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Qui vivevano i miei cari, nel brivido di mistero

Il poeta polacco Adam Zagajewski racconta Leopoli, la “città lesa” che si afferra solo con l’immaginazione: le serate piene di promesse, la disfatta, le illusioni sulla Russia e l’incurvatura dei profughi taciturni. C’è sempre un carretto, c’è sempre troppo vento, troppo sole, troppa neve. Due poesie e un frammento tradotti in italiano per la prima volta

Adam Zagajewski è morto un anno fa a Cracovia, nel primo giorno di primavera che nel 2021 coincideva con una delle tante ricorrenze che spesso perdono nitidezza: la Giornata mondiale della poesia. Zagajewski è stato poeta e scrittore, era nato a Leopoli, la città che oggi è diventata il punto di partenza e di arrivo di famiglie ucraine in fuga dalla guerra. Leopoli passò dalla Polonia all’Ucraina proprio quando nacque Zagajewski, nel 1945. Zagajewski ha vissuto e raccontato la formazione dell’identità europea negli anni della Guerra fredda, si è avvicinato alla politica con i moti studenteschi del Sessantotto e poi con gli scioperi degli operai di Danzica e Stettino nel 1970, ha combattuto gli intellettuali e i poeti che tacevano spacciando per libertà il disimpegno. Un lungo esilio in Francia ha cambiato i suoi interessi e i suoi sentimenti nei confronti dell’Europa, verso cui è diventato critico (ma non catastrofista), fino a spostare la sua attenzione dalla politica all’animo umano. Tra i suoi libri tradotti in italiano ricordiamo: Tradimento (Adelphi, 2007); L’ordinario e il sublime. Due saggi sulla cultura contemporanea (Casagrande, 2012); Dalla vita degli oggetti (Adelphi, 2012); Prova a cantare il mondo storpiato, (a cura di Valentina Parisi, Interlinea, 2019) e la raccolta di poesie Guarire dal silenzio (a cura di Marco Bruno, Mondadori, 2020).

Abbiamo scelto, a cura di Marco Bruno, due poesie inedite, e un brano in prosa tratto da La leggera esagerazione (2011), forse il libro più bello di Zagajewski, ancora inedito in Italia, che non è un libro di frammenti, ma di segmenti, dove la voce che dice “io” sottopone a continua verifica la consistenza delle sue e delle nostre speranze.

Se la Russia

 

Se la Russia fosse stata fondata

da Anna Achmatova, se

Mandel’štàm fosse stato legislatore

e Stalin soltanto una figura

marginale in un’epopea georgiana

andata perduta, se la Russia svestisse la propria

irta pelliccia d’orso,

se potesse vivere nella parola, e non

nel pugno, se la Russia, se la Russia

 

(da Andare a Leopoli e altre poesie, 1985)

 

