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Scarponi numero 44

Javid e gli altri, a piedi nella neve verso la Francia. Odiare il sole perché è più difficile nascondersi, prendere a testate gli alberi o non provare più niente, neanche la paura. Sei anni di strada e di topi nelle calze

Javid Nikzad prende gli scarponi grigi numero 44 e se li infila. I calzettoni, mi spiega, sono stati rosicchiati dai topi in Croazia, in una delle tappe che dall’Afghanistan lo hanno portato fino a qui, a Oulx, a una manciata di chilometri dalla frontiera con la Francia, ultima svolta del suo viaggio che dura da sei anni. “Ad alcuni hanno rosicchiato anche i piedi, non solo i calzettoni. Sono stato fortunato” dice sorridendo. Javid ha 20 anni, la faccia larga, gli occhi scuri dal taglio allungato. Viene dalla città di Feyzabad, nel nord est dell’Afghanistan, non lontano dal Tajikistan. Mi mostra dov’è la sua casa segnandola con il dito su maps.me, la app che usano tutti i migranti per muoversi ovunque senza internet e senza scheda. Allarga l’immagine con le dita e mi fa vedere che la casa è distrutta. “I miei genitori sono morti, avevo 14 anni e sono partito”.

Quando parliamo, seduti al Rifugio Fraternità Massi di Oulx, Javid ha appena provato ad attraversare le Alpi. È partito il giorno prima da Oulx con l’autobus, è arrivato a Claviere, ultima cittadina italiana prima del confine, e poi da lì ha proseguito a piedi, affrontando il passo del Monginevro.

Ma è stato respinto dalla Gendarmerie francese. Mentre parliamo le famiglie di turisti che dormono negli hotel della valle si preparano ad andare sulle piste da sci, felici del sole e della straordinaria escursione termica che a gennaio regala dodici gradi a mezzogiorno a 1.800 metri di altezza. La stessa giornata di sole che preoccupa a morte Javid, perché con questa luce è difficile nascondersi, è impossibile camminare nel bianco della neve senza dare nell’occhio. “Stavamo salendo e dopo poco la polizia ci ha fermato”, dice indicandomi sulla cartina il punto esatto dove sono stati colti di sorpresa. Javid viaggia con un gruppo di nove ragazzi, iraniani, iracheni e afghani. Fra loro c’è il suo amico Ahmed, che ha 16 anni ed è anche lui di Feyzabad.

Quando la Gendarmerie li ha fermati Ahmed, minorenne, per legge non avrebbe dovuto essere respinto, aveva anche un documento che lo attestava, ma è stato costretto a firmare un foglio che dice che è nato nel 2000. Mi mostra il foglio e mi fa il gesto del pugno per farmi capire come lo hanno costretto a firmare. Poiché Javid è l’unico di loro che parla inglese è diventato il traduttore del gruppo e corre di qua e di là per spiegare ai volontari del Rifugio Massi quello che gli altri dicono. “Ci hanno respinto, ma oggi ci riproviamo – dice con convinzione – ho visto che c’è un’altra via, meno battuta e un po’ più pericolosa, da lì dovremmo farcela. Se proviamo di notte non ci vedono”.

I volontari e gli attivisti del Rifugio, che danno un pasto e un letto a questi ragazzi, lo mettono in guardia sui pericoli di camminare sui sentieri di notte, nella neve, lo pregano di prendere almeno il volantino con il numero di telefono del Soccorso alpino e della Croce rossa. Javid batte i piedi negli scarponi, sa che molto dipende da loro, dai suoi piedi. Non ha paura, suo padre è stato ucciso dai talebani – mi racconta – sua madre è morta di infarto, la sua casa su maps.me non c’è più, lui in questo viaggio è già stato picchiato in Bosnia, derubato in Croazia, ha vissuto in tende nel fango in Grecia, ha avuto fame, sete, angoscia. Non saranno un po’ di neve e il bosco a spaventarlo. Javid non ha paura perché ha vent’anni e a vent’anni non si ha paura. Ma anche perché non ha niente da perdere. Batte i piedi negli scarponi indossati sui calzettoni rosicchiati dai topi che hanno una stella alpina arancione ricamata su un lato, saranno senz’altro meglio delle sue scarpe da tennis per affrontare il cammino che da Claviere, in Italia, lo porterà a Briançon, in Francia. Ripone le sue scarpe di tela nella borsa, gli scarponi con la stella alpina arancione gli serviranno ad affrontare il passo, ma poi dovrà lasciarli al rifugio francese, dove gli attivisti italiani andranno a recuperali fra qualche giorno. Serviranno ad altri per fare lo stesso cammino. Altri con il suo stesso numero di scarpe, con una storia diversa, con lo stesso obiettivo. “Ci riprovo di notte così non mi vedono, ci riprovo per un passo meno conosciuto”, ripete convinto.

