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Ribaltare la giunta birmana, tra i rododendri

Il Victoria Camp è il quartier generale dei Chin, che combattono contro i militari al comando del Myanmar in una terra liberata ma bombardabile dal cielo. In queste valli di confine, tra ribelli, disertori, ragazze che fanno aria ai feriti coi ventagli, si studia un progetto di convivenza pacifica: «Puoi divorziare da tua moglie, ma dai vicini no»

Controllate sempre dove si trovano i rifugi», consiglia ridendo Sui Khar, che ci accoglie in una capanna del Victoria Camp. Il quartier generale del Chin National Army, braccio armato del Chin National Front – uno dei gruppi etnici che si oppongono al regime militare birmano – è già stato bombardato e i rifugi sono stati scavati ovunque. Victoria Camp appare come una specie di esperimento antropologico: chiuso tra le colline e il fiume, è un accampamento militare e un villaggio civile, con scuole, chiese e ospedali. Ci vive un numero indeterminato di persone, da mille a cinquemila secondo i momenti e chi comunica i dati. «Prima era giungla, un posto selvaggio. Ora è un posto dove si raccolgono le forze rivoluzionarie, un rifugio per la popolazione», ci dice Sui Khar, l’unico personaggio di questa storia ad apparire col suo vero nome.

Terzo in ordine di comando del campo, Sui Khar è l’incarnazione di questo progetto d’insediamento: è un militare, un guerrigliero, ma rifiuta di darsi un grado. Si definisce soprattutto come politico: vicepresidente del Chin National Front. E come tale difende l’idea, per alcuni azzardata, di unire insediamenti civili e militari. «Per Min Aung Hlaing non c’è differenza tra obiettivi. Anzi, tende a colpire quelli civili, vuole punire e scoraggiare le comunità che riforniscono le milizie etniche con cibo, fondi e uomini. La sua è una strategia del terrore», dice, accusando il generale birmano di crimini contro l’umanità e crimini di guerra. «Noi cerchiamo di contrastarla proteggendo i civili, tenendoli vicini. I bombardamenti di gennaio non volevano colpire installazioni militari, erano mirate proprio a obiettivi civili». Lo dimostra il fatto che i jet hanno sganciato due bombe guidate di precisione sull’ospedale, identificato da una Croce Rossa sul tetto. Il bombardamento anche su obiettivi civili è uno dei modi della strategia di Tatmadaw.

Sui Khar indica su una carta della Birmania il territorio controllato dai Chin. Fa scorrere il dito lungo il corso del Miyttha, un piccolo fiume sulle cui sponde corre la linea del fronte che contrappone le forze Chin ai militari di Tatmadaw, l’esercito birmano. Una linea disseminata da villaggi ridotti in macerie e da aeroporti da cui decollano i Mig 29 della giunta militare che li hanno bombardati. Adesso lanciano bombe termobariche, che usano l’ossigeno nell’aria per generare un’esplosione ad alta temperatura e sono impiegate per distruggere trincee, gallerie, bunker. Come quelli in cui dovremmo rifugiarci.

«Il territorio lo controlliamo, siete al sicuro da attacchi di terra. Ma i bombardamenti, per quelli non abbiamo protezione», sarà l’avvertimento che ci sentiremo ripetere durante tutto il soggiorno nello stato Chin, in luoghi che non sono stati percorsi da altri giornalisti. Non italiani, almeno.

A occidente, quella zona che prima era giungla confina con l’estremo sud del Mizoram, uno degli stati dell’India nordorientale, compreso fra il Bangladesh e il Myanmar. «È come un dente del sub-continente indiano dentro il corpo dell’Asia. Una delle deformazioni della crosta che formano la giuntura tra Himalaya e catena indo-birmana, quella catena montuosa dell’Arakan-Yoma che ben conosciamo in Rakhine», spiega “il Professore”, geologo che conosce questa regione come le sue tasche e ne ha seguito i fiumi dalla foce sino all’interno, anche in zone di guerra. Sarebbe la perfetta incarnazione di “un italiano tranquillo”.

