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Scene di lotta di classe nel club dei giusti

Se la sinistra sempre in guardia contro le discriminazioni e il razzismo alimenta l’ingiustizia sociale: paladina di lotte che irridono il buonsenso e abbandonano la working class. Tutte le contraddizioni dell’ubriacatura di virtù, ma anche una buona notizia

Alexandria Ocasio-Cortez, la star della politica americana che detta la linea sulle battaglie giuste della sinistra contemporanea, dice che il termine wokeness non lo usa nessuno che abbia meno di 45 anni. Ci stavamo abituando anche in Italia a questa parola, woke, che significa sveglio, ma sveglio contro le ingiustizie, il razzismo, le discriminazioni sessuali e che ora è diventata un insulto, un motivo per litigare. Stavamo imparando le ambiguità e anche la ferocia della wokeness e Ocasio-Cortez viene a dirci: vecchi, superati. “Io di anni ne ho quaranta, prenditi questa Ocasio-Cortez!”, dice ridendo Batya Ungar-Sargon, vicedirettrice della sezione opinioni di Newsweek, autrice di Bad News, saggio uscito a fine ottobre in America, in cui il termine wokeness è citato tantissimo. Anzi, questo libro racconta come la wokeness e l’ossessione identitaria dei liberal abbiano distrutto il giornalismo americano, quindi il modo di informare i cittadini, quindi la coscienza di una società. Batya Ungar-Sargon è di sinistra, anzi “una populista di sinistra”, dice con orgoglio, perché nella sua definizione “populista è chi sta con il popolo” (abbiamo sperimentato più volte che molti leader populisti in realtà del popolo se ne fregano). Se Ocasio-Cortez è una populista di sinistra e lo è anche Ungar-Sargon, allora le due dovrebbero essere alleate. Invece no. Perché per Ungar-Sargon parliamo sempre di razza, di gender, di inclusione, ma in realtà dovremmo parlare di classi sociali. Quella in corso non è una guerra culturale, ma una guerra sociale, fatta come vuole la storia, per classi: ricchi contro poveri. E secondo questa autrice combattiva con la voce di cristallo la giustizia woke alimenta l’ingiustizia sociale, con la presunzione di fare l’esatto contrario. Lo si vede nelle università, lo si vede soprattutto nelle redazioni dei giornali.

Qual è stata la scintilla che l’ha spinta a scrivere Bad News?

In realtà volevo scrivere un libro diverso. Durante la stagione Trump ho trascorso molto tempo nel sud dell’America, e mi hanno sorpresa l’unità e la coesione che ho trovato lì: persone di destra e di sinistra sono d’accordo su molte cose e idee, e sono ugualmente interessate a costruire, anche a livello spirituale, un’identità americana condivisa. Volevo scrivere un libro su quanto gli americani siano molto più uniti di quel che la nostra classe politica o i media vogliano farci credere. Ma non avrei venduto nemmeno una copia! Gli editori continuavano a dirmi che per un libro del genere non c’era mercato, fino a quando un editore molto gentile mi ha detto: “Be’, ma allora perché pensiamo di essere così divisi se in realtà non lo siamo? E’ questo il libro che dovresti scrivere”. Così è nato Bad News – che racconta del perché i media portano avanti una guerra culturale sulla razza: per dividerci, proprio ora che non siamo mai stati tanto uniti sull’importanza di combattere il razzismo. E sono arrivata alla conclusione che la razza non c’entra nulla, c’entrano invece le classi sociali. Questo è l’abbandono della working class.

Lei sostiene che la wokeness, che vorrebbe essere la tutela dei più fragili, alla fine è proprio contro le persone che i progressisti dicono di voler proteggere: i poveri. Scrive: “Concentrandosi su caratteristiche immutabili come la razza, il panico morale woke ha permesso alle élite economiche di eludere la responsabilità della loro visione retrograda secondo cui le élite non solo devono esistere, ma devono anche governare. E nel presentare la razza come il divario più aspro e incolmabile d’America, più del reddito, più della classe sociale, i ciarlatani della wokeness si sono ritrovati a dar man forte alle élite bianche e liberal, le stesse che definiscono suprematiste bianche”. E’ così?