“La militarizzazione del confine e i maggiori controlli anche per il Green pass stanno rendendo questa rotta più pericolosa – dice Piero Gorza, antropologo, ricercatore, referente di Medici per i diritti umani per il Piemonte, che al Rifugio Massi è di casa – e visto che ci sono più controlli questi migranti sono spinti a rischiare di più. Non è la montagna che uccide, è il rischio che facciamo correre a queste persone”. E infatti qualche ora dopo veniamo a sapere che il corpo di un ragazzo è stato trovato lungo i binari della linea ferroviaria di Salbertrand, in alta Val di Susa, a pochi chilometri da dove ci troviamo. Travolto da un treno, decapitato, morto mentre seguiva una via che credeva potesse proteggerlo dalle ronde della Gendarmerie. Il suo nome è Ullah Rezwan Sheyzad, aveva appena 15 anni, era partito da solo dall’Afghanistan nella primavera del 2021 con l’obiettivo di arrivare a Parigi. Ullah si era affidato a un trafficante di uomini per seimila euro, voleva trovare un lavoro in Francia e aiutare la sua famiglia. Lo aveva spiegato all’interprete della comunità per minori che lo ha accolto a Cercivento, in provincia di Udine, da dove è scappato. Nello zaino aveva una felpa, una power bank, un berretto di lana e degli indirizzi di contatti a Parigi. Tutti i suoi averi. Nessuno ne aveva denunciato la scomparsa, nessuno lo stava cercando.

Anche Javid è partito bambino. “Prima sono andato in Pakistan e sono stato lì due anni – spiega – poi in Iran, dove sono stato un altro anno perché lavoravo di notte in una fabbrica per raccogliere i soldi per proseguire il viaggio. Di giorno non potevo farmi vedere, dovevo stare nascosto assieme ad altri ragazzi in una casa abbandonata”. Gli spostamenti dei migranti hanno tempi lunghissimi, che inghiottono queste vite. In Turchia Javid ha attraversato a piedi i monti Zagros che ogni anno vengono percorsi da migliaia di stranieri. Alcuni muoiono. Come la donna, madre di due bambini, il cui corpo è stato trovato il 5 gennaio nella neve, i piedi erano coperti da sacchetti di plastica. Aveva dato le sue calze ai figli perché proteggessero le mani dal freddo. E’ morta a Belesur, prima di attraversare il confine con la Turchia. I suoi due bambini, di 7 e 8 anni, sono sopravvissuti. “Sì, ho avuto anch’io paura di morire in quel punto di fame e di freddo – dice Javid – eravamo un gruppo di cinque, i trafficanti ci hanno abbandonati lì e non sapevamo più da che parte andare”.

Il cellulare, l’unica cosa che queste persone possiedono, che desta sempre tanto stupore e biasimo negli italiani perché è associato al divertimento, ai beni futili e inutilmente costosi, in realtà è indispensabile: li ha salvati, come una bussola nel mare in tempesta li ha aiutati a orientarsi, a trovare la via per la Turchia e poi gli altri paesi della rotta balcanica. La power bank può salvarti la vita.

Quando gli chiedo in quale parte della Francia vuole andare, Javid balbetta una parola difficilmente comprensibile, che dopo vari tentativi capisco essere Tolosa. “Lì stanno dei miei compaesani”, mi dice. Mi chiedo come farà questo ragazzo ad arrivarci dal momento che non sa neppure pronunciarne il nome. Ma queste sono preoccupazioni che possiamo permetterci solo noi, che viviamo in un altro mondo in cui il viaggio prevede un itinerario preciso, un documento, un trolley, un beauty case, un tour operator. L’unico tour operator che loro conoscono invece sono i passeur. “Ci sono quelli ‘buoni’ – mi spiegano a Oulx – che spesso lo fanno per convinzione e non si fanno pagare. E poi ci sono quelli ‘cattivi’ che lo fanno solo per soldi e non hanno scrupoli. Li si incontra facilmente anche alla stazione di Torino, dove intercettano i migranti. Alcuni – i peggiori – si fanno pagare e poi li portano a Claviere, li scaricano lì dicendo loro che è territorio francese. E solo quando restano soli questi ragazzi e queste famiglie si rendono conto di essere ancora in territorio italiano e di essere stati imbrogliati. Ma ormai è tardi”.

