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Ragazza di campagna

La strada chiassosa del vecchio paese, un funerale pieno di gente e il ricordo di un grande amore finito male. Lei dopo quel giorno se ne è andata per sempre, lui non l’ha più cercata. Che cosa saremmo senza i nostri dolori e senza le bugie che li hanno causati?

Per tornare a casa bisogna per forza passare per il paese. La strada statale senza nome corre verso ovest all’ombra di un bosco grigiastro di stabilimenti per la lavorazione del riso, poi s’incurva ai piedi del camino della fabbrica di liquori e si addentra nella cittadina, tuffandosi di colpo nel vortice chiassoso del punto che congiunge città e campagna. I carri trainati dai buoi sono stati ormai sostituiti dai motorini, ma le strade sono rimaste strette come una volta, e quindi intasate da fiumi di mezzi e di persone. Svincolarsi in questa strada, in preda all’anarchia totale, è impresa ardua, gli ingorghi sono continui. È in questi momenti che la donna si rallegra di essersene andata, baciata dalla fortuna di un amore finito male. Si potrebbe quasi dire che provi un senso di gratitudine verso l’uomo che l’ha abbandonata, perché altrimenti oggi sarebbe una banale donna di mezza età piantata in una cittadina di provincia, sempre a sciabattare in giro con addosso il pigiama, sorda alla cacofonia di clacson alle sue spalle.

Le sembra di arrancare nel fango di una palude. La sua auto riesce finalmente a liberarsi dallo stuolo di indovini ciechi e dei loro fedeli che blocca il ponte vecchio e si immette nella strada piastrellata di granito tra due file di edifici bassi, dove si trovano un alberghetto, un negozio di alimentari, un parrucchiere, un vecchio teatro con la vernice rossa tutta scrostata. La croce sul tetto e il fumo degli incensi davanti alla porta conferiscono a quel luogo un’aria religiosa, come quella di una chiesa o di un tempio. In due o tre minuti si arriva in fondo al paese, dove si apre un tipico paesaggio di campagna: l’argine del fiume coperto di piante profumate, le fronde dei pioppi e dei salici mosse dal vento, i riflessi di luce sull’acqua. La donna procede con indifferenza: ormai quella vista, così familiare sin dall’infanzia, non cattura più la sua attenzione. Le esperienze di una vita hanno gettato i suoi segreti in abissi ancora più profondi, così reconditi che nemmeno lei è più in grado di raggiungerli. La strada piastrellata di granito è un susseguirsi di archi gonfiabili con la scritta lutto. Già a un primo sguardo si capisce che si tratta di un funerale di lusso: senza dubbio il morto era ricco. La donna getta appena uno sguardo al nome scritto sugli archi, così rapido che i suoi occhi lampeggiano come fanno i fari delle auto sui cartelli stradali, senza lasciare traccia. Il traffico si blocca all’altezza del teatro. Gli altarini e le corone di fiori occupano metà della strada, e il resto dello spazio è gremito di persone venute ad ascoltare i canti funebri. Con la crisi dell’opera, il teatro è caduto in disuso e gli attori si sono riciclati come interpreti di canti di accompagnamento ai funerali. La vernice rossa scrostata sul portone del teatro le fa pensare al tempo e alla storia: la mano che era stata presa tanti anni prima proprio in quel punto sembra ancora conservare una parte del calore dell’uomo che l’aveva tenuta stretta, il primo bacio dato ai piedi dell’albero parasole profuma ancora di menta piperita, e l’argine erboso che unisce il paese alla campagna trabocca della gioia dell’amore.

Un uomo esce a disperdere la folla, fa segno alla donna di proseguire, anche se poi le persone tornano ad accalcarsi dietro l’auto che procede, come l’acqua del fiume dopo il passaggio di una barca.