La zona è una successione di colline che alternano foreste, valli e gole profonde in cui scorrono fiumi e torrenti. Un ecosistema punteggiato dal rosso acceso degli alberi di rododendro, fiore nazionale, habitat di una fauna esotica che comprende specie come l’hornbill (il bucero, uccello dal lungo becco giallo ricurvo sormontato da una sorta di casco rosso), animale simbolo che campeggia nella bandiera e nelle insegne militari Chin.

«Mia madre mi raccontava che per fare dieci chilometri ci voleva un giorno», ricorda Olivia, un’attivista della Chin National Organisation. Oggi con i fuoristrada se ne possono fare anche cento. «Durante le piogge la strada diventa un pantano, ma se uno è bravo può farcela», dice Andrew, detto Sniper, il nostro autista, ex sergente dell’esercito indiano che vanta la sua guida e i molti nemici abbattuti nella guerra con il Pakistan. «Adesso dovrebbe essere l’inizio delle piogge, ma il global warming ha cambiato tutto», aggiunge. Il global warming sembra un suo pensiero fisso. Come i ricordi dei nemici uccisi. Così, prima che i monsoni rendano le strade impraticabili, attraversiamo il Tropico del Cancro. Saliamo e scendiamo tra colline devastate dalla pratica del “taglia e brucia” per creare spazio a coltivazioni di frutta, e alla fine arriviamo a uno dei fiumi di quella regione che scorre sul fondo di una valle segnando il confine tra India e Myanmar. È in questo punto che mesi fa gli aerei dell’aviazione birmana hanno sganciato una bomba. Forse per un errore, forse per un avvertimento.

«Stiamo passando il fiume Tiau. Siamo nel territorio Chin», esclama Pi, l’uomo che la resistenza ci ha assegnato come accompagnatore. Ha assunto un tono che suona enfatico ma non maschera emozione e paura. Quest’uomo rischia su entrambi i lati del confine: per i militari birmani è un terrorista, per gli indiani un rifugiato che non deve creare problemi e può essere espulso in ogni momento. Come moltissimi dei circa 50 mila che si sono rifugiati in India dopo il colpo di stato del febbraio 2021, per il governo di Delhi è un “migrante illegale”. In Mizoram, tuttavia, i Chin sono accolti come fratelli, o comunque come discendenti da un comune antenato mitico, quello che accomuna i Mizo in India, i Chin in Birmania e i Kuki in Bangladesh, divisi tra differenti territori durante il periodo coloniale britannico.

«Qui parlano la mia lingua», aggiunge Pi, affermando una precisa identità etnica. Non solo Chin, ma proprio di quella parte dello stato Chin in cui ci stiamo addentrando, tra villaggi semideserti. Dove la scena di ragazzi che giocano a pallavolo tra case sbarrate appare quasi metafisica.

«La geografia come destino» qui non è solo una bella citazione. «Siamo testimoni del declino della nazione-stato e di un ritorno del tribalismo in tutto il mondo», ha scritto il professor Robert Reich dell’Università della California: «Le tribù erano unite dal linguaggio, dalla religione, dal sangue e dalle credenze. Ognuna ha i suoi totem e demoni, la propria versione della verità».

È un concetto pericoloso e contagioso. Lo verifichiamo nel piccolissimo gruppo di giornalisti che ha organizzato e intrapreso questo viaggio mettendo assieme tribù filosofiche ed editoriali diverse, unite dal desiderio di raccontare una storia che non è mai stata raccontata. C’è chi cerca testimonianze di una rivoluzione civile, una specie di “liberazione” in salsa Chin, chi vuole studiare un futuro modello politico federale, chi è convinto di trovarsi al centro di un campo di studi etnoantropologico. Posizioni che riempiono le serate al Camp Victoria, al lume di una candela, sorseggiando acqua tiepida e cercando di allontanare ogni tipo di insetti molesti. Sembra di essere personaggi di una di quelle Apocalyptic Tribes, Smugglers & Freaks raccontate da Richard Ehrlich, veterano dei giornalisti occidentali di base a Bangkok, che ha raccolto avventure e disavventure degli occidentali che si sono avviati, e spesso perduti, lungo le vie dell’Asia.