Javid prende lo zaino, gli occhi sorridono dietro la mascherina, e sale sul bus che lo porterà da Oulx a Claviere. Da lì proseguirà a piedi. Io percorro lo stesso tratto in auto e alla chiesetta di Claviere lo vedo scendere assieme agli altri. “Goodbye” dice e poi aggiunge che spera che un giorno, chissà, ci si rincontri da qualche parte. Promette di scrivermi un messaggio che non mi manderà mai. La pista da sci davanti a noi è affollata. Per un attimo, mentre Javid e gli altri ragazzi si incamminano, vengono affiancati da alcuni turisti e si confondono gli uni con gli altri. Ma è solo un attimo, poi i due mondi continuano in parallelo, con esigenze, speranze, aspettative e preoccupazioni diverse. Coesistono senza toccarsi, il mondo dei turisti, degli alberghi, degli skipass, delle cene davanti al camino, il nostro universo insomma, e poi queste vite invisibili, sotterranee, questa umanità sventurata e impolverata che, come nel libro di Mohsin Hamid, Exit West, cerca delle porte magiche attraverso le quali fuggire. “Sia chiaro – dice Gorza – il turismo dà da mangiare alla Valle, è lavoro e vita per le persone che vivono qui e non c’è nulla di sbagliato. Ma comunque l’impressione è di impermeabilità”. Per farmi capire meglio mi mostra sul suo cellulare un video girato pochi giorni prima: nelle immagini una donna con il velo, una giacca arrangiata e i lineamenti mediorientali cammina nella neve tenendo fra le braccia un neonato che piange. A pochi metri di distanza un’altra donna, con la tuta da sci e gli occhiali da sole, fa lo stesso tratto con le ciaspole. Quello che per gli uni è un gioco per gli altri è solo paura e spavento. Per gli uni è mare per tuffarsi e nuotare, per gli altri può rappresentare una tomba. A Claviere come a Lampedusa, a Calais come a Lesbo la sabbia, l’acqua, le montagne, la neve sono parole con significati diversi. “Sono mondi che non si toccano mai”, dice Gorza. Tranne al Rifugio Fraternità Massi, dove i due mondi si mescolano e tutto prende un senso. Qui collaborano tante persone differenti e anche di idee opposte: no tav, scout, attivisti dei centri sociali, pensionati, valdesi, operatori della Croce Rossa, medici e infermieri di Rainbow for Africa, volontari di Talita Kum di don Luigi Chiampo, un prete di sessant’anni che da giovane faceva i turni in fabbrica e le maratone e oggi si spende qui, con grande concretezza e capacità di mediazione.

“Nel 2018 – spiega Paolo Narcisi di Rainbow for Africa – i migranti passavano per lo più da Bardonecchia e facevano il colle della Scala. La maggior parte erano giovani uomini africani, non avevano mai visto la neve in vita loro. Adesso il loro punto di partenza è Claviere, da dove prendono la pista da fondo o i boschi. Sono soprattutto famiglie, con tanti bambini, quasi tutti afghani, iracheni, iraniani. Da marzo 2021 a oggi abbiamo registrato 10 mila passaggi, il 65 per cento circa proviene dalla rotta balcanica, il 35 per cento dalla rotta del mediterraneo centrale. Anche la nostra accoglienza è cambiata e si è strutturata. Dai 12 posti letto che avevamo, ora riusciamo ad accoglierne 70. E abbiamo infermieri e medici che fanno i turni notte e giorno”.

Silvia Massara è un’insegnante di francese energica e concreta e al Rifugio Massi tutti si rivolgono a lei continuamente. Se non c’è un posto dove mettere i vestiti dei ragazzi che hanno la scabbia, se bisogna capirci qualcosa di un documento della prefettura, se servono mascherine, se la caldaia non funziona, se un bimbo piange. Tutto passa da lei, seccature pratiche e preoccupazioni emotive. Conosce le storie di tutti, migliaia di esseri umani che le hanno riversato addosso la loro vita. “Qui – dice – passano migranti che a casa loro erano medici, imbianchini, studenti, panettieri. Persone normali che hanno visto tutto quello che c’era intorno a loro andare in fiamme. Bambini con schegge sul corpo, uomini picchiati, donne rimaste vedove. Vite normali bruciate. Penso spesso che potremmo essere noi”. E ancora mi viene in mente Mohsin Hamid quando scrive che è il lutto che unisce l’umanità, unisce ogni essere umano “la natura fugace del nostro essere qui, il nostro dolore condiviso”.