La donna abbassa il finestrino per ringraziarlo, lui grida all’improvviso il suo nome da studentessa, e gli si increspano le rughe del viso. L’uomo, all’apparenza vecchissimo, le dice che sono stati compagni di classe alle medie. Per lei è un tuffo nel passato: in un attimo, tutto le scorre davanti agli occhi. L’uomo fa un altro nome e lo sguardo di lei segue il dito che indica uno degli archi gonfiabili del funerale: Ji Xianjun. Così su due piedi il nome non le dice niente, ma poi, come una pallina da pingpong che fa qualche rimbalzo sul tavolo e rotola un po’ e poi si ferma, viene travolta dalla sorpresa.

Si stupisce anche lei della sua reazione. Quella storia la ricordava bene ma si era ormai annebbiato persino il nome del protagonista. Forse non era l’amore che ricordava, ma gli eventi: la vecchia storia di una relazione finita a causa della distanza tra città e campagna.

Il loro ultimo incontro, quello sì, era nitido. Era un mattino avvolto da una nebbia leggera. Sull’argine le erbacce crescevano insieme alla loro storia, di fronte a un battello-draga fermo in mezzo al fiume – lo stesso dove lui l’aveva portata a passare la notte insieme. Il fratello minore, Ji Mujun, era caposquadra nella fabbrica che lavorava il materiale ricavato dal dragaggio. I due fratelli erano sempre dalla stessa parte e uniti nel contrastare i pregiudizi dei loro genitori contro le ragazze di campagna, cosa che si rivelò decisiva per dare al loro amore uno spazio vitale. Con il senno di poi, la donna arrivò a considerare quella notte come la più romantica della sua vita, quella in cui aveva provato l’amore più profondo. A diciott’anni, illuminata dalla luna e tra i sussurri della corrente, era diventata la sua donna. Lei lo aveva aiutato a prendersi cura del fratello minore, che era finito in ospedale. Aveva un buco in testa e il corpo pieno di ferite, ma lo avevano nascosto ai genitori per evitare che si preoccupassero. La ragazza – perché allora era solo una ragazza – gli aveva portato da casa zuppe, medicine e ogni cosa che potesse servire. Aveva passato la notte su una brandina pieghevole, mentre lui si stringeva sul letto d’ospedale. In quella situazione il loro amore si mostrava ancora più stabile e profondo. Non si sarebbe sorpresa se quella mattina lui le avesse proposto di sposarla.

Ma le cose andarono esattamente al contrario. Lui sembrava aver passato la notte in bianco e il suo sguardo era serissimo. Non le diede alcuna spiegazione sulla mano ingessata, il braccio avvolto nelle garze appeso al collo con una fascia. Le cinque dita esperte nello scrivere rapporti e documenti del governo spuntavano ora come faccini di neonati. Lui era il classico intellettuale mite e delicato. Lei sapeva quanto quelle dita fossero tenere e belle. Fu lui ad andare dritto al punto. Con un tono grave e triste, le disse che stava per sposarsi con una studentessa universitaria di città.

L’auto alle sue spalle suona il clacson. La donna fa per spostarsi sul lato della strada, ma mette per sbaglio la retromarcia e per poco non va a sbattere. Il rumore dei tamburi e dei petardi nascondono il suo imbarazzo. Anche se non ricorda il suo nome, sa che quell’uomo, quello che dice che era suo compagno di classe, era stato espulso per cattiva condotta dalla scuola del paese assieme a Ji Mujun, ed entrambi erano stati rimandati alla scuola media del villaggio, dove avrebbero dovuto ripetere l’anno. Tutti e due odiavano studiare ed erano sempre in giro a combinare guai, come due ragazzi di strada. Lei era stata in classe con loro solo per un anno e si erano scambiati giusto qualche parola. “Ji Mujun è stato davvero generoso con suo fratello: pensa che il teatro si è riempito per tre giorni di seguito”. Incurante di tutto il resto l’uomo si avvicina al finestrino e continua a parlare del funerale, come se fra lui e la donna non ci sia un muro di decenni, come se lei fosse venuta apposta per fare domande sulla cerimonia. E così, a distanza di trent’anni, si è imbattuta per strada nel suo primo amore. Solo che lei è viva, lui no. Alla donna non interessa parlare di funerali fastosi, di sudari dai prezzi astronomici o di bare dal legno pregiato. Lei vuole sapere com’è possibile che quell’uomo se ne sia andato a cinquant’anni, cosa è successo, se ha figli che lo stanno piangendo, se ha trascorso questa vita come aveva desiderato. E se ha pensato a lei, di tanto in tanto, dopo il suo matrimonio. Avrà provato ad avere sue notizie? Avrà avuto rimorsi per la crudeltà e la spietatezza che ha mostrato quel giorno?

