nel frattempo il marchio Kennedy è stato calpestato dai tanti discendenti (molti sono morti, ma moltissimi sono sopravvissuti), pazienza se RFK jr pensa che sia stata la Cia a uccidere suo zio e suo padre, che i vaccini siano un complotto capitalistico contro gli americani, che l’epidemiologo più autorevole del pianeta, Anthony Fauci, sia un criminale di guerra, che il Prozac sia la causa delle stragi con arma da fuoco che straziano gli Stati Uniti (è contrario al controllo delle armi), che l’aiuto all’Ucraina sia un complotto dell’America contro la Russia – pazienza se considerare RFK jr un democratico è quasi impossibile, se di quell’America degli anni Sessanta ci restano soltanto diapositive meravigliose tra il bianco e il nero e il seppia: la nostalgia è potente, ti fa entrare nel seggio elettorale a occhi chiusi. RFK jr lo sa e si gioca tutto il Camelot che ha senza le finzioni tipiche dei “figli di” che vogliono essere riconosciuti e rispettati per quello che sono loro, non i loro parenti: vincerò perché sono un Kennedy, mi voterete perché sono un Kennedy.

Avvenne la stessa cosa nel 1979, quando l’unico zio rimasto a RFK jr, Ted Kennedy, decise di sfidare alle primarie l’allora presidente Jimmy Carter che si ricandidava per il secondo mandato, proprio come accade oggi con Joe Biden. Jon Ward, autore nel 2019 di Camelot’s End, racconta quello scontro come «la battaglia che ha spezzato il Partito democratico». Teddy Kennedy voleva spostare il partito verso sinistra, Carter occupava il campo moderato, era già presidente ed era già ricandidato: solitamente, negli anni elettorali in cui c’è un incumbent, gli aspiranti presidenti aspettano il giro successivo. Teddy detestava Carter e Carter detestava Teddy e non poteva che essere così: avevano idee diverse e rappresentavano due visioni molto distanti della sinistra, ma la politica c’entra fino a un certo punto. Carter era cresciuto nel sud della Georgia in una casa in cui era stata collegata l’acqua corrente quando lui aveva dodici anni, suo padre aveva una piccola azienda agricola che gli aveva dato in gestione, ma lui voleva fare politica e così si mise a farla, senza raccomandazioni, mentori, protezione, da solo, arrivando fino alla Casa Bianca con quella sua aria mite che nascondeva una tigna incredibile (lo scrittore Hunter Thompson ha detto che Jimmy Carter è la terza persona più cattiva incontrata nella sua vita: gli altri due erano Muhammed Ali e il fondatore degli Hells Angels). Teddy Kennedy era un Kennedy, e nella vita nessuno gli aveva mai detto di no. Anzi, si sentiva di aver aspettato già abbastanza, perché era da dieci anni che voleva tentare la sua corsa presidenziale, ma aveva sulle spalle quel fatterello accaduto sull’isola di Chappaquiddick: una notte del luglio del 1969, era finito in mare guidando l’auto e aveva lasciato la scena dell’incidente mentre la ragazza che stava accompagnando al traghetto, Mary Jo Kopechne, moriva annegata dentro la macchina. Alla fine degli anni Settanta, Teddy Kennedy era convinto che fosse il momento di lasciarsi cadaveri, processi e pettegolezzi alle spalle, aveva spezzato la tradizione dell’incumbent, si era candidato, aveva vinto parecchie primarie, non si era ritirato nonostante le pressioni e, anche se i suoi numeri erano più bassi di quelli di Carter, si presentò alla convention democratica dell’estate che precede il voto presidenziale, in cui si celebra l’investitura ufficiale del candidato, pronto per rovinare la festa di Jimmy Carter.