Le storie si affastellano nei racconti di Silvia Massara e di Michele Belmondo, responsabile della Croce rossa di Susa. C’è la bambina di 12 anni, che con la famiglia aveva subito il trauma delle bombe in Afghanistan e quando cerca di attraversare il confine con la Francia e viene fermata dalla Gendarmerie nel bosco ha una terribile crisi: urla, si dimena, picchia la testa sugli alberi. E poi, quando si calma, resta con lo sguardo fisso e vuoto. Non parla più. La ricoverano subito al Regina Margherita di Torino. Ci sono quelli respinti dieci volte, sempre più stanchi, sempre più scoraggiati, sempre più indomiti. Ci sono le donne in gravidanza, come quella che è arrivata a termine con il bambino podalico, ma ha rifiutato il cesareo e ha continuato il viaggio. C’è il minorenne afghano soccorso sul colle della scala dalla Croce Rossa e il Soccorso alpino, vivo ma completamente traumatizzato. Ci sono i ragazzi con segni di tortura, quelli che in un discorso infilano la frase “quando ero legato alle catene in Libia”, ci sono i racconti di violenza delle forze dell’ordine in Bosnia – che un po’ te li aspetti – e quelli in Croazia – che invece ti aspetti di meno. C’è il giovane migrante iracheno che arriva senza una gamba, sorretto da una stampella, che pretende di passare le Alpi a piedi, in quelle condizioni. E ce la fa. C’è Abdul che è stato soccorso a fine 2020 nei boschi, già in ipotermia, che ha perso le dita della mano congelate, non se l’è più sentita di proseguire e da allora lavora con la Croce Rossa. “Anche un animale braccato a un certo punto si ferma, esausto, e attende il proprio fato”, scrive Hamid. E c’è anche la popolazione della valle, un territorio di accese lotte e scontri politici. Ci sono quelli che aiutano per ideologia, quelli che danno una mano per umanità, quelli indifferenti, quelli ostili e quelli che ti sorprendono. Come l’idraulico, racconta Silvia, che quando ha riparato la caldaia del Rifugio non ha voluto essere pagato.

Una comunità simile si trova al Refuge Solidaire di Briançon, la prima cittadina francese che si incontra dopo il confine. Anche qui – primo avamposto dove i migranti arrivano se riescono a superare il passo del Monginevro – collaborano diverse associazioni. Una volta arrivati al rifugio i migranti sono salvi (sono vivi, non sono braccati, possono ricominciare da zero, costruire una salvezza), alcuni proseguono per la Germania, il Belgio, la Gran Bretagna. Altri restano in Francia. Mi guardo attorno, ma non vedo Javid, né il suo amico. Tutti gli altri sono arrivati, mi dicono. Li conto e sono otto, erano partiti in dieci. Sono seduti fuori, sulla terrazza che si affaccia sulla valle della Durance, hanno finalmente le facce rilassate, la tappa è stata superata. C’è anche una famiglia turca che ha fatto il passo. I bambini giocano al sole, i genitori mangiano qualcosa offerto dai volontari, i ragazzi iraniani fumano una sigaretta. Di Javid e Ahmed non c’è però traccia. “A un certo punto è andato avanti con il suo amico e non l’abbiamo più visto”, dice uno del gruppo all’interprete. Al rifugio non ne sanno nulla, ma nel via vai dei volontari che si alternano a vari orari la sua presenza potrebbe essere sfuggita? Vorrei credere che sia passato attraverso una di quelle porte magiche per migranti che racconta Mohsin Hamid, che trasportano immediatamente da un’altra parte. Invece immagino il corpo di Javid in una scarpata, scivolato in un burrone o sepolto nel ghiaccio che si scioglierà in primavera. Me lo figuro investito da un treno o morto di freddo. Ho paura. Ma poi passo davanti alla rastrelliera. E allora li vedo, allineati a fianco agli altri, un paio di scarponi numero 44 con la stella alpina arancione.

Valentina Furlanetto (Montebelluna, 1972), giornalista di Radio 24 il Sole 24 Ore dal 2002, cura e conduce la trasmissione “I figli di Enea, storie di italiani di origine straniera”. Il suo ultimo libro è “Noi schiavisti” (Laterza, 2021).