Nella sua mente riappare l’argine erboso. L’acqua del fiume che scorre fino all’orizzonte, dipingendo un paesaggio magnifico. Quando lui le disse che si sarebbe sposato con una studentessa universitaria nata in città, uno stormo di uccelli neri si alzò in volo gracchiando dagli alberi. Poi, il silenzio. La nebbiolina si infittì. Lui continuò a sottolineare l’importanza dello status e dell’educazione, tutti pregi che lei non aveva. Lei non credeva di avere il diritto di ostacolare gli altri nella loro ricerca di una vita migliore. Ogni forzatura sarebbe stata moralmente scorretta, e il rispetto verso sé stessa le impedì di esprimere l’amore che provava. Ormai le parole non avevano più alcun significato. Il ragazzo affranto si fece avanti per un abbraccio d’addio, ma lei rifiutò quel gesto di compassione e ipocrisia e si allontanò velocemente da lui, gli occhi pieni di lacrime.

“Ji Mujun ha organizzato un gruppo di ex studenti, ma nessuno è riuscito a mettersi in contatto con te. Ora che sei qui dobbiamo fare una rimpatriata! Sai, Xianjun ha fatto i soldi: ha un sacco di draghe e di operai. Quando usciamo offre sempre lui. E quindi vedi, vedi che per fare la bella vita non bisogna per forza essere andati all’università, sai quanti laureati se le sognano queste cose”.

Lei non è tipo da restare in contatto con i vecchi conoscenti per rinvangare ogni tanto il passato. Ognuno segue la propria filosofia di vita, ma quando manca una lingua comune e si hanno valori troppo distanti, non ci sono le basi per un dialogo. Anche in quel momento alla donna non viene una risposta. Forse proprio per convincerla, per elogiare chi è rimasto in campagna e dimostrare che non bisogna per forza andare lontano per avere una vita piena di bellezza, l’ex compagno di classe non smette più di parlarle di come Ji Mujun abbia fatto fortuna, e di quanto è intensa e ricca la loro vita lì, senza immaginarsi che parte del cuore della donna si è già intirizzito.

Tutta la scena si sarebbe dovuta svolgere in modo diverso. Quante volte aveva immaginato d’incontrarlo su quella stessa strada: doveva pur aver sentito dire che lei aveva preso un dottorato, ottenuto la residenza in una grande città – cosa affatto semplice – e non poteva non sapere il ruolo che lui aveva avuto nel suo destino. Sicuramente avrebbe riso ironizzando sul fatto che a ciascuno andavano riconosciuti i propri meriti. Chissà, forse, da giovane artista pieno di spirito ed energie qual era, magari si era trasformato in un uomo di mezza età mediocre e grassoccio, con una vita placida e tranquilla, senza raffiche di vento e sconvolgimenti. Poi si sarebbero seduti insieme, come vecchi amici, e lui non avrebbe potuto esimersi dal parlare dei propri figli e dei nipoti, il massimo vanto che la maggior parte delle persone è in grado di esibire in questa vita. Lei invece non avrebbe fatto parola di quella famosa studentessa di città, anche se all’epoca moriva dalla voglia di sapere da dove fosse spuntata quella sciagura improvvisa.

