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Ravioli da intorto alla cantautora

In trattoria con Francesco Guccini, a dirgli quale sia la più bella delle sue canzoni e a farsi raccontare di trapper e ghiacciaie. Il tempo che nessuno ci rende, quando il successo pagava i libri e le sigarette. Incontro di rime interne, d’affetto e di altre sciocchezze

È quando Francesco Guccini mi parla della signorinella del quinto piano, che capisco cosa ci faccio lì. Quando siamo in macchina (che Guccini non guida, non avendo mai preso la patente), e lui declama i versi d’una canzone che in questo disco di altrui canzoni del secolo scorso non c’è, ma gli sarebbe piaciuto mettercela, e io smanetto sul cellulare (che Guccini non ha, perché non ha smanie di aggiornamento come noialtri sempre timorosi di perderci qualcosa), e scopro che Achille Togliani quella canzone lì l’ha incisa quando Francesco Guccini aveva nove anni, e figuriamoci se quell’ossessione lì non la capisco io, che il Sanremo di quand’avevo nove anni lo conosco più in dettaglio delle mie cartelle cliniche. È a metà strada tra la casa di Francesco e Raffaella, a Pàvana, e il ristorante dove pranzano sempre, mentre lui mi spiega che il palazzo a destra è la dogana di quando a destra c’era lo stato Vaticano e a sinistra il Granducato di Toscana (almeno credo: son, della razza mia, la prima che non ha studiato), che ci arrivo: l’infanzia non sarà destino, ma dopo una certa età gli anni di formazione sono ossessione, e se c’è qualcuno che mi ha formata è quel signore lì, seduto nel sedile del passeggero a spiegare che non potrebbe più vivere a Bologna perché lo sconvolge il traffico. Quel signore che ho raggiunto sull’appennino con un treno a bordo del quale ho pensato tutto il tempo “rotaie implacabili per nessun dove”, vestita “in blu, perché odio il nero”, in una giornata di diluvio che appena scesa dal treno mi ha costretta a borbottare “se mi vedessi col mio trench stile Bogart, Keaton, sotto la pioggia che ti vengo a cercare”.

Riavvolgimento del nastro. Due ore prima, al tavolo della cucina nella casa di Pàvana. Soncini: io ho un problema a parlare con te, perché io di norma mi esprimo quasi solo attraverso citazioni di Guccini. Guccini: ah ma fai pure. La casa di Pàvana è la casa che i nonni affittavano ai turisti, all’epoca Francesco Guccini abitava un po’ più in là, al mulino dove nel 2012 ha registrato il penultimo disco. Era una casa diversa, era un secolo diverso, era un’idea di benessere diversa. “Questa non è una casa particolarmente lussuosa, ma mi guardo intorno e c’è un frigorifero. Settant’anni fa eravamo di passaggio a Bologna, mia madre mi disse: guarda, un frigorifero. Ma ce l’abbiamo anche noi. No, noi abbiamo la ghiacciaia, che il ghiaccio non lo fa, devi mettercelo. E non ce l’avevamo mai messo perché costava, non eravamo abbastanza ricchi per il ghiaccio. Lì c’è un lavandino: nel rubinetto di sinistra c’è l’acqua calda. È una ricchezza fantastica. Lì c’è una televisione: la televisione in casa Guccini arrivò nel 1960, assieme al frigorifero Fiat, che adesso è in cantina ma ancora funziona”. Gli dico che la mia risposta ai ragazzi secondo cui nessuna generazione è mai stata male come la loro di solito è: la vostra bisnonna lavava i panni al fiume. Mi dice che sua madre li lavava nel bottaccio, gli tocca spiegarmi che è il serbatoio del mulino dove “la sera mi lavavano i piedi, nonostante protestassi: me li avete già lavati ieri. E facevano il bucato lì, ed era femminile: bughèda in modenese, bugada in pavanese. I bucati nei dialetti sono sempre femminili”. Con Guccini si finisce a parlare sempre di parole, con me pure: proseguite nella lettura solo se siete patiti del genere.

