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Questo insostenibile seminario sulla gioventù

Quando Adelphi ha pubblicato in toni pastello Milan Kundera, ci siamo illusi d’essere colti. Non abbiamo imparato niente, nemmeno che cos’è il kitsch, non abbiamo imparato a non prenderci sul serio. Il riso e l’oblio dei libri che servono a non rincoglionirsi

Pensate ad Avezzano. Accantonate la voglia di pensare con compatimento a me, che con un incipit come «Pensate ad Avezzano» non vincerò mai il Goncourt, e pensate allo stadio di Avezzano nell’estate del 1986. Se non avete avuto la residenza negli anni Ottanta, magari Avezzano non l’avete mai sentita nominare. È un posto allo sprofondo di quel meridione minore che forse non è neppure meridione, ma nel quale parlavano abbastanza in dialetto da sembrarmi il più sud del mondo in cui fossi mai stata. Era (è: esiste ancora, e Google dice che è stata «elevata a rango di città con decreto del presidente della Repubblica» nel 1994 – chissà cos’era, quindi, prima di allora), secondariamente, un posto vicino a dove io e i miei cugini trascorrevamo l’estate, in campagna dai nonni; principalmente, era il posto in cui in quella fine di secolo si aprivano le tournée dei cantanti. Quelle che adesso cominciano («data zero», la chiamano) da Lignano Sabbiadoro, perché ci dev’essere stata una migrazione delle proloco efficienti; all’epoca si cominciava ad Avezzano, in Abruzzo.

Immaginate quindi lo stadio di Avezzano, nell’estate del 1986, pieno di ragazzini non esattamente provenienti dalla rive gauche, molti dei quali non hanno mai sentito parlare della casa editrice Adelphi, parecchissimi dei quali (tra i quali i miei cugini) non hanno mai letto un romanzo che non fosse stato loro imposto a scuola (e anche di quelli: i bignami). E che però sono assai fan del più impresentabile dei cantautori, di quello che a Bologna squarciagoli di nascosto in cameretta, di quello che non si è vergognato di mettere gli occhiali fumé molto prima che non se ne vergognasse Previti. I miei cugini erano (sono) romani, e a Roma mica nessuno ha mai avuto paura della burinaggine, a Roma non ci si nascondeva in cameretta, a Roma – che in questo e in altro è città-Stato – Venditti era un consumo culturale accettato. Chissà quanti romani c’erano, nello stadio di Avezzano. E tutti, senza esitare, come si fa con le canzoni meno cerebrali e più unz unz, erano lì che squarciagolavano «Ti stai innamorando, ti stai innamorando di questa insostenibile leggerezza dell’essere», ma soprattutto che scandivano come fosse il nome d’un calciatore: Milan Kundera, Milan Kundera.

Non sono abbastanza mitomane da dirvi che la me tredicenne si chiedeva come fosse potuto accadere che il primo libro della collana Fabula fosse diventato un consumo di massa, come un romanziere cecoslovacco fuggito a Parigi fosse diventato il ritornello d’una canzonetta che non si capiva bene di cosa parlasse, tranne nel punto in cui quello che cantava stava chiaramente chiedendo all’amico a quale dei miei due film di riferimento di quegli anni appartenesse la sua cotta in corso: «almeno dimmi: è ricca, è nobile?» (la Tahnee Welch di Amarsi un po’), «oppure è un frutto periferico?» (la Audrey Hepburn di My Fair Lady). Non pratico il revisionismo autobiografico abbastanza da fingere d’aver capito subito: ci ho messo decenni a elaborare che lo scaffale medio riflessivo su cui mia madre teneva Roland Barthes e Milan Kundera e García Márquez e Oriana Fallaci raccontasse una storia. E, anche quando ci sono arrivata, mi è sempre sembrato più interessante il posto fisso dei romanzi della Fallaci sullo scaffale delle professoresse democratiche fintantoché raccontava le sue dolenze sentimentali, rispetto allo strano caso del romanzo raffinato che diviene consumo di massa.

Qualche tempo fa un politico italiano ha raccontato d’essersi introdotto nella stanza d’albergo dove doveva tornare quella che gli piaceva (e che poi invece di denunciarlo se l’è sposato) e di averla aspettata leggendo un libro. Nell’intervista non si diceva che libro fosse, e io non ho avuto pace finché non l’ho saputo. Quando mi hanno detto il titolo, ho fatto una cosa che faccio sempre agli altri sebbene detesti che la facciano a me: ho detto a un’amica «indovina». Indovina qual è il romanzo da sedicenne che questo adolescente senile leggeva mentre aspettava che la poverina rientrasse, dai, indovina, è il titolo perfetto, una cosa che abbiamo letto tutte a sedici anni e non ci verrebbe mai in mente di leggere da adulte. La sventurata mi ha detto, col tono delle concorrenti dei quiz che ti fanno tirare degli oggetti contro il televisore: «Kundera?». Lei non lo sa, ma in quel momento ho smesso per sempre di considerarla un’interlocutrice degna. (Era Pessoa, casomai anche voi non foste portati per gli indovinelli).