Lui l’avrebbe sposata: così pensava lei mentre raccoglieva le cose rimaste nella casa lasciata dagli antenati della sua famiglia, a lato dell’argine. Era una tipica casa dai muri bianchi e le tegole verdi, con un imponente salone centrale sorretto da quattro colonne di legno. La porta si affacciava su uno stagno cosparso di ninfee, dove danzavano le libellule. Accanto all’acqua crescevano canne e giunchi e il terreno tutt’intorno era cosparso di piante erbacee: erbe misere, cenci molli, ciperacee, nappole, cardi, sensitive, pepe d’acqua… era come se fossero arrivati tutti insieme i fiori della campagna, portando aria di festa. Dagli alberi le cicale frinivano a ritmo per spronarli a sbrigarsi. I caprifogli diffondevano il loro aroma sospesi a mezz’aria, i rami ben avvinghiati alla vecchia sofora. I due stavano rassettando casa come marito e moglie, spazzando via la polvere e strappando le erbacce. A lei sembrava che la natura e la vecchia casa, immersa nel più profondo silenzio, stessero augurando buona fortuna.

Le piaceva quella vecchia casa. Sosteneva che sarebbe stato meglio se tutte le case del paese avessero avuto i muri bianchi e le tegole verdi come quella. Lui rispose sorridendo che un tempo erano abitate solo da donne che camminavano a fatica per via dei piedi fasciati, come sua nonna. Una volta finito il lavoro, impolverati dalla testa ai piedi, balzarono dall’altra parte dell’argine e si tuffarono nel fiume. A lei piaceva immergersi sott’acqua e, quando tardava a riemergere, lui si preoccupava e chiamava il suo nome. Quando arrivò il tramonto fecero l’amore come due pesci nell’acqua mossa e cullati dalle onde. Molti anni dopo quel fiume, rimasto lo stesso, avrebbe potuto provare che lui l’aveva amata, di un amore puro quanto quello di lei.

Suo fratello finì in ospedale proprio il giorno dopo, e i due abbandonarono i lavori di casa per correre ad assisterlo. Era l’opposto di lui: scuro di pelle e piuttosto basso di statura, aveva l’aspetto di un robusto uomo di campagna. Amava i film di arti marziali di Hong Kong, allora molto di moda, di tanto in tanto si cacciava nei guai, ma poteva sempre fare affidamento su suo fratello. Ji Xianjun era molto affettuoso con Ji Mujun: si diceva che era il modo di reagire alla freddezza dei genitori. Ma probabilmente erano tutte sciocchezze, perché Ji Xianjun era un uomo dolce e di buon cuore.

Che dolcezza quando si erano conosciuti. Era stato un inverno particolarmente freddo, con le nevicate più forti degli ultimi cinquant’anni. La neve formava cumuli così alti da coprire metà delle sagome che percorrevano l’argine. Quell’anno nel comune erano state introdotte le carte d’identità. La donna, essendo una delle poche studentesse di scuola superiore del villaggio, era stata scelta per censire la popolazione, quindi era stata trasferita all’ufficio del comune per trascrivere le informazioni raccolte. Per quasi un mese uscì presto al mattino e rincasò tardi la sera, facendo avanti e indietro lungo l’argine, con un vento gelido da penetrare le ossa, accompagnato da grossi fiocchi di neve come farfalle impazzite. Ma per quanto terribile potesse essere il tempo, nel suo cuore scorreva sempre un miele caldo e viscoso: all’andata pensava che avrebbe raggiunto il luogo dove si trovava lui, al ritorno già desiderava rivederlo l’indomani. Lui era il responsabile della raccolta dei dati personali in tutto il territorio del comune, e si erano conosciuti così. Lei trascriveva i dati nel suo ufficio, producendo manoscritti che sarebbero diventati documentazione e base giuridica. Lui le aveva insegnato molto, esortandola a prestare attenzione ai dettagli, soprattutto alle date di nascita, che non dovevano contenere il minimo errore. Inoltre le faceva il tè e rabboccava la stufa di carbone. Senza che se ne rendessero conto, con il tempo queste semplici azioni banali si caricarono di ben altri significati. Un giorno, quando fu ora di staccare, il vento del Nord infuriava e il cielo nero pece sembrava da giorno del giudizio. Lui la fece restare, sistemandola in ufficio, e restò con lei a mangiare la cena ordinata in mensa. Parlarono di lavoro, poi si riscaldarono accanto al fuoco chiacchierando del più e del meno. Le fiamme danzavano e ogni tanto facevano scintille. La notte scivolava sempre più verso le profondità del mare. L’eco dei battiti del cuore copriva i rumori che arrivavano da fuori. Il respiro cadeva lento e silenzioso come la neve, il vento si acquietò per il resto della notte. Lei si addormentò chinata sul tavolo; lui non tornò in dormitorio e rimase a tenere vivo il fuoco. Fu così che si fece giorno.