In questo territorio frammentato il tribalismo è chiave di comprensione, pensiero-guida e progetto politico. Gli 800 mila individui della comunità Chin sono divisi in 6 tribù principali e 63 sottotribù, che si differenziano per variazioni dialettali e culturali. Secondo FK Lehman, antropologo americano noto come uno dei padri fondatori degli studi birmani, e il suo The Structure of Chin Society, la struttura socioculturale dei Chin rappresenta un esempio di adattamento a una maggioranza dominante “non occidentale”. Originari della Cina come altri popoli tibeto-birmani, i Chin si sono divisi tra India, Birmania e Bangladesh in seguito a migrazioni successive. In origine animisti, la maggioranza si è convertita al cristianesimo, forse perché l’animismo risulta più permeabile all’idea di un nuovo Dio di quanto non siano il buddismo, l’induismo o addirittura l’islam, religioni delle altre regioni in cui Chin si sono stabiliti.

Con la colonizzazione e i missionari di diverse congregazioni, protestanti ed evangeliche, si sono perdute molte tradizioni. Le chiese al centro dei villaggi che attraversiamo, che li fanno apparire come la scenografia di un film western, contribuiscono a dare l’immagine di una società sradicata. In compenso i missionari hanno contribuito al diffondersi dell’istruzione. In India i Mizo hanno il 95 per cento di alfabetizzazione, la più alta del subcontinente. Per lo stesso motivo molti dei rifugiati e degli attivisti politici si dichiarano pastori di un qualche rito.

Forse è anche per questo che l’esercito birmano, composto in gran parte da buddisti d’etnia bamar, prende di mira le chiese. «I buddisti hanno sempre discriminato i cristiani. È così dai tempi di Ne Win», dice Khuk, un attivista del Chin National Front, riferendosi al dittatore che ha governato la Birmania dal golpe del 1962 sino al 1988. «L’origine delle divisioni dei Chin risale al suo regime, che ha applicato la regola del divide et impera». Per Khuk, questa è una delle cause del sottosviluppo della regione Chin, di cui è responsabile anche Aung San Suu Kyi. «In termini di religione, lei ha seguito la corrente». Tra i Chin, la Signora non gode della stessa considerazione che ha tra i bamar, l’etnia dominante in Birmania. «Lei pensava che i nostri problemi si potessero risolvere costruendo infrastrutture», dice Khuk, per quanto ammetta che ormai queste obiezioni di carattere etnico siano superate dalla storia. La pervasiva influenza di stampo evangelico crea qualche problema. Non solo perché il governatore della regione di Aizawal, la capitale del Mizoram, sembra aver sconsigliato la vendita di birra per ragioni di morale pubblica, ma perché questo è uno dei punti di passaggio dei Free Burma Rangers, organizzazione “multietnica e multiconfessionale” fondata da David Eubank, ex ufficiale dei Ranger americani e pastore evangelico. L’aiuto è soprattutto medico, ma i Burma Rangers sono liberi di difendersi con le armi nel caso siano attaccati. «Non siamo una milizia. E non siamo pacifisti», dice Eubank. Così, per il solo fatto di essere alloggiati nella stessa guest house che aveva ospitato una squadra dei Burma Rangers, suscitiamo l’interesse della polizia locale. «Meglio che io resti qui», dice una persona che doveva accompagnarci.

«Il rischio di essere fermati sul confine è aumentato e non posso permettermelo. Ho troppe responsabilità nei confronti dei rifugiati». Sottinteso: noi rischiamo “solo” un soggiorno breve in una galera di Aizawal.

Aizawal, abbarbicata sulle colline, i palazzi poggiati su piloni come palafitte terrestri («ricorda Medellin», dice uno del gruppo con paragone appropriato), sembra la location di un film apocalittico. È qui, soprattutto, che tutto induce a pensare al tribalismo. Accade negli incontri con i responsabili Chin della società civile, rifugiati, parlamentari eletti nelle elezioni del 2019 vaporizzate dal golpe del febbraio seguente. E poi attivisti, rappresentanti di diverse township, distretti o province che qui assumono un diverso valore etnico, esponenti delle organizzazioni Chin e delle milizie a esse collegate, politici del Nug, il National Unity Government, il governo ombra costituito dopo il golpe del 2021. Tutti identificati da una miriade di sigle e acronimi che pronunciano all’inglese anche nei discorsi in lingua birmana o chin. Molti di loro sono pastori di chiese evangeliche, molti si rifanno a umbrella organisations che dovrebbero raccogliere differenti gruppi ma creano soprattutto nuovi acronimi. Quasi che ogni rifugiato cerchi una giustificazione in una sigla, si aggrappi a essa come a una ragione d’essere.