Ma come Kundera. Ma cosa dici. Ma ti pare che Kundera fosse un consumo da adolescenti. Ma la me tredicenne di quel libro azzurro rubato dallo scaffale medio riflessivo cos’avrà capito, a parte che era un libro di corna e quindi simile al ménage dei miei genitori. Niente, amica che non indovina gli indovinelli facili, te lo dico io cos’avevo capito: niente. Sebbene, in un certo senso, fossi il pubblico perfetto – a tredici anni ma pure a quarantatré – d’un libro che diceva al lettore: il cane di questi due si chiama Karenin, non ti senti colto e compiaciuto cogliendo il riferimento?

Quando Venditti comincia quella canzone con le parole «Che ti succede, amico estetico?» coglie – con lo spirito d’osservazione che sviluppa, per compensare, chi non viene invitato alle feste fighe – un punto piuttosto preciso. Quando nel 1985 Adelphi pubblica L’insostenibile leggerezza dell’essere, e tutti gli adulti con velleità culturali si dichiarano milankunderiani della primissima ora, sono quasi vent’anni che Kundera è tradotto in Italia. Sono già usciti, in edizioni che hanno la colpa d’esser normali, tutti i libri su cui poi ci sdilinquiremo quando ce li daranno con copertine pastellate: Amori ridicoli e Lo scherzo, Il libro del riso e dell’oblio e La vita è altrove. Tutto il Kundera che serviva era già lì, ma non era azzurradelphi. Sì, certo, il 1985 è l’anno in cui l’Italia s’innamora d’un grande scrittore e s’illude d’essere colta; ma è soprattutto l’anno in cui inventiamo i libri come oggetti di scena: venticinque anni prima di Instagram. Che vi succede, lettori estetici: rincoglionirsi non conviene.

(Per noialtre che in quegli anni eravamo adolescenti, Kundera era anche un bignami comodissimo. Andava molto, giacché Adelphi giallino, comprare Nietzsche, del quale però non capivamo una parola. Ma ecco arrivare Kundera, che apriva L’insostenibile leggerezza dell’essere con la voce narrante che divagava su Robespierre facendo interrogare il narratore sull’eterno ritorno e l’eventuale sbilanciamento degli avvenimenti se non fossero stati singole eventualità, ed era come se qualcuno avesse digerito Nietzsche per noi e ce lo stesse imboccando in comode forchettate ad aeroplanino da sfoggiare all’interrogazione. Poi ci bocciavano lo stesso, ma vuoi mettere il tono che potevamo darci. Fu, quella, la prima di molte volte in cui Kundera mi permise di darmi un tono. Qualche anno più tardi, a cene alle quali i figli di quelli che erano stati i dirigenti del Pci parlavano di Stalin e di damnatio memoriae con la voluttà con cui nel secolo successivo avrebbero parlato di proporzionale e maggioritario, io capivo di che si trattasse solo perché mi ricordavo la scena di quel tizio cancellato dalle foto nel Libro del riso e dell’oblio. E, poiché esiste un dio protettivo che ha un occhio di riguardo per le ragazze che bluffano a tavolate contenutiste, mi trattenni sempre dal dire «ah, ma io pensavo fosse un’invenzione da romanziere»).

«L’irrefrenabile crescita della grafomania tra uomini politici, tassisti, partorienti, amanti, assassini, ladri, prostitute, prefetti, medici e pazienti, mi dimostra che ogni uomo, senza eccezione, porta in sé uno scrittore virtuale, sicché tutto il genere umano potrebbe a buon diritto scendere per strada e gridare: Siamo tutti scrittori!»: noialtri avremo pure anticipato Instagram facendoci vedere in spiaggia con la copertina azzurradelphi in anni in cui ancora non si usava la protezione solare, ma queste quattro righe dal Libro del riso e dell’oblio, pubblicato nel 1978, mi pare anticipino tutto il resto. I gruppi di mamme su Facebook, le recensioni su Tripadvisor, i critici dilettanti di Goodreads e tutti i grafomani di cui a noialtri mortali sarebbe servita internet per accorgerci, e che invece Kundera aveva pittato trent’anni prima che arrivasse Twitter. «Tutti, infatti, soffrono all’idea di scomparire non visti e non uditi in un universo indifferente, e per questo vogliono, finché sono in tempo, trasformare sé stessi nel proprio universo di parole».