“Conosco degli ottimi esempi…”. L’ex compagno di classe assume la posa di chi sta per fare un lungo discorso: “Prendi il fratello di Ji Mujun, ha fatto l’università, aveva un bel lavoro dalle nove alle cinque in un ufficio statale, ma non ha fatto nulla degno di nota, è solo finito in galera… e c’è rimasto vent’anni, quando è uscito non gli è rimasto neanche tanto tempo da godersi, poi è crepato. Non ha forse studiato per niente?”.

Quella manciata di minuti sembrano alla donna i più teatrali della sua vita. Il tempo scorre lento sulla bocca del narratore mentre i buchi di quegli anni nella vita di lui si colmano di dettagli incredibili. La donna però non ha l’espressione stupefatta delle attrici di teatro, anzi mantiene un’espressione indecifrabile, con gli occhi persi nel vuoto. Nei primi anni ha atteso notizie da lui, aspettava che in un modo o nell’altro riuscisse a trovarla, a contattarla, che si interessasse della sua vita e dei suoi sentimenti, che le desse una spiegazione per quel cambiamento così improvviso. Trovarla non sarebbe stato difficile, i suoi genitori non gli avrebbero mai tenuto nascosto il suo numero di telefono. Ma lui non l’aveva mai cercata, l’aveva dimenticata, e quella spietatezza l’aveva resa ancora più rabbiosa e decisa a raggiungere i propri obiettivi.

“Perché è finito in galera?”.

Pronuncia la domanda come se fosse diventata improvvisamente curiosa della storia di uno sconosciuto. Fa sedere l’ex compagno di classe sul posto del passeggero, chiude il finestrino e accende l’aria condizionata. Gli dice che è per metterlo a suo agio, ma in realtà vuole nascondere il disorientamento che prova dopo quelle rivelazioni. Era un uomo così perbene: come avrebbe potuto commettere un crimine? E poi che crimine? Ma quindi non si era più fatto vivo perché era stato sbattuto in prigione. In vent’anni di galera non era mai andata a fargli visita, adesso era lei quella senza cuore! Non si era nemmeno più informata su come aveva fatto a ferirsi la mano, aveva girato i tacchi e se ne era andata, tutto qui, aveva pure rifiutato il suo ultimo abbraccio; e ora si sente trafiggere dal cerchio vuoto di quel braccio che si era aperto per accoglierla. Se non fosse stata accecata dall’orgoglio, avrebbe sicuramente capito che c’era qualcosa dietro quella decisione, un’angoscia misteriosa dentro allo sguardo di lui, quell’espressione grave con cui si mordeva la lingua… il passato adesso è all’improvviso limpido come uno specchio, e la donna comincia a incolpare sé stessa.

“È una lunga storia! Anch’io l’ho saputa dopo un bel po’”. L’ex compagno di classe tira fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca e dà qualche colpetto con le dita al fondo finché non spunta una sigaretta, come una bacchetta della fortuna. Lei non fuma e rifiuta con un gesto della mano, ma poi ci ripensa e la prende, come se sperasse di poterci leggere il futuro. L’ex compagno di classe le accende la sigaretta e lei, come per paura che possa dimenticarsi tutto, chiede nuovamente quale crimine ha commesso quell’uomo.