Delle canzoni tue sappiamo, ma anche Com’è profondo il mare di Dalla, o La vita è adesso di Baglioni, sono dischi d’una ricchezza lessicale che oggi non hanno neanche i docenti universitari. Com’è successo che chi lavora con le parole sia finito ad avere un vocabolario scarno quanto quello d’un ingegnere o d’un lattaio? “Raffaella insegna. La povertà di lessico in questi ragazzini delle medie è paurosa. E il motivo è uno solo: non leggono. Nel 1952 io leggevo Il vittorioso, un settimanale cattolico. Fece un concorso, descrivete il vostro paese. Scrissi un raccontino, che venne pubblicato, con mia grande soddisfazione, nonostante il premio che mi mandarono non corrispondesse alle mie aspettative. Cominciava con le parole ‘nella forra tortuosa e boscosa’: io sfido un dodicenne di oggi a sapere cosa voglian dire ‘forra’ e ‘tortuosa’. Forse ‘boscosa’ sì”. Un dodicenne ma pure un trentenne, sospetto. Oltre che al lessico e ai dialetti, nell’anno ottantadue di sua vita Francesco Guccini, eterno studente, si è dedicato ai canti popolari e alle ricerche storiche. Mi parla di Costantino Nigra, “giovane, romantico, bello, colto: fu mandato da Cavour a Parigi per intortare l’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, il quale Napoleone III era a sua volta intortato dalla bellissima contessa di Castiglione, ventenne, che pare sia riuscita nell’impresa, e infatti Napoleone III appoggiò l’Italia. Ma l’imperatrice Eugenia era molto pia: c’era simpatia tra i due, ma non credo siano mai addivenuti al dunque”. Concordiamo che “addivenuti” non la capiranno né i dodicenni né i trentenni.

“Gli americani sono arrivati qui nell’ottobre del 44, me li ricordo benissimo. Venivano in casa a mangiare la polenta fritta dei miei nonni, la pastasciutta che gli piaceva moltissimo. Io andavo alla mensa degli americani, per me erano leccornie mai viste, l’ananas in scatola, il burro di noccioline. Loro ascoltavano la canzone di Bing Crosby, Pistol Packin’ Mama, io storpiavo il ritornello, lacapistoldà, me la facevano cantare e mi ricompensavano con la cioccolata, che mangiavo di nascosto perché mia madre non voleva”. Evoco il prete, l’aggeggio di ferro battuto con dentro i tizzoni che a casa di mia nonna, dove non c’era il riscaldamento, veniva messo dentro al letto prima d’infilarcisi, ma Guccini ha in repertorio un’immagine assai più bella. “Dai miei nonni oltre al prete mettevano un bossolo di cannone. Vicino a casa c’erano i carrarmati che sparavano a ore fisse come andassero in ufficio, e gli regalavano i bossoli: l’ottone era preziosissimo. Uno di questi bossoli, chiuso con un tappo a vite, veniva riempito d’acqua calda della stufa economica, e lo mettevi nel letto per scaldarti i piedi di notte”.