Era il 1980, l’assemblea dei delegati si svolgeva al Madison Square Garden di New York (Teddy Kennedy aveva stravinto le primarie dello stato di New York), Jon Ward racconta: «Le forze di Carter erano riuscite a tenere insieme la loro coalizione di delegati la prima sera, sconfiggendo chi voleva votare a favore di una convention ‘aperta’», in cui i delegati avrebbero potuto votare il loro candidato preferito senza rispettare l’esito delle primarie che si erano svolte nei loro stati (una specie di vincolo di mandato). Quella vittoria assicurò a Carter la nomina, Kennedy accettò formalmente la sconfitta ma dedicò il tempo e i giorni rimasti per mettere in imbarazzo Carter: tenne un discorso la seconda sera in cui parlò di sé, della sua campagna, dell’eredità politica dei Kennedy, del Partito democratico come lo immaginava lui, dei suoi successi – ripetè la famosa frase della sua campagna: siamo stati capaci di navigare contro il vento – e della battaglia, del “sogno”, che andava avanti. Avrebbe dovuto essere il discorso della riconciliazione, dell’unità, ma divenne l’ennesimo affronto di Kennedy a Carter: gli uomini del presidente erano così mortificati che, nel voto sul programma del partito che si tenne dopo il discorso di Teddy, lasciarono passare delle misure (kennedyane) che fino al minuto prima avevano osteggiato con le unghie e i denti. L’ultima sera della convention andò tutto storto, a cominciare dai palloncini: si ruppe la macchina che li fa scendere dal soffitto, così quando fu annunciata ufficialmente la nomina di Carter, il consueto trionfo si risolse in qualche coriandolo e pochi palloncini. Carter non fece una piega, chiamò sul palco il suo vicepresidente e altri esponenti del partito, aspettando Kennedy per quella che immaginava la foto della pace: la festa insieme, con le braccia alzate e le mani unite. Teddy Kennedy si fece attendere per venti minuti (nel frattempo Carter aveva chiamato sul palco anche il portinaio), fu accolto dal coro degli irriducibili, “We want Ted”, salì sul palco, si tenne a distanza da Carter, aspettò che il presidente lo andasse a cercare, si spostò dispettoso da molte inquadrature, infine gli strinse la mano ma le braccia al cielo non le alzò mai.

Tre mesi dopo, alle elezioni del 1980, fu eletto il 40esimo presidente degli Stati Uniti d’America, il repubblicano Ronald Reagan.

A Boston, il 19 aprile scorso, Robert F. Kennedy jr si è candidato alle elezioni del 2024: «La mia missione nei prossimi diciotto mesi di questa campagna e per tutta la mia presidenza – ha detto – porrà fine alla mescolanza corrotta tra il potere dello stato e quello delle grandi società che minaccia ora di imporre in America un nuovo tipo di feudalesimo aziendale, di mercificare i nostri figli, di avvelenare i nostri figli e la nostra gente con prodotti chimici e con i farmaci, di spogliarci dei nostri beni, di svuotare la classe media e di tenerci in uno stato di guerra permanente». Non foss’altro perché aveva il nome del padre, RFK jr è sempre stato il predestinato a portare avanti la leggenda kennedyana: dopo l’omicidio di Bobby Kennedy, «fece molta fatica a diventare adulto», come ha scritto lui stesso nei suoi memoir. Fu cacciato dalla boarding school che frequentava prima dell’assassinio, fu iscritto a un’altra, fu cacciato di nuovo per possesso di marijuana, riuscì ad arrivare a Harvard ma non superò l’esame per diventare avvocato a causa dei suoi problemi con la droga. All’inizio degli anni Ottanta, dopo essere stato condannato per possesso di eroina, entrò in una clinica per disintossicarsi e iniziò a fare volontariato per organizzazioni ambientaliste. La natura e gli animali erano stati la sua passione fin da piccolo. In RFK jr and the Dark Side of The Dream, Jerry Oppenheimer scrive che RFK jr, a nove anni, aveva creato “uno zoo” nella tenuta di famiglia a Hickory Hill, «che includeva molti insetti di vario tipo, procioni, topi e serpenti. Ha raccontato che una volta aveva comprato due migliaia di grilli da dare in pasto alle sue lucertole. Aveva anche un piccolo pollaio in aggiunta a un cavallo, un vitello e ad altri animali da fattoria». Sempre Oppenheimer riporta altri aneddoti di RFK jr: il sacchetto pieno di serpenti aperto durante un volo di linea tra Washington e New York e la piccola salamandra regalata a suo zio, con la foto nello Studio ovale mentre JFK punzecchia l’animaletto con una delle penne presidenziali e la nuova vita della salamandra nella fontana della Casa Bianca. In American Values, una autobiografia pubblicata nel 2018 (settecento pagine), RFK jr ricorda quando un coati del suo “zoo” aveva attaccato sua madre Ethel, che era incinta di sette mesi e che a causa dell’incidente finì in sala parto, e il regalo del presidente dell’Indonesia Sukarno a suo padre, che gli aveva parlato della passione del figlio per il drago di Komodo: arrivarono due di queste gigantesche lucertole e RFK jr si sarebbe in seguito lamentato del mancato permesso di tenerle in casa – andava ogni fine settimana a trovarle al National Zoo di Washington portando maiali e topi surgelati per nutrirle.