Tutti questi personaggi, tuttavia, trasmettono un entusiasmo e un coraggio che fanno perdonare ingenuità, confusione, anche una certa arroganza. È frutto di senso d’isolamento, abbandono. «Le nazioni dell’Asean sembrano molto poco partecipi del nostro problema. L’Unione europea parla molto ma fa ben poco e la guerra in Ucraina ha distratto dalla Birmania l’attenzione internazionale», dice Olivia. «Non riesco a capire perché quello che è stato fatto per Putin – l’accusa di crimini di guerra – non possa essere applicato a Min Aung Hlaing». Allo stesso modo gli attivisti del Nug denunciano la mancata reazione dell’Asean ai bombardamenti birmani, quando erano stati invitati a dichiarare una no flight zone sulle zone di combattimento ai confini con India e Thailandia.

La “distrazione” del mondo fa sentire più forti i problemi di ogni giorno e la difficoltà di progettare il futuro. «Vorremmo insegnare il pensiero critico. Spiegare la storia partendo dall’attualità», dice un ragazzo impegnato in progetti educativi. Ama Mozart, prima del golpe si era diplomato al conservatorio e voleva fare il direttore d’orchestra. «Ma per ora dobbiamo cercare di porre le basi più elementari dell’educazione. Ci mancano gli insegnanti e quei pochi che abbiamo non possiamo pagarli», aggiunge con un pragmatismo che si scontra col nostro scetticismo.

Questo è il vero scontro culturale quando ci si addentra in territori come questo. Ci fanno domande, come quella di Olivia, cui non sappiamo rispondere se non evocando scenari globali. Descrivono situazioni che noi ci ostiniamo a interpretare e, ancor peggio, giudicare applicando i nostri codici. Qui, invece, vige il Tlawmngaihna, splendido termine purtroppo intraducibile, che definisce la capacità di ognuno di noi di essere ospitale, gentile, altruista, disponibile ad aiutare gli altri. È uno dei tratti fondamentali dell’etica Chin e Mizo, che, almeno in teoria, non conosce distinzioni di classe e di genere. A questo principio si ispirano le decine di migliaia di Chin che negli ultimi vent’anni si sono stabiliti in America, Canada, Australia ed Europa e che stanno alimentando la resistenza con i loro fondi.

È seguendo questo principio che operano anche gli attivisti che incontriamo. C’è chi si occupa dei problemi psicologici dei disertori dell’esercito birmano, altri assistono le donne che sono fuggite dopo il bombardamento e ora soffrono di disturbo da stress post traumatico che qui chiamano semplicemente depressione, tristezza, nostalgia. Altri ancora, come un’avvocatessa rifugiata in India subito dopo il golpe, girano tra i villaggi documentando i casi di violazione di diritti umani.

«Soprattutto, cerco di spiegare che cosa siano i diritti umani. Per molta di questa gente non è un concetto acquisito», dice lei, e ancora una volta evidenzia l’abisso culturale che separa i nostri mondi. Tutti loro sono uniti dallo stesso progetto politico: pensano a una forma di democrazia federale altamente decentralizzata. In cui, ovviamente, i militari non abbiano alcun ruolo politico. «Puoi scegliere una moglie e puoi eventualmente divorziare», ci dirà Sui Khar nell’intervista al campo. «Ma non puoi scegliere i tuoi vicini. E da loro non puoi proprio allontanarti». L’unica soluzione – anche per quell’uomo che combatte da oltre trent’anni – è una coesistenza pacifica. C’è chi, come Awipi, che insegnava linguistica all’università di Rangoon, cerca di prevedere un’istruzione trilingue: etnica, bamar e internazionale. «Non necessariamente inglese». Per il momento si rifiuta di adottare i toponimi che la giunta birmana ha adottato nel 1989 come segno di anticolonialismo e per solidarietà seguiamo il suo esempio. In compenso sta pensando a un nuovo nome per la Birmania. Propone Aye-Yar-Lwin, unione dei due grandi fiumi del paese, l’Irrawaddy e il Salween. A quanto pare, tra tanti dialetti i Chin si divertono anche a giocare con le parole. Come quello che faceva notare l’assonanza tra tayot, cinese, e dayot, malvagio.