Al ristorante, il cantautore ordina mezza porzione di ravioli alla cantautora, una ricetta sua che Mimmo – che, sfamandolo, è meritatamente tra coloro che vengono ringraziati nel libretto di Canzoni da intorto – ha messo in menu: ravioli burro e parmigiano con l’aggiunta di striscioline di prosciutto. C’è una cosa che il tizio con le cui canzoni sono cresciuta dice da anni in ogni intervista, dimostrando vieppiù che nessuno è meno in grado di valutare un’opera di chi l’ha creata: dice Francesco Guccini che L’avvelenata è una canzone minore. Ne sono offesa a nome di tutti coloro che Guccini l’hanno ascoltato, mica hanno letto il parere dei cronisti, e quindi sanno che il canzoniere gucciniano non è precipuamente militante, ma anzi brilla nelle canzoni d’amore e nelle invettive (“macché macché” borbotta lui, negando il proprio talento per l’invettiva). Ne sono offesa come donna, come ascoltatrice, come bolognese, come ex adolescente e come vegliarda. A tavola gliene chiedo conto. Lui, che è crudele, mi racconta con raccapriccio d’un amico che abita lì vicino e “ogni volta che vado a trovarlo mi sottopone al rito infame di farmi sentire L’avvelenata”. Protesto che è come Fossati che odia La mia banda suona il rock. “Ha ragione, perché ha scritto canzoni migliori”. Ma il pubblico vuol sentire quella: fatevi delle domande. “Sul pubblico, me le faccio”. Sono a tanto così dal dire vergògnati, dal dire ma come ti permetti. Ripiego su: e allora dimmi quali sarebbero le dieci migliori canzoni di Guccini, su, sentiamo. Seguono molti minuti in cui lui dice un titolo e io cerco di non dire “ma sei scemo”, io ne suggerisco un altro e lui cerca di non dire “ma sei scema”, ma è chiaro che entrambi lo pensiamo. Mi concede, di tutte quelle che propongo, solo Lettera e Signora Bovary (quando quel disco uscì ero in seconda liceo; in quinta, per me inevitabilmente Flaubert divenne quello che aveva copiato Guccini). Ne suggerisce qualcuna anche Raffaella, non dirò quali, ma sappiate che vengono dall’autore liquidate con “Eh, soccia, allora” e con “L’ho scritta me, savrò bén”. Dieci minuti dopo, Raffaella ci ripenserà: “Ma nessuno ha detto Autogrill”. Come abbiamo potuto, ma che vergogna. Ormai è tardi, la discussione è finita, l’ultimo intervento è stato di Mimmo: “Pensa te, un giorno, Francesco, fare tutto questo per trovare i dieci pezzi importanti di Achille Lauro”. Se fosse stata una pièce di teatro brillante del Novecento inglese, qui si sarebbe chiuso il sipario.

Sono in quinta liceo, l’anno in cui Gustave plagia Francesco. Sono dietro le quinte d’un concerto di Guccini, a Bologna. Poco fa Fabrizio De André era in tribuna, finito il concerto viene a salutarlo e gli dice: “Ma come fai? Io devo star seduto, ho mal di schiena”. È l’inverno del 1991, quindi De André ha appena compiuto cinquantun anni, quindi sono coetanei (lui, e Guccini, e mio padre), quindi hanno allora gli anni che io avrò nel 2023. Allora io ne ho diciotto, e non capisco di cosa parlino: non sono in grado di considerare l’ipotesi che Guccini possa non fare avanti e indietro dal limitare del palco, per parlare col pubblico come un consumato monologhista, e cambiare le parole delle canzoni per inserirci riferimenti all’attualità, e insomma non essere Guccini. È un’ipotesi che forse non considera ancora neanche lui, che non ha mica ancora scritto “e c’è il sospetto che sia triviale l’affanno e l’ansimo dopo una corsa”. Ma ha già scritto “l’oggi dov’è andato, l’ieri se ne andrà”, e “stare a letto il giorno dopo è forse l’unica mia mèta”: sa già tutto; io ho diciotto piccolissimi anni: non so niente, e non ho mai avuto mal di schiena. Quasi trentadue anni dopo, a Guccini non lo dico. È una conversazione piena di ricordi non evocati, domande non fatte, madeleine taciute. (In quinta si faceva anche Proust, che per me era quello che aveva copiato le merendine di Palombella rossa. È invero inspiegabile che quella di francese non volesse ammettermi alla maturità).

Raffaella corregge compiti di là, mentre io e Francesco parliamo in cucina ed entrano ed escono tre gatti. Di quello rosso, dice “questo è il gatto di Raffaella, il gatto stronzo” (il gatto stronzo dorme con loro, e la notte prima Francesco ha tossito, lo stronzo si è spaventato e ha graffiato in faccia Raffaella). Sto cercando di contenere le mie citazioni dell’intervistato, quindi non gli dico che mi viene in mente Il pensionato che “mi dice cento volte tra la rete dei giardini d’una sua gatta morta, d’una lite coi vicini”. Però gli dico che, tra la fase in cui mi sembrava che la canzone che meglio raccontava la mia vegliardaggine fosse Canzone delle osterie di fuori porta, e quella attuale (in cui mi sembra che mi somigli di più Lettera), c’è stato un momento in cui mi specchiavo nel Pensionato. Mi dice che era tutto vero, che è una frase che dirà varie volte: noi qui a sbatterci per convincere il pubblico che io sia un altro, e Guccini bello sereno ad ammettere che lui mica inventava mai niente. Era il suo vicino, il pensionato; era quello che, insistendo che a dirottare il treno fosse stato un anarchico, gli fece venire l’idea di scrivere La locomotiva. Faceva un vino buonissimo, e l’idea della canzone su di lui gli venne il giorno che entrò in casa sua e vide poggiata sulla credenza una busta con su scritto, sottolineato in blu e rosso: in caso di mia morte. “Era un calzolaio specializzato in piedi deformi. Mi fece delle scarpe: brutte come la morte, ma mai avuto scarpe così comode”. Non è poi così stupefacente che ogni testo di canzone di Guccini sia una sceneggiatura perfetta: lo sono anche le storie nelle sue conversazioni.