Leggera esagerazione

Nel giugno 2007 con un gruppo d’amici (fra cui C.K.Williams e consorte, Georgia e Michael, e Agnès con la sua macchina fotografica) siamo stati a Leopoli, per pochissimo tempo. Ma abbastanza a lungo perché io potessi fare ancora una volta esperienza di quel commovente brivido di mistero che mi si era manifestato già prima, in occasione delle mie precedenti visite in città. E ancora una volta era giugno – serate lunghe, serene, che s’estinguono lentamente, serate che promettono così tanto, che qualunque cosa si faccia di loro si ha sempre l’impressione di una disfatta, di tempo sperperato. Non si conosce il modo migliore di viverle. Andare dritto davanti a sé, oppure restare a casa e sedere presso la finestra spalancata, in modo tale che l’aria tiepida, intrisa, traboccante dei suoni dell’estate, entri nella stanza e si confonda coi libri, con le idee, con le metafore, con il nostro respiro. Ma no, neanche questo è il modo giusto, questo non è possibile. Le si può – queste interminabili serate – soltanto rimpiangere, quando già saranno trascorse, quando il giorno sarà sempre più corto. Sono inafferrabili. Forse appunto il rimpianto, la rimembranza, la nostalgia, sono l’unica forma di percezione delle lunghe serate di giugno. Non le si può in nessun modo esaurire, si vorrebbe entrare nel parco e andare dritto, ma anche sedersi sul terrazzo e ascoltare come s’affievoliscono le voci della città, come cantano gli ultimi merli… Ma anche questo non serve a nulla, perché nel canto degli uccelli non c’è forma, non c’è qui né adagio né allegro – un certo filosofo in un vasto studio sulla musica ha scritto “gli usignoli non sentono il canto degli usignoli”, sono soltanto gli un po’ esaltati esseri umani a sentirlo – di conseguenza l’unico modo per staccarsene è stancarsene, prendersene a noia (diciamo la verità). Mentre un brano musicale, soggetto alla disciplina della forma, anticipa il momento della nostra saturazione, a meno che non si tratti di un’opera di Wagner dal ciclo L’anello del Nibelungo, magnifica, ma un po’ troppo lunga. Sensazione di segreto: qui vivevano i miei cari. Qui facevano i loro sogni, qui progettavano, qui si dedicavano al lutto, qui s’innamoravano, costruivano case, morivano, andavano ai cimiteri. Qui pensavano che il mondo fosse Leopoli, soltanto Leopoli. Da ogni viaggio proprio qui tornavano e perciò questa città, situata sui colli, era la loro geometrica Roma. Qui, in ansia o spensieratamente, svolgevano dinanzi a sé il grande circolo del futuro, che scorreva attraverso le stagioni dell’anno, attraverso le corte giornate di gennaio, impantanandosi nella neve, e attraverso le interminabili serate di giugno, finché in un certo momento non si spaccò, non si dissolse nell’aria, non morì. E allora, quando quel circolo morì, io nacqui. Al crepuscolo, a giugno, quell’antica vita, che ormai non esiste più – se non in vecchie cartoline, dove però è rimpicciolita, assume una forma caricaturale, nelle cartoline con fotografia, dalle quali ci scrutano assurdi signori dai baffi troppo benfatti e signore con cappelli che sono impazzite, sulle quali sono cresciuti i giardini di Semiramide, sicché non possiamo in nessun modo identificarci con loro – nel più discreto dei modi appare, si manifesta di nuovo. Se soltanto si ascoltasse più attentamente, se più attentamente si guardasse… Un giorno qualcosa accadrà, cadrà il velo che occulta la realtà interiore. Ma contemporaneamente mi rendo conto che questa sensazione di segreto, di mistero dimorante in queste strade, in questi parchi, è qualcosa di così fuggevole, così difficile da difendere – se qualcuno mi domandasse ironicamente: “Ma insomma, qual è, in sostanza, il mistero che Lei intende, signor Adam?”, non riuscirei a rispondere. So anche che ci sono persone, a volte molto intelligenti, che per nessuna ragione al mondo accetterebbero il postulato d’esistenza del mistero in una città, o in un parco, o in una silenziosa strada al crepuscolo. No, diranno, qui tutto può essere verificato, misurato, nel parco si annida questa quantità di specie di uccelli, due diverse sottospecie di picchio, dodici scoiattoli, forse quattro martore e cinque barboni. Una pattuglia di polizia può con facilità setacciare il parco e redigere un rapporto oggettivo, dal quale risulterà che non è stato trovato nessun segreto.

Scendemmo all’hotel George, il cui nome conosce in Polonia ogni bambino, perché quest’hotel è diventato uno dei simboli di Leopoli; adesso però gli gioverebbe una ristrutturazione. Quando si cammina per il corridoio, sul tappeto, si sentono sotto i piedi le sbriciolate piastrelle del pavimento, che il tappeto deve nascondere alla vista degli ospiti, e lo fa efficacemente, e tuttavia non riesce ad ingannare i piedi, la cui sensibilità è ben nota. Si potranno d’altronde ristrutturare i simboli?

Non ne sono certo. […]