Fortunatamente Pi, il nostro accompagnatore, e Mung parlano la stessa lingua, provengono dallo stesso villaggio. Mung è il direttore del Chinland Information centre. Ammette che il suo compito principale è la propaganda, ma il termine non gli piace. «Mi interessano i sentimenti della gente», dice, forse perché in questa parte di mondo ogni cosa, alla fine, assume connotazioni spirituali. Sarà l’eredità animista o l’insegnamento cristiano. Sarà il Tlawmngaihna. Sarà questione di sentimenti, ma a quanto pare i Chin sono disposti ad accogliere i disertori. Forse si dimostrano meno diffidenti nei loro confronti di quanto non lo siamo noi. Riesce difficile credere alla sincerità dei due che incontriamo a Victoria Camp. Seduti come scolari, bevendo un’aranciata, sembrano recitare una parte.

Uno dice che ha disertato perché non gli piaceva come si stavano comportando a Thantlang, quella che si può considerare la Bakhmut birmana. Dice che non gli piaceva bruciare le case, saccheggiarle. L’altro era un poliziotto. «Volevo aiutare la gente, volevo che la gente mi volesse bene», dice. Ma quando si è accorto che la gente non gli voleva più bene, ha disertato. Non una parola, nel suo racconto, sul perché la gente non gli volesse più bene. Sembra aver rimosso ogni ricordo delle repressioni poliziesche contro cittadini e studenti. In futuro vorrebbe tornare a fare il poliziotto, ma non vuole più usare armi.

Il dottor Zinko vorrebbe continuare a fare il medico, studiare e specializzarsi, in qualcosa che non sia la chirurgia: «Non sono un chirurgo ma devo farlo». Il dottor Zinko ha 28 anni. Al tempo del colpo di stato si era laureato da poco ed era entrato a far parte del movimento di disobbedienza civile, uno di quei medici che si rifiutavano di servire sotto il regime militare. Ora è il responsabile dell’ospedale di Victoria Camp e del nuovo ospedale, destinato a diventare l’ospedale civile di tutta l’area. Il “vecchio ospedale”, aperto nell’agosto del 2021, sei mesi dopo il colpo di stato, e bombardato nell’aprile di quest’anno, ha già ricoverato oltre cinquemila persone. Molti hanno perso un piede o una gamba, sono saltati su una delle mine che l’esercito birmano dissemina nei villaggi: da decenni è la tattica terroristica di Tatmadaw. Qui sono accuditi da un gruppo di ragazze che non li abbandonano un istante. Ce n’è una che trascorre le ore, giorno dopo giorno, facendo vento con un piccolo ventaglio a un ragazzo incosciente disteso su una branda. Il nuovo ospedale, costruito sulle rive del fiume che segna il confine con l’India, è l’orgoglio del dottor Zinko, che forse, però, farebbe volentieri a meno di tanta responsabilità. È stato costruito utilizzando il legno della foresta ma le apparecchiature mediche, la sala operatoria, devono arrivare dall’India. Manca una via d’accesso e i pochi ricoverati sono trasportati a braccia. In tutto Victoria Camp si avverte questo “sentimento”, come lo chiamerebbe Mung, di collaborazione, disinvoltura, quasi informalità e pure di efficienza. Molti soldati non hanno gradi sulle uniformi, in vistoso contrasto col ridicolo carico di insegne e decorazioni dei militari di Tatmadaw. Il responsabile dell’addestramento indossa una t-shirt con scritto Peace is Dope, la pace è una droga. Difficile stabilire a cosa si riferisca, ma addosso a quest’uomo non ha nulla di pacifista. È stato addestrato dal Kachin Independent Army, una delle più efficienti e micidiali milizie etniche e ora addestra tutti i volontari che si presentano al campo, dai 18 ai 45 anni (senza richiedere documenti). «Dicono tutti che non hanno paura di morire per il paese», afferma. C’è da credergli, perché dopo tre mesi sono tutti messi alla prova.