Innanzitutto vorrei dire che non siamo di fronte a una manovra cinica delle élite liberal. Loro davvero credono che siamo tutti molto razzisti e che ogni cosa si risolva pagando diecimila dollari qualche imbroglione per tenere un seminario sull’equità. Non saremmo qui a parlare se le élite liberal non fossero convinte sul serio di combattere una crociata per la giustizia. Ma non saremmo qui nemmeno se tutto questo impegno non stesse riempiendo le loro tasche. Prendiamo l’immigrazione. Nel corso dell’ultima generazione, i democratici sono passati dall’opporsi all’immigrazione di massa per proteggere il lavoro della working class all’additare come razzista chiunque voglia difendere i confini. Cosa è successo? Be’ gli impieghi dei laureati non sono minacciati dai migranti che arrivano dall’America centrale. Al contrario la manodopera a basso costo li fa risparmiare sul lavoro domestico, sull’uscire a cena, sul bere vini pregiati a prezzi stracciati. Difendono l’apertura dei confini per questi benefici? No. Si stanno arricchendo con questi benefici? Ovviamente sì. Si rimedia soltanto dimostrando umiltà di fronte a chi ha meno di te.

Lei racconta che questa trasformazione è iniziata non tanto nelle redazioni ma nelle università e nei campus dove “tutte le strade portavano a una guerra culturale sul concetto di razza”. Come definisce il concetto di wokeness e perché nelle università trova un ambiente fertile?

Non è woke sostenere la riforma della polizia. Non è woke esigere la fine della detenzione di massa, o pretendere una riforma dell’istruzione. Queste sono emergenze morali in America che chiunque abbia una coscienza deve difendere. Ma la sinistra non l’ha fatto. Anzi, spinge per togliere i finanziamenti alla polizia – al “defund the police” si oppone l’81 per cento degli afroamericani! – e chiama i test di valutazione standardizzati “suprematismo bianco”. Sai che una cosa è woke quando l’élite bianca, liberal e molto istruita se ne invaghisce, di solito a discapito della classe povera e operaia, nera e ispanica – esattamente quella che ha un disperato bisogno di una riforma. I sociologi hanno coniato il termine Great Awokening, il grande risveglio, per descrivere il momento in cui i liberal bianchi sono diventati più estremisti dei neri sulla questione della razza. Era il 2015 circa, e questo cambiamento è stato pilotato dai media. Poi ci sono i campus. Le assurdità più grandi avvengono nei dipartimenti umanistici delle università: quando ottieni un dottorato di ricerca come ho fatto io, sei tenuta a dire qualcosa di nuovo su libri su cui per centinaia di anni hanno scritto persone più intelligenti di te. Sono testi su cui è già stato detto tutto, ma per ottenere un lavoro devi scrivere un libro, e vince chi è interessante, non chi dice la verità. Questa mentalità assurda, essere interessanti e freschi più che veritieri, porta spesso alla wokeness, che per me è un tipo di estremismo che mina e irride il buonsenso, le opinioni di chi non ha avuto un’istruzione privilegiata, e premia i capovolgimenti tipici del postmoderno: come l’idea che tra uomini e donne non ci sia differenza e che l’America sia fondata sulla schiavitù, non sulla libertà.

La star di sinistra Alexandria Ocasio-Cortez, trentaduenne, sostiene che nessuno sotto i 45 anni parli mai di wokeness. E’ quindi un’invenzione della mezza età?

Questo è solo un modo per mettere in imbarazzo gli avversari politici: li chiami sfigati, o troppo vecchi. Ma il termine in sé non è il punto. Il punto è che ogni mattone della costruzione politica di Ocasio-Cortez – il Green New Deal, l’università gratuita, il condono dei prestiti degli studenti, le frontiere aperte – è un progetto vanaglorioso che porta soldi ai liberal bianchi, ma per le