A Leopoli un momento divertente: la sera del primo giorno, a cena, io improvvisamente accusai i miei compagni di viaggio di non capire niente di questa città, di trattarla come se fossero in un posto qualsiasi dell’Europa, a Liverpool o a Bochum, di non sentire niente, di spazzare, spolverare con sguardi oggettivi vie e piazze, come se essi fossero solo macchine fotografiche, e invece questa è una città fuori del comune, qui ci sono cose magnifiche, sebbene nascoste… Continuano a essere, in una certa misura, riposte sotto l’involucro, il tegumento della polvere sovietica, che ancora posa su di loro, d’accordo, ma ci vuole un certo sforzo dell’immaginazione per penetrarle, questa non è la facile Firenze con la sua ovvia, assoluta bellezza, confermata da cento guide, non è Roma, la cui bellezza vede ogni idiota, no, qui le cose vanno in modo completamente diverso, la città si nasconde sotto uno strato di volgarità – tanto più merita un’esplorazione, tanto più le persone sensibili dovrebbero mettersi al lavoro, e non solo attendere passivamente un miracolo. Qui, in questa città lesa, bisogna servirsi non solo della vista e dell’udito, ma anche dell’immaginazione; l’immaginazione in verità, come diceva Marcel Proust, si riferisce sempre ai luoghi assenti, lontani, non ci si può immaginare una strada nella quale stiamo proprio adesso, la stanza nella quale ci troviamo, la persona con la quale stiamo parlando, è pur vero che Proust viveva nell’epoca classica, prima della catastrofe, non poteva sapere che un giorno ci sarebbero state città semiesistenti, semiabbandonate, rivestite del copertone del brutto, città perdute e semirecuperate, non poteva prevedere che in loro l’immaginazione sarebbe diventata – doveva, deve diventare – un senso in più, semi-immaginazione e semi-macchina percettiva, perché i comuni, medicamente ed empiricamente confermati sensi non bastano in loro, devono essere soccorsi da un occhio semi-socchiuso, dall’intuizione… Non poteva prevedere la nostra escursione a Leopoli, alla città che non appartiene a nessuno, né a coloro che da lei sono partiti, né a coloro che qui abitano stabilmente, e perciò esige una nuova declinazione dell’immaginazione. Io ovviamente mi espressi più brevemente, allora non avrei saputo sviluppare così tanto il mio argomento, ero molto più laconico ed emotivo, forse anche goffo, è soltanto ora che sono solo nella mia stanza, ascolto musica e posso mettere giù ciò che davvero avevo da dire, è soltanto adesso, vincendo il mio eterno esprit d’escalier (riflesso ritardato), correggo l’imperfetta realtà di quella serata, quando eravamo seduti nel sotterraneo di un ristorante in via Akademicka (nome prebellico) a Leopoli.

 

Profughi

 

Ingobbiti sotto un peso che a volte

è visibile, e a volte no,

arrancano nel fango o nella sabbia del deserto,

curvi, affamati,

 

taciturni uomini in spesse casacche e caffettani,

vestiti per tutte e quattro le stagioni dell’anno,

anziane donne dai volti sgualciti

che portano qualcosa che è un neonato, una lampada

– in ricordo – o un ultimo boccone di pane.

 

Questa può essere la Bosnia, oggi,

la Polonia nel settembre ’39, la Francia –.

otto mesi dopo, la Turingia nel ’45,

la Somalia o l’Afghanistan, l’Egitto.

 

C’è sempre un carro, o quantomeno un carretto,

riempito di tesori (un piumino, un gotto d’argento

e l’odore di casa che svapora presto),

una macchina senza benzina, abbandonata in un fosso,

un cavallo (sarà tradito), neve, molta neve,

troppa neve, troppo sole, troppa pioggia,

 

e questa caratteristica incurvatura,

come verso un altro pianeta, migliore,

che abbia meno ambiziosi generali,

meno armate, meno neve, meno vento,

meno Storia (purtroppo, questo pianeta

non c’è, c’è solo l’incurvatura).

 

Strascicando le gambe,

vanno lentamente, molto lentamente

al paese nondove,

alla città nessuno

sul fiume mai.

 

(da Terra di fuoco, 1994)

 

In fin dei conti, è infatti pur vero che scrivo per correggere le mie goffaggini, i miei laconismi, per cavare da borbottii ed equivalenti della frase frasi più lunghe, meglio motivate. Mi guardarono, non comprendendo la mia esplosione, ma dopo un attimo forse giunsero alla conclusione che avevano a che fare con qualcuno un po’ anormale, con qualcuno che stava facendo un viaggio in un luogo per lui straordinario, lo compresero, e il giorno dopo – mi sembrava – sentirono qualcosa della maestà di questa città, qualcosa del suo irraggiamento…

(Edizioni a5, Cracovia, 2011)

 

Traduzioni a cura di Marco Bruno, (Bari, 1980), traduttore, scrittore e curatore della raccolta antologica di poesie di Adam Zagajewski “Guarire dal silenzio” (Mondadori, 2020).