Per strada c’è il delirio. Qualcuno viene a bussare al finestrino per chiamare l’ex compagno di classe a dare una mano, perché la confusione sta aumentando. Come presidente della commissione funeraria, l’ex compagno di classe ha in mano l’organizzazione e vuole che tutto fili liscio. Non le risponde subito, riluttante, ma torna a citare l’incombente rimpatriata di classe, si segna con cura il suo numero di telefono e si alza per andarsene. Appena sceso dall’auto si volta e, chinando la testa verso di lei, mormora: “Ha ammazzato qualcuno”.

La donna resta in silenzio in auto a fumare una sigaretta di cui non sente nemmeno il sapore. Ha inghiottito le informazioni rivelate dall’ex compagno, una dopo l’altra, come sassi che ora le raschiano le viscere. Ha amato un assassino – il pensiero la fa rabbrividire all’istante. Perché ha ucciso? E chi? E come? L’ha strangolato, gli ha rotto l’osso del collo, l’ha accoltellato, colpito con un oggetto? Le sembra di vederlo allontanarsi dal luogo del delitto scavalcando il cadavere e dirigersi dritto verso di lei, con il volto spruzzato di sangue.

Sta perdendo il controllo. Con la mano urta la leva e i tergicristalli si azionano all’improvviso, sfregando rumorosamente il parabrezza. La donna getta via la sigaretta, mette in moto di nuovo l’auto e si allontana lentamente. Dal parabrezza vede il funerale allontanarsi sempre più, mentre il vento scuote l’arco gonfiabile facendo dondolare il suo nome, come per salutarla.

Il servosterzo le sembra più duro da manovrare, come se le ruote fossero impantanate nel fango.

L’auto esce dalla cittadina e imbocca l’argine erboso. L’acqua è torbida. Un battello sta dragando il centro del fiume. La donna rivede quella coppia di giovani innamorati di tanti anni fa e sente il fiume bisbigliare sotto la barca. La ragazza è da tempo irriconoscibile, ma quel giovane intellettuale mite e delicato è finito in una bara di legno di canfora, le mani bianche e affusolate da assassino poste l’una sull’altra in modo gentile, posate sul petto in cui una volta affondava la sua amata, dove il cuore che un tempo batteva per amore giace ormai immobile.

Quell’uomo che ha amato con religiosa devozione era un assassino. No, non era vero, quelle tenere mani sapevano afferrare solo carta e penna, e si erano posate solo sui suoi capelli o sul suo soprabito, non avrebbero mai e poi mai potuto maneggiare un’arma, perché non c’erano mani più dolci e razionali di quelle.

L’auto sembra fermarsi da sola, proprio nel punto da cui si erano tuffati nel fiume dopo avere sistemato la casa. La donna ricorda bene questa curva del fiume. Le loro impronte sono ricoperte dalle erbe selvati-che. Il salice dal collo piegato è rosicchiato dagli insetti e l’albero si erge metà vivo e metà avvizzito. Lei abbassa il finestrino, allarga i polmoni e lascia che la brezza del fiume entri nell’abitacolo. Guarda l’acqua incresparsi, onda per onda, e sente la sua voce che la chiama, perché era sott’acqua da troppo tempo, una voce che tradiva amore e preoccupazione.

“Ha ammazzato qualcuno”.

Una sensazione confusa e inspiegabile la porta a rimandare il ritorno in città per prendere parte alla rimpatriata dei compagni di classe delle medie, per la quale non ha il minimo interesse. La sua presenza eleva lo standard del raduno, e così Ji Mujun decide di prenotare il ristorante in stile tradizionale più bello del paese, in riva al fiume. Dalle finestre si vede un paesaggio mozzafiato in cui risalta l’arancione di cui si è tinto il fiume. La scena è più o meno come se l’era aspettata: i compagni di classe che non vede da oltre trent’anni hanno dei volti perlopiù sconosciuti, segnati dagli edemi oculari e fuori forma, ma sono pieni di spirito e hanno timbri di voce altissimi con cui si lanciano in risa sguaiate. La loro è una semplicità quasi selvatica. L’arrivo della donna per un po’ rende tutti più diffidenti, quasi in allerta, ma ben presto prevale la cordialità. Riesce anche a riconoscere alcuni di quelli con cui all’epoca aveva rapporti abbastanza stretti, il che le fa percepire la crudeltà del tempo. Hanno lasciato il villaggio per aprire modeste attività in paese, ora hanno lavori in città o più lontano, nella provincia, e c’è a chi va meglio e a chi va peggio. Altri sono morti per malattia o cause improvvise, come l’ex professore di cinese.