Diceva il narratore di quel romanzo azzurrino che «i personaggi del mio romanzo sono le mie proprie possibilità che non si sono realizzate». Non è vero che i romanzi svelano l’autore: i romanzi, spesso, sono un gioco di ruolo, un sostituto dell’analisi, una vita in prova. Anzi, scusate, perché devo trovare definizioni imprecise quando quella esatta la fornisce Kundera stesso: il personaggio è un «io sperimentale». Come sarei se fossi uno di voi che temete l’invisibilità, invece di essere uno che la brama?

«Difficilmente si perdona a un uomo d’essere grande e illustre. Ma ancora meno, se in sé riunisce queste qualità, d’essere silenzioso»: è l’incipit d’un articolo con cui, nel 2008, Yasmina Reza difende Kundera dalle accuse d’essere stato un delatore. C’entra la Praga degli anni Cinquanta, la polizia comunista, il «processo accusatorio che qualunque parola alimenterebbe». Ma, soprattutto, c’entra quel che sta a cuore a Reza probabilmente quanto stava a cuore a Kundera: il diritto dell’autore di esprimersi attraverso le opere, invece che di spiegarle a un intervistatore che non è abbastanza attrezzato da trovare in esse tutte le risposte che gli servono; il diritto di tacere in un secolo caratterizzato dal parlarsi addosso. Kundera aveva scritto d’aver smesso di dare interviste nel 1985, dopo essersi reso conto che non solo i giornalisti ti attribuiscono parole loro, ma che tu pensi non sia grave perché tanto quell’intervista verrà dimenticata, e invece ti ritrovi le parole non tue eternamente citate, come tue, più spesso di quelle che hai davvero scritto tu.

Sempre Reza 2008: «L’uomo Kundera si tiene, solitario, ai margini della sua opera, in fuga da ciò che chiama l’avvenimento: ‘Che cos’è l’avvenimento? Un’attualità sufficientemente importante da attirare l’attenzione dei media. Ma si scrive un romanzo non per creare un avvenimento, ma per fare qualcosa che duri’». D’altra parte aveva spiegato nell’Arte del romanzo che non solo dell’attualità, non solo della propria vita: neanche di letteratura, ha senso ciarlare. «L’opera di ogni romanziere contiene implicitamente una visione della storia del romanzo, un’idea di che cos’è il romanzo»: se poi non la cogliete, non è che possa tenervi per mano, su. Per essere un uomo in fuga dai totalitarismi, era davvero novecentesco (d’altra parte: «Il flirt con l’avvenire è il peggiore dei conformismi»).

Qualche anno fa, per scrivere qualche pagina su Woody Allen, ho rivisto Hannah e le sue sorelle. A un certo punto la sorella sentimentalmente sfigata dice che capisce cosa le sorelle pensino di lei dagli uomini che le presentano. Quindi quel concetto che ripetevo da venti anni e spicci, e che ero convinta d’aver elaborato grazie al mio essere intelligentissima nonché profonda conoscitrice della natura umana, quindi tutte le volte che avevo sbuffato con qualche amica perché insomma, capisco che non mi stimi dal fatto che cerchi di fidanzarmi con questo imbecille, tutte le volte stavo ripetendo tipo proverbio di Frate Indovino quel che avevo sentito dire da Dianne Weist in un cinema di Bologna durante il primo anno di liceo. Mi è capitata la stessa cosa riprendendo L’arte del romanzo nel giorno in cui Kundera è morto e siamo corsi tutti a rileggerlo per non farci trovare sguarniti di citazioni. «Ogni volta che Tolstoj scrive “skazal” (“disse”), nella traduzione trovo proferì, ribatté, riprese, esclamò, concluse, ecc. I traduttori vanno pazzi per i sinonimi. (Io rifiuto la nozione stessa di sinonimo: ogni parola ha il suo proprio significato ed è semanticamente insostituibile)». Quindi neanche questa cosa che i sinonimi non esistono l’ho inventata io. Viene da un Kundera che nell’88 comprai plausibilmente solo per la copertina carta da zucchero. Quindi non c’è niente, nel mio repertorio, che non mi sia arrubbata negli anni Ottanta da quelli che erano più bravi di me allora e tali sarebbero rimasti successivamente. (Poteva andar peggio: avevo un certo qual gusto per i furti, pur essendo così orrendamente giovane).

