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Salvami ti prego l’allegria

In una chat di amiche succede di tutto: un giorno spunta “Una bambina di nome Piggle”, in cui Donald Winnicott diventa padre, madre, mostro, cibo, neonato e ci porta in una stanza dove si indaga la possibilità di non soffrire. Un libro che ti porti sempre dietro è la certezza del ritorno

Sto leggendo un libro bellissimo che mi è capitato per caso. Va detto che io ho, da prima che nascesse mio figlio (mi faccio i conti così: qua Andrea faceva le elementari, qui non era ancora nato, etc.), una rubrica di libri su un settimanale di moda. È una bella cosa, mi fa lavorare con delle redattrici fantastiche e non sbagliare nessun vestito. Il problema è che segnalo cinque libri a settimana, cinquantadue volte l’anno, da diciassette anni. E quindi non sono una lettrice “tipica”. Pretendo di capire subito se un libro mi piace o no, credo di sapere già a pagina dieci se lo mollo o continuo e, con voli svolazzanti per lo mezzo e in sul finale, in genere mi faccio un’idea con cui raccontare almeno di che pasta quel libro è fatto. Il novanta per cento sono romanzi, riesco a volte a infilarci qualcosa di poesia, pochissimo teatro, e qualche fumetto. Un azzardo di saggistica solo se divulgativa. Racconti sempre.

Questa premessa era necessaria, ma torniamo alla mia consolazione: il libro che sto leggendo. Donald Woods Winnicott, Una bambina di nome Piggle, Bollati Boringhieri.

Andare in giro con un libro che davvero vuoi continuare a leggere nella borsa è come portarsi dietro un caffè, una poltrona, un pomeriggio in silenzio, il sole, la cura, l’amore, un bel rossetto, la certezza del ritorno. Io vado in giro così.

Come mi è capitato questo libro tra le mani? Come ogni donna di cinquant’anni che voglia essere presente al suo tempo, ho una chat WhatsApp di compagne di classe, in cui – come in ogni chat di cinquantenni che si rispetti – sta succedendo di tutto. Non tra noi: tra noi e i nostri partner. Tradimenti, delusioni, chiarimenti, terapie di coppia. Noi amiche sentiamo solo una campana, quella delle ragazze, e parteggiamo spudoratamente per loro pur essendo sinceramente affezionate ai loro mariti. Una di noi è più disgraziata in questo periodo, perché fa la psicologa (come durante la pandemia, quando la sfortunata era la farmacista, o come nei traslochi, quando le sfortunate sono le architette, etc. etc.). E così lei ci ha infilato in chat qualche rigo di Winnicott. Era bellissimo, sembrava un romanzo. Era poetico e alto e commovente. Non importa cosa dicesse. Non avevo mai letto nulla di suo e ho deciso di provare con questa bambina di nome Piggle perché lo schema grafico della copertina è di Enzo Mari.

Lui è stato un pediatra inglese che ha lavorato per quarant’anni nel reparto di Psichiatria pediatrica di un ospedale pubblico di Londra, la storia che sto leggendo io – perché è una storia, di una storia si tratta, è la storia, la fiaba – è quella del suo incontro con una bambina di due anni e cinque mesi. Siamo negli anni Sessanta, i genitori di Piggle contattano il medico perché si fidano della psicoanalisi, si vede che sono molto colti, si vede dalle lettere che gli scrivono. E sono molto attenti alla bambina. Sì, perché il libro è quasi un’opera collettiva: c’è la storia delle sedici sedute che Winnicott dedicò a Piggle, nell’arco di un anno e mezzo, e le lettere dei genitori che monitoravano il comportamento della bambina. Anche le lettere sono ricche: ricche di amore, di sguardo, di competenza. Esiste una competenza genitoriale, esiste uno sguardo che dice: quella bimba lì sta male e io voglio aiutarla, esistono viaggi fino a Londra per salvare non un rene, non un occhio, non una gambetta di una bimba, ma la sua allegria, il suo apprendimento, la sua possibilità di non soffrire, che è nelle mani di tutti: basta riconoscere la sofferenza.

Winnicott diventa padre, madre, gioco, Piggle, mostro, cibo, neonato; Winnicott cammina sempre su un crinale fra il transfer e l’immedesimazione, tra la realtà e il gioco, e lo sa dire, lo sa scrivere. Sa riconoscere tutto degli altri, anche la loro parte in questo libro. E’ un romanzo generosissimo e nient’affatto compiaciuto. Leggendolo sto aprendo un diario intimo, sto entrando in una stanza altrimenti preclusa, mi avvicino alla tenerezza e alla guarigione. E finalmente ho capito perché nella mitologia classica Athena è partorita dalla testa di Zeus, finalmente. Ma questa è un’altra storia.

Valeria Parrella (Torre del Greco, 1974), scrittrice e drammaturga. I suoi ultimi romanzi sono “Almarina” (Einaudi, 2019, finalista al Premio Strega), “Quel tipo di donna” (Harper Collins, 2020) e “La Fortuna” (Feltrinelli, 2022). La sua ultima commedia è “Il segreto del talento”, il cui testo è uscito per Marsilio (2023).