“Dimmi te come si fa a intortare coi Morti di Reggio Emilia”. Dice Francesco Guccini che lui non ha mai messo i titoli ai suoi dischi, tranne Radici e Signora Bovary (domanda non fatta: mica mi starai dicendo che D’amore di morte e di altre sciocchezze non è un’idea tua); e che è stata Raffaella a dire che quelle erano le sue canzoni da intorto, che le usava per rimorchiare (che è una parola più brutta di intortare, ma necessaria per far comprendere il concetto a chi sia così svantaggiato da non avere familiarità col lessico emiliano). “Un’illazione affettuosa, maliziosa, ma non verace”. La casa discografica ha aderito entusiasta, forse pensando che, se proprio il venerato maestro ci tiene a fare il disco con le canzoni popolari d’un secolo fa, almeno servirà un titolo accattivante. È una gioia che il titolo sia così assurdo e così bello, ma non era necessario: è Guccini, non pubblicava un disco da dieci anni, al tavolo da Mimmo è un pellegrinaggio di gente che gli dice che il disco nei negozi non si trova più, è uscito da tre giorni e l’hanno già esaurito. Canzoni da intorto non è su Spotify, se volete ascoltarlo dovete comprarvelo, come nel Novecento, e magari leggere le meraviglie scritte sul libretto che accompagna le canzoni. Il cantante (stavolta non autore) si è vantato in ogni intervista di non sapere neanche cosa sia lo streaming. Quando al tavolo del ristorante arriva una tizia che gli dice “La ascolto sempre mentre faccio pilates”, avrei voglia di chiedere all’uomo senza patente e senza streaming se sappia cosa sia il pilates, ma – delle cento domande che non faccio – questa sarebbe superflua; la risposta stava già, nel secolo scorso, in Quattro stracci: “La libertà delle tue pozioni, di yoga, di erbe, psiche, di omeopatia”.

Sono i tempi che fanno le persone o le persone che fanno i tempi? Sembro un po’ Marzullo, lo so. “Sì, stavo per dirlo io. Forse i tempi, i tempi sono fondamentali. La mia generazione era abituata, appena aveva un lavoro, a contribuire: di ventimila lire, dieci le davo in casa”. Il giorno della prima comunione, il piccolo Francesco – che già non aveva potuto banchettare perché era guarito da poco dall’itterizia – venne portato al cinema. Ma non, come voleva lui, a vedere Buffalo Bill: “La stirpe del drago, un film sulla lunga marcia di Mao”. (Ore dopo, tornata a casa, lo cercherò, scoprendo che Katharine Hepburn faceva la cinese: pensa oggi).

Ha fatto due volte la quinta elementare. Non perché fosse stato bocciato: perché il padre non lo riteneva maturo per passare alle medie. (Il padre era un impiegato delle poste, aveva studiato da perito tecnico-industriale e rotto la tradizione dei nonni, “il primo a non fare il mugnaio dal Cinquecento”. Il bisnonno di Francesco non era d’accordo – chi lo manda avanti, poi, il mulino – e allora la nonna aveva detto: lo faccio studiare coi miei soldi. Obietto: ma quindi “son della razza mia il primo che ha studiato” non era vero. Guccini alza un sopracciglio: “Mio padre aveva una grande manualità, cosa che io non ho, ma non aveva fatto una scuola umanistica”).