Ho ancora le copie di gioventù dei libri di Kundera (in nessun trasloco si buttano gli Adelphi, o i divani di Cini Boeri, o certi McQueen ai quali non sei mai riuscita a tirar su la lampo ma che un domani sai che museo ci organizzi). Le riconosco perché sottolineavo a matita (sono stata anch’io ceto medio riflessivo, prima di emanciparmi dal feticcio dell’oggetto libro e soprattutto capire che la sottolineatura, se non si vede, poi è disutile a ritrovare i passaggi: pennarello rosso, grazie). In quella dello Scherzo mi fa molto ridere vedere che avevo sottolineato che Kostka «aveva significato di più per lei, per lei aveva fatto di più, la conosceva di più, l’aveva amata meglio» (senza, poiché cercavo di darmi un tono, annotare la somiglianza con Little Tony, tu falla ridere perché ha pianto troppo assieme a me); e non, poco sotto, il passaggio che più mi parla in questa mia tarda età, nonché quello più mirabilmente vero: «Fui preso da un’ondata di rabbia verso me stesso, verso la mia età di allora, verso la mia stupida età lirica, quando l’uomo è ai propri occhi un enigma troppo grande per potersi rivolgere agli enigmi che sono fuori di lui, e quando gli altri (anche le persone che ama di più) non sono per lui che specchi mobili nei quali egli rivede con spavento la propria sensibilità, il proprio turbamento, il proprio valore». Pensiamo di avere in eterno l’età che abbiamo nel momento in cui leggiamo, sottolineiamo, puntesclamativiamo, e io quanti anni avrò avuto quando ho sfogliato senza capirlo Lo scherzo? Quindici? Venti? Pensavo che l’età lirica fosse per sempre, che il sentimentalismo fosse per sempre, che Kundera, quando mi prendeva per il culo, non stesse mica prendendo per il culo me. Pensavo fosse vero che rincoglionirsi non conviene. D’altra parte sulle spiagge del 1985 e nei juke-box del 1986 c’era un libro azzurro che per pagine e pagine spiegava cosa fosse il kitsch, e nei quattro decenni successivi non c’è stato italiano che non abbia dimostrato di non aver minimamente capito la definizione di kitsch. Siamo già al secondo secolo in cui quella roba lì – la pornografia sentimentale, il cattivo gusto che si picca di non esserlo – la chiamiamo “trash” se la fa chi non ci piace e “qualità” se la fanno i nostri sodali, e quindi vedi che facevamo bene a comprare l’azzurradelphi da arredo, visto che i libri ad altro non servono, e di certo non a capire cosa c’è scritto nei libri.

Non abbiamo imparato niente, e di certo non a non prenderci sul serio, neanche a età lirica abbondantemente finita ed età dei datteri sopraggiunta. Mi pare fosse Jep Gambardella a dire che in Italia ti prendono sul serio solo se ti prendi sul serio, eppure nel più trombone e mitomane dei luoghi ci sdilinquiamo da settimane su Kundera, uno che aveva fatto della frivolezza stilistica un metodo (qui la media riflessiva in me è tentata di aggiungere apparente frivolezza, ma resisto). «L’unione di una forma frivola e di un argomento grave svela i nostri drammi (quelli che si svolgono nei nostri letti come quelli che recitiamo sul grande palcoscenico della Storia) in tutta la loro terribile insignificanza». Sto cercando da settimane di decidere chi potrebbe venire citato in una canzone da un Venditti di oggi, chi potrebbe venire scandito da uno stadio che non ne ha letto i libri ma ne ha orecchiato il nome. Recalcati? Sally Rooney? Forse c’è qualche nome più attuale per chi abbia ancora un’età lirica, ma per fortuna sono così dattero da avere il privilegio di non averlo mai sentito. A riascoltarla, la canzone di Venditti aveva una precisione sociologica che quelli più accreditati di lui se la sognavano: in «La mia Africa, Nove settimane e mezzo: con la stessa donna, nella stessa sera» c’è l’istantanea se non d’un’epoca almeno d’una stagione. A settembre di quell’anno entrai in collegio, ci diedero da leggere L’apologia di Socrate e mi sembrò chissacché, poi mi dissero che non potevo restare se non andavo a colloquio con lo psichiatra della scuola (perché un collegio di suore a Cortina d’Ampezzo aveva uno psichiatra di casa? Sono decenni che me lo chiedo), e io ci andai e gli parlai di Platone. Ricordo pochi dettagli: che mi dava del lei, che aveva i denti marci, e una frase. «Mi avevano detto ‘è una che non prende sul serio nientÈ, ma lei prende sul serio persino Platone». Mi è tornato in mente perché, dottore, non so se ha letto quello scrittore morto di recente: credo di avergli copiato quella cosa di prender per il culo quasi tutto, ma prender molto sul serio la punteggiatura. «Una volta ho lasciato un editore solo perché cercava di cambiare i miei punti e virgola in virgole». Ti stai innamorando?

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).