Ji Mujun arriva che si sono appena scambiati le prime parole. Lo riconosce all’istante. Gli occhi le si arrossano.

Lui la cinge in un abbraccio pieno di sincerità, che per lei è come mille parole. Ha difficoltà a muoversi, e nel corso della serata la donna scopre che è dovuto a quel ricovero in ospedale. La rimpatriata non ha un tema particolare, si chiacchiera di tutto, tra ricordi e novità, poi non resta che darsi al cibo e all’alcol. Vista la nuova arrivata, si torna a rinvangare i ricordi, chi aveva sbirciato le lettere d’amore di chi, chi si era invaghito della responsabile scolastica e della sua carnagione candida, chi era stato beccato a copiare al compito. Ji Mujun fuma dall’inizio alla fine, e il suo volto è attraversato da tiepidi lampi di dolore per il lutto. Il vecchio compagno di classe incontrato per strada si occupa di tenere calda l’atmosfera: a ogni momento morto propone un brindisi, o invita qualcuno a cantare o a recitare un pezzo d’opera. Nel mezzo del baccano i commensali formano piccoli gruppi, chi parla di figli e nipoti, chi degli affari, mentre altri ancora sono solo sbronzi marci. L’alcol a fiumi e le pance piene sono il segno del successo della serata: quando è ora di andare, chi ha legato di più decide di andare al centro benessere a farsi un bel pediluvio per riprendersi dalla sbornia. La rimpatriata è davvero finita.

Ji Mujun la accompagna in terrazza, che regala un panorama sulla cittadina che lei non ha mai apprezzato. E invece rimane incantata dai riflessi sull’acqua delle case bianche e verdi, di una bellezza e uno splendore indescrivibili. Tutte le strutture di quella strada antica, considerata un luogo d’interesse culturale, erano state rinnovate con muri bianchi, tegole verdi e infissi di legno, lo stesso stile della casa di famiglia che lei e suo fratello avevano pulito insieme. Ji Mujun aveva reso suo fratello socio dell’azienda, dividendola in due quote uguali: quando era uscito di prigione non aveva idea di essere diventato ricco. Dopo la prigione passava tutto il tempo nella casa di famiglia. Era stato lui a finanziare l’adozione di quello stile per gli edifici della cittadina.

“È stata colpa mia”, dice Ji Mujun. “Lui non ha ucciso nessuno”.

Ji Mujun mischia il racconto di quel giorno con le lacrime e il dolore. L’eccitazione con cui parla dopo un silenzio che si accumula da tempo lo fa balbettare un discorso poco coerente, che cercherà poi di rattoppare inviandole in un secondo momento dei messaggi, uno dopo l’altro. È morso dal rimpianto per il guaio che ha combinato.

Quell’anno il suo battello ebbe un contenzioso con un’altra dragatrice. Lui era un caposquadra e la lotta per il territorio non lo riguardava, ma riteneva che il suo capo fosse stato trattato ingiustamente. Nella società dell’epoca tirava aria di violenza e non era raro che i giovani si spaccassero la testa a vicenda per le donne, per questioni di reputazione o per un momento di rabbia. Vista la fama che si era fatto nelle risse, chi lo avesse sconfitto ne avrebbe tratto un immenso prestigio, quindi i suoi nemici furono particolarmente feroci e lo assalirono anche con mattoni e coltellacci da anguria. Inoltre le conoscenze che avevano nell’ufficio di pubblica sicurezza gli garantivano di non dover pagare nemmeno le spese dell’ospedale.