Girando per il campo, tuttavia, gli unici che facciano davvero pensare al combattimento poco lontano sono quelli che si muovono su piccole motociclette equipaggiati con moderni fucili d’assalto con lanciagranate sottocanna, elmetti tattici e giubbotti antiproiettile. Probabilmente fanno parte delle squadre che stanno terrorizzando i soldati di Tatmadaw: le tattiche di guerriglia impiegate dai miliziani Chin hanno inflitto le perdite più severe all’esercito della giunta. La maggior parte dei soldati, invece, è dotata di quella che sembra essere la versione cinese dell’AK-47 sovietico, ormai icona delle guerre di “liberazione”. Ma ostentano anche machete e armi di ogni tipo, originali o imitazioni di quelle cinesi, russe, americane.

«Abbiamo bisogno di tre cose», risponde, sempre ridendo, Sui Khan, quando gli si chiede cosa gli serva di più. Conta con le dita: «Stinger, stinger, stinger». Leggero da trasportare e relativamente semplice, il missile terra aria FIM-92 Stinger sarebbe l’arma che potrebbe cambiare le sorti della guerra, come è accaduto in Afghanistan, dove la Cia consegnò ai mujaheddin circa 500 stinger da usare contro aerei ed elicotteri sovietici. «Ma nessuno ce li vende», aggiunge Sui Khan.

Leader studentesco durante le manifestazioni dell’88, da allora quest’uomo è alla macchia. Ha vissuto solo un periodo di relativa pace, tra il 2012 e il 2021. «Sembrava ci stessimo muovendo verso la democrazia. Quando incontravo i generali birmani però, guardandoli mi dicevo ‘Prima o poi questa gente farà un golpÈ», ricorda. «Non gli bastava il potere che avevano, volevano quello assoluto. Pensano di possedere il paese, è un concetto che è stato trasmesso a ogni livello dell’insegnamento militare. I generali volevano anche controllare ogni flusso di denaro, volevano poter continuare a fare tutti quei traffici che erano stati dichiarati illegali». Ora, secondo Sui Khar, l’avidità dei militari si rivela la loro rovina. «Il paradosso del golpe è che ha creato le condizioni per l’alleanza tra forze etniche e bamar. Adesso anche i birmani combattono. L’esercito è arroccato in difesa». Opinione confermata dallo US Institute for Peace, secondo cui le forze di Tatmadaw sono oggi inferiori a quelle della resistenza e delle milizie etniche. «La giunta è destinata al collasso, resta solo da capire quando», dice Sui Khar. «Quando accadrà, non so se per i generali voglio un tribunale o l’amnistia. Dipende da come si arrendono». Sembra di capire che preferirebbe non si arrendessero.

Intanto tra l’80 e il 90 per cento dello stato Chin è controllato dal Chin National Front e in molte zone si sta stabilendo un sistema politico, educativo e sanitario che dovrebbe essere modello per il futuro stato etnico. Le chiamano “zone liberate”. Anche il villaggio di Tlanglo era un’area liberata, così l’aprile scorso i militari hanno deciso di punire gli abitanti. Lo hanno bombardato uccidendo due persone e ferendone una decina, compresi due bambini. «Hanno sganciato una bomba là», racconta uno degli abitanti indicando un punto al centro del villaggio. Attorno non c’è più nulla, a parte cumuli di macerie. Da allora gli abitanti hanno abbandonato il villaggio rifugiandosi un po’ dappertutto. Alcuni non hanno voluto allontanarsi troppo e hanno allestito un accampamento nella foresta, a poche centinaia di metri dalle loro vecchie case. Vivono sotto teloni di plastica, cucinando su fuochi e mangiando quei pochi piccoli animali che riescono a cacciare o intrappolare. Nel villaggio restano in pochissimi, quasi a voler testimoniare la volontà di non farlo diventare un villaggio fantasma. C’è sempre qualcuno in ascolto: se sente il rumore di un jet in avvicinamento suona una “campana”, ossia il cerchione di un’auto appeso al ramo di un albero, per avvertire chiunque sia nei dintorni. Dicono che di campane così ce ne siano tante, sparse per tutto il territorio in modo da diffondere i segnali, come gli indiani facevano con i segnali di fumo. A quanto pare hanno suonato la campana mentre ci trovavamo nel villaggio. Io non l’ho sentita, ma questo è un problema mio.