Oggi, se un insegnante boccia un ragazzino, i genitori insorgono. “Ho visto un’intervista alla televisione, una madre diceva ‘Mio figlio è un genio’, era un trapper, credo si dica così, ho sentito il testo: io l’avrei picchiato. Ma come fai a dire è un genio, sei stupida anche tu”. Il tempo andato non ritroverai, e mica solo quello di quando i genitori erano sbrigativi coi cinni. La storia della madre che liquida il Francesco adulto non ve la so traslitterare in dialetto come la racconta lui, quindi dovrete accontentarvi della versione italiana. Francesco vive ancora coi suoi, e fa già concerti. Ma sarà mica un lavoro, viene qualcuno a vederti, chiede la madre. Ieri sera erano in quindicimila, risponde il figlio. Non hanno proprio niente da fare, conclude sconsolata lei, che non andrà mai a un concerto del figlio. Pensa oggi. Poiché le ciance sulle moine dei genitori indispensabili a crescere figli sicuri di sé e del proprio talento sono, appunto, ciance, Guccini è diventato un adulto con una certa qual consapevolezza delle proprie doti. Quando gli parlo della mia ossessione per Lettera, non si schermisce, non simula modestia, ma fa una cosa familiare a noialtri con autostima ipertrofica: mi parla della difficoltà d’essere all’altezza di sé stesso. “Ho scritto la prima strofa di Lettera, che è un ricamo di rime interne, assonanze, concordanze, poi quando stavo per scrivere la seconda ho detto: e adesso cosa faccio, come vado avanti? Poi ci sono più o meno riuscito”. Mi fa presente che, se sono fissata col tema del tempo perduto, ci sarebbe anche Autunno, coi suoi “tanti ‘io sarò’ diventati per sempre ‘io ero’”.

(Domanda non fatta. Il Guccini degli anni Novanta ha scritto, oltre a Lettera, Quello che non e Parole, Cirano e Nostra signora dell’ipocrisia, Canzone delle domande consuete e Addio, Non bisognerebbe e Quattro stracci. Tra i cinquanta e i sessant’anni d’età Francesco Guccini, giullare da niente, infila una serie di capolavori da far morire d’invidia chiunque lavori con le parole, e gli succede la stessa identica cosa che in quegli anni succede a Woody Allen, che fa i suoi film più belli ma la critica non se ne accorge perché è impegnata a sospirare “eh, ma non è più quello degli anni Settanta”. Domanda non fatta, ma tanto mica era una domanda). “Non son più capace di fare canzoni mie, e poi non sono paroliere. Autore di canzoni, non voglio dire ‘poeta’ ché è troppo grossa la parola”. Guccini mi sgrida quando dico che è straniante pensare abbia fatto un disco di canzoni scritte da altri, lui che è il più grande paroliere italiano. Dice che “il paroliere è un artigiano, può arrivare a livelli ottimi, ma si mette lì, davanti a una musica, e confeziona: io non son capace di scrivere una canzone se uno me lo chiede” (appassionato e puro, in stile rete tre), e ora “si vede che quel che dovevo dire l’ho detto”, e non gli viene proprio in mente di scrivere canzoni, “dopo L’ultima thule non ho più toccato la chitarra”. Gli dico che qualche mese fa Paolo Conte mi ha detto una cosa simile: una volta ogni giorno si metteva al pianoforte, adesso gli passa davanti e lo guarda come un estraneo. Lui dice: ci si stanca; io penso: e noi adesso come facciamo; io gli chiedo se ci siano inediti nei cassetti; lui dice: neanche uno. Sbotto: e io come faccio? “Leggi i libri”.