A parte i mille aneddoti sull’infanzia e l’adolescenza dei rampolli dell’unica famiglia reale che l’America abbia avuto, quando RFK jr decise di diventare un avvocato ambientalista, lo fece molto bene. Nel 1995 un suo ritratto era sulla copertina del magazine New York di fianco al titolo: The Kennedy who matters e nel 1997, nel libro Riverkeepers, RFK jr raccontò i successi – riconosciuti da tutti, la prefazione è di Al Gore e nel 2008 Barack Obama lo prese in considerazione per guidare l’Agenzia per l’Ambiente della Casa Bianca – delle sue campagne ambientaliste. Sono gli anni in cui comincia a perdere la voce a causa di una malattia alle corde vocali: quando all’inizio del secolo, RFK jr comincia a interessarsi alle case farmaceutiche e ai vaccini, si convince che la causa della sua disfonia spastica sia stata la somministrazione di un vaccino anti influenzale.

L’incontro con la medicina e in particolare con i vaccini trasforma RFK jr e lo rende ciò che è oggi: un complottista. Molti sostengono che lo fosse sempre stato, che la sua arte oratoria, unita alla più potente rete di influenza del paese (non si può dire di no a un Kennedy) e a una vita passata tra segreti e insabbiamenti di segreti lo avessero reso un uomo naturalmente portato a maneggiare complotti. Ma è negli anni Duemila che questa sua natura, se vogliamo chiamarla così, diventa il suo segno distintivo e lo incorona il più grande anti vaccinista vivente durante la pandemia del Covid. Nei vent’anni di questo secolo succedono molte cose – nasce l’ultimo dei suoi sei figli, divorzia dalla sua seconda moglie che poco dopo si impicca nella loro ex casa, sposa la sua attuale moglie, l’attrice Cheryl Hines (è la moglie di Larry David in Curb Your Enthusiasm) che è anche l’unica della grande famiglia a sostenerlo in questa avventura elettorale – ma RFK jr procede determinato a occupare quello spazio che l’arrivo del trumpismo ha reso enorme: è lo spazio in cui lui e pochissimi altri convincono gli americani di essere gli unici a dire la verità. Tutti gli altri mentono, mentono apposta, mentono per conservare il potere, mentono per soggiogare, per fare le guerre, per uccidere chi non la pensa come loro, per dominare il mondo. RFK jr no, lui non mente: «Quando sarò presidente, metterò fine alle guerre infinite, ripulirò lo stato, restaurerò la classe media e dirò la verità agli americani». Anche Trump, l’uomo più bugiardo del mondo, è diventato presidente vendendosi come l’unico in grado di dire la verità agli americani, di bonificare la palude delle menzogne corrotte di tutti gli altri, di portare la pace nel mondo – la gran parte degli americani gli ha creduto nel 2016 e rischia di ricredergli nel 2024.