Poco più di 50 chilometri a sud, leggermente spostata verso la linea del fronte orientale, si trova la città di Thantlang. Il nostro programma originale prevedeva di raggiungere una delle colline che la circondano per documentare la situazione della “Bakhmut birmana”. Proprio come Bakhmut, Thantlang ha valore strategico, perché da lì si possono controllare le strade principali del territorio Chin. Ma per la ferocia degli scontri che continuano dal settembre 2021 e sembrano destinati a intensificarsi nel territorio circostante, il viaggio non è stato autorizzato.

Di Thantlang ci ha parlato Tin, una donna che da quella città si è rifugiata in un villaggio del distretto di Champai, in Mizoram, a pochi chilometri dal confine con la Birmania. «I militari hanno bruciato le case. Tagliano le dita ai morti per prendere anelli e fedi. A Thantlang puoi solo combattere o fuggire». Da Thantlang sono fuggite circa dodicimila persone, la maggior parte si è dispersa all’interno dello stato Chin. Tin, anche lei pastore battista, cerca di prendersi cura degli altri rifugiati che vivono sparpagliati in quella zona dell’India perché non è consentito allestire un campo profughi. Gente che non si era mai allontanata dal proprio villaggio ha trovato rifugio in capanne di lamiera, che durante il giorno si trasformano in forni: come una donna che accudisce la madre ormai in piena demenza senile ed è costretta ad attendere qualcuno che le porti da mangiare e bere. O il vecchio malato di cancro che ha deciso di non curarsi e vuole lasciarsi morire.

Altre scene e storie di ordinaria disperazione ci attendono di ritorno ad Aizawal, nelle “case sicure” dove alcuni combattenti feriti aspettano il loro turno per andare a Delhi, dove, grazie ai fondi raccolti, gli verrà fornita una protesi. Attende anche l’uomo che ha perduto la gamba, il braccio e l’occhio sinistro. Lo portano in due, lo depongono al centro della stanza per fargli raccontare la sua storia. È accaduto mentre cercava di sparare con un mortaio autocostruito, dice, e se potesse vorrebbe tornare a combattere. Si può essere scettici, com’è accaduto a Victoria Camp. Si può pensare che sia una frase suggerita da chi ha organizzato l’incontro. La stessa frase la ripetono anche gli altri che incontriamo, anche loro feriti da un’arma improvvisata – il che, bisogna confessarlo, suscita qualche cinica battuta. Ma poi uno di loro cerca di spiegare i motivi di questa volontà e allora appare ferocemente sincero. «Noi siamo dalla parte del popolo, loro dalla parte del diavolo».

La mattina del 14 maggio le notizie del ciclone Mocha hanno cambiato ancora i nostri programmi. Le notizie che ci venivano trasmesse sia dal nostro amico Professore sia da diverse ong hanno sconsigliato il viaggio tra i campi profughi dei Rohingya che rischiavano di essere spazzati via. Il ciclone si stava spostando verso la Birmania, sulle coste del Rakhine impossibile da raggiungere. Da là sarebbe poi risalito, con intensità decrescente, verso lo stato Chin, da dove eravamo partiti. Nei giorni seguenti le notizie filtrate dalla Birmania avrebbero descritto il percorso del ciclone attraverso il Rakhine come «una scia di devastazione» che ha creato un’emergenza alimentare e sanitaria per circa 800 mila persone. La risposta, ha scritto Asia News, è stata lenta in modo devastante.

In compenso, durante una visita a Sittwe, capitale di quello stato, in un discorso ai pescatori il generale Min Aung Hlaing li ha invitati a piantare palme da cocco, alberi in grado di resistere anche al vento più forte.

«Dovreste trarre insegnamento dagli ultimi disastri naturali», ha dichiarato l’uomo che è il responsabile del più grande disastro che abbia mai colpito la Birmania.

Massimo Morello (Ancona, 1949), giornalista freelance. Dal 2006 vive a Bangkok dove si occupa principalmente di sud-est asiatico. Il suo ultimo libro è «Burma Blue» (Rosenberg & Sellier, 2021).