Guccini dice che il paroliere è quello che adatta La tieta, canzone catalana, e la fa diventare Bugiardo e incosciente, che “non c’entra una beata fava”. Però è bellissima. “Sarà anche bellissima, ma non c’entra una beata fava col testo originale che parla di una zia zitella”. Sospetto non gli piaccia neanche che gli diano del cantautore. “Io da grande volevo fare lo scrittore. Il cantautore è arrivato per caso, per combinazione”. Come tutti quelli nati prima dei cellulari, Guccini da piccolo leggeva: non avevamo altro passatempo disponibile. “Pur di leggere, leggevo delle puttanate vergognose. Fin da ragazzino sognavo di fare lo scrittore, da grande. Ho fatto il giornalista per un paio d’anni perché sognavo d’essere il giornalista che poi scrive un romanzo. C’era un certo Cavicchioli, mi pare, un giornalista che aveva scritto un libro, I voli del tacchino: un’invidia mortale. Poi c’era un poeta che conobbi a Bologna, pubblicò un romanzo sperimentale. Anche lì, lo vidi in vetrina: un’invidia mortale”. Evito di interromperlo citandolo, ma penso: più sobri e più discreti e che fan meno puttanate di me che scrivo in rima le canzoni (e d’altra parte a un certo punto di questa giornata mi dirà: “Per quello dico che non sono un paroliere: le canzoni parlano di me. Però una canzone non è mai veritiera. La verità è molto più complessa”). L’invidia per gli scrittori, dicevamo, e lui che non riusciva a farsi pubblicare, finché “ho messo insieme alcune cose, tra cui un romanzo di Luigi Meneghello, Libera nos a malo, la lettura di Gadda, il Pasticciaccio, e poi Pàvana. Pàvana mi ha dato un imprinting che le oche di Lorenz fanno ridere. E poi il lessico, m’interessava il lessico. Citazione: burattinaio di parole”. Gli dico: grazie che ti citi da solo, così non faccio la solita parte della fanatica. Il dialetto è un lusso del Guccini adulto, da bambino i suoi lo conoscevano ma lui no, “non l’abbiamo mai parlato perché i miei coetanei da piccoli non potevano parlare dialetto, venivano sgridati, c’era il primato dell’italianità” (Guccini è nato durante quella difficoltà minore denominata seconda guerra mondiale: niente di paragonabile ai disagi meritevoli di bonus psicologo di oggi, per carità). Quindi gli adolescenti dopo la guerra il dialetto non lo praticavano, ma “a Modena parlavamo in gergo. Oggi slinza, oggi piove. La ragazza per noi a Modena negli anni Cinquanta era la mina, ce l’hai la mina, altrimenti alle feste non venivi invitato. Le feste senza essere invitati con la mina erano quelle organizzate dalle ragazze, magari c’erano le cugine in visita, ma sennò ci voleva la mina per partecipare. Una volta Flaco, il mio chitarrista argentino, è arrivato con un amico con la ragazza, e mi ha presentato la su mina, perché in Argentina c’è molta immigrazione emiliana e quindi c’è lo stesso gergo”. Adesso, il dialetto è un rifugio per chi ami le parole: “L’italiano è sciupato, è consumato dalla televisione, non c’è un sostantivo senza aggettivo: ‘magico’, è tutto ‘magico’”.

Quindi Guccini è tornato alle radici, nelle zone dove documenti del Cinquecento recano traccia d’un tal “Guccino da Montagu’, professione munaro” (mugnaio). “Sarei voluto venire qui molti anni prima, da più giovane. Non posso più andare a funghi, camminare, curare un po’ l’orto. Sono arrivato tardi”. La sua vita, com’è normale accada, non è più quella delle carte, poi il caffè della stazione per neutralizzare il vino. “Vado a letto all’ora a cui uscivo di casa. Tutti gli amici che frequentavo da ragazzo son morti o stan morendo. Anche a Pàvana si può giocare a carte, in teoria: in pratica non ci son più i giocatori. E, se ci sono, son giocatori semiprofessionisti che se fai un errore ti mangiano la faccia”.

Ha case piene di libri (i vecchi sono rimasti a Bologna, in via Paolo Fabbri, ma – nonostante dica in ogni intervista che ha perso la vista e non può più leggere – gli editori continuano a riempire di novità l’indirizzo di Pàvana). “Per me aver raggiunto il successo era poter comprare tutti i libri che volevo e tutte le sigarette che volevo. Ho smesso di fumare da cinque anni, e non ci vedo più e non posso più leggere”. Forse hai già risposto in Autunno, in quel verso che evocava “quel rodere sordo che cambia ‘io faccio’ e lo fa diventare ‘io ricordo’”, ma Woody Allen in un vecchio film chiedeva se un ricordo è qualcosa che abbiamo o qualcosa che abbiamo perduto. “Abbiamo. Tutt’e due, però abbiamo”.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).