Non è un caso che RFK jr sia il beniamino degli altri trafficanti di verità assolute del nostro tempo, da Mr Twitter Elon Musk al podcaster più seguito d’America, Joe Rogan, al conduttore televisivo più noto, Tucker Carlson. «Ogni persona, così come ogni nazione, ha una parte più oscura e una più luminosa – ha detto RFK jr all’Atlantic – E la cosa più semplice per un leader politico è richiamarsi ai darker angels», al lato oscuro dell’animo umano, «ogni forma di populismo nasce idealista e poi viene dirottata, perché il modo più semplice per tenere insieme un movimento populista è solleticare la nostra avidità, la nostra rabbia, il nostro odio, la nostra paura, la nostra xenofobia, i nostri istinti tribali». RFK jr rivendica l’innocenza del primo afflato populista, è gentile e mai aggressivo, riempie i suoi social di foto da americano medio (un Kennedy!), dice che la campagna elettorale non è così faticosa perché si può stare seduti sul divano a registrare podcast (adora i podcast), mischia il presente con il passato, la sua voce metallica con quella di suo zio e di suo padre, i colori sgargianti di oggi con la compostezza dei filmati del passato, e intanto ripete: io solo posso dirvi la verità, perché so la verità, sono un Kennedy. La verità, secondo lui, è che il wifi fa venire il tumore al cervello ed è per questo che ce lo piazzano ovunque, per ucciderci; la verità, secondo lui, è che i vaccini sono stati una grande trovata dei potenti, da Fauci a Bill Gates, per soggiogare il mondo intero; la verità, secondo lui, è che le armi sono meno pericolose degli antidepressivi e che le carovane di migranti si possono fermare soltanto sigillando le frontiere e spezzando il business dei trafficanti di uomini che non sono degli spietati signori della guerra a caccia di soldi ma i potenti della terra buonisti di facciata; la verità, secondo lui, è che l’America ha voluto la guerra in Ucraina per poter così umiliare la Russia.

I Kennedy ancora in vita prendono le distanze (gli vogliamo bene, ma), l’establishment del Partito democratico chiude occhi e orecchie sperando che lui magicamente scompaia, e RFK jr invade tutti gli ambiti possibili – e sono tanti, è un Kennedy – spacciando per verità ogni genere di teoria del complotto che vi possa venire in mente. Ma se Trump e i suoi cantori si sono concentrati, e hanno avuto i riscontri più rilevanti, sulla politica identitaria dei bianchi, RFK jr sta costruendo una coalizione più ampia di sostenitori: i No vax, gli antistatalisti, i magnati della Silicon Valley, i libertari, i trumpiani delusi e i democratici che pensano che Biden sia troppo vecchio per un secondo mandato. Il punto in cui QAnon meets Camelot è il luogo in cui l’avanzata di RFK jr si è fatta possibile, il brand Kennedy è la spiegazione del fatto che questa minaccia sia esplosa dentro al Partito democratico e non a destra, dove in realtà c’è una grande concorrenza tra trafficanti della verità. I conservatori gongolano, i sostenitori di Trump arrivano addirittura a immaginare un ticket Trump-RFK jr, e con tutta probabilità le celebrazioni a novembre dei sessant’anni dall’uccisione a Dallas di JFK rafforzeranno la campagna di RFK jr, il giustiziere della storia della sua famiglia e di quella americana. È questo il malinteso del nostro secolo, il complottista che diventa custode della verità e della libertà d’espressione – la ragione per cui, tra tutti, a noi non poteva toccare che questo Kennedy qui.

Paola Peduzzi (Milano, 1976), vicedirettrice del Foglio.