“Ogni volta che ne combinavo una, lui era lì per me. Ero pieno di ferite su tutto il corpo e mi avevano rotto delle costole. Passai un mese in ospedale, più morto che vivo. Lui stava ancora peggio di me. Si sentiva responsabile in quanto fratello maggiore”. Queste erano state le parole di Ji Mujun. “Era un uomo di lettere, non era tipo da risse, e le prese per primo. Alla fine non riuscirono a sistemargli le ossa, gli rimasero il braccio storto e le dita morte”. Davanti agli occhi della donna compare l’immagine di lui ferito, il braccio rotto appeso al collo, l’altro aperto verso di lei per invitarla in un abbraccio. Non si sarebbe mai immaginata di avere davanti un assassino.

“Non ha ucciso nessuno”. Ji Mujun sembra leggerle nel pensiero. “Quel tizio scivolò da solo e batté la testa su una roccia”.

Oltre allo scontro, le relazioni sociali erano più che complicate. Al processo si rivelarono troppo deboli. Fu la rovina della famiglia. Il padre prima ebbe un crollo nervoso, poi il sovraccarico di ansia e depressione dopo sei mesi se lo portò via. La madre si aggrappò alla vita, che non le concesse però di vedere il giorno in cui suo figlio uscì di prigione.

Ji Mujun rimane a lungo in silenzio. Sono in debito anche con te, aggiunge. Suo fratello aveva messo tutto il suo cuore nella sistemazione della casa di famiglia e aveva scelto con cura e in segreto il giorno in cui si sarebbe presentato a casa dei genitori di lei per chiedere la sua mano. Era questione di poco tempo e lei sarebbe diventata sua moglie.

“Così si è inventato la storia della studentessa universitaria. Conosceva il tuo carattere, quanto sai essere irruenta ma anche dolce. Sapeva che solo così ti saresti allontanata da lui. Diceva che sarebbe stato meglio per te, avresti dovuto sopportare molto meno e sarebbe stato più semplice”.

Il corso del fiume porta il loro silenzio verso luoghi lontani.

La donna non sa dire cosa sarebbe stato più semplice. L’auto procede lenta lungo l’argine erboso, e per la prima volta si prende del tempo per osservare con cura l’ambiente circostante. Le tombe, gli orticelli e le case abusive spezzettano l’argine e ne rovinano la linearità. Dei vecchi salici piangenti non rimane quasi più traccia. Per lei è una rivelazione improvvisa: la bellezza dell’argine erboso, così come quella spina acuminata della sua vita, non esistono più. Fra lei e la terra dove è nata e cresciuta si è formato un rapporto nuovo, segnato dal mistero, dove si nascondono un’armonia e un’intesa segreta che non possono essere capite. Ora quei luoghi cominciano a mancarle prima ancora di averli lasciati.

14 luglio 2021

 

 

Letteratura cinese e censura

Sheng Keyi è una delle scrittrici più note e influenti della letteratura cinese contemporanea. Nei suoi romanzi dà voce alle donne cinesi che crescono in una società scioccata da trent’anni di politica del figlio unico, tra gigantesche diseguaglianze sociali, pregiudizi, ossessioni e violenza. Per questo i suoi lavori sono sotto il costante controllo del Partito, e due dei suoi romanzi, tra cui Fuga di Morte (Fazi), sono stati censurati in Cina. È stata paragonata a Elena Ferrante dopo la sua ultima trilogia, una saga familiare che affronta i temi degli aborti forzati, delle libertà negate, del destino già scritto di chi nasce lontano dalle opportunità delle metropoli. Il racconto in queste pagine è inedito e pubblicato in esclusiva da Review. La traduzione dal cinese è di Federico Picerni.

Sheng Keyi (Hunan, 1973), scrittrice cinese. Vive a Pechino. Tra gli altri, il suo romanzo “Northern Girls” (Penguin China, 2012) è stato candidato al Man Asian Literary Prize. In Italia ha pubblicato con Fazi “Fuga di morte” (2019) e “Crescita selvaggia”, da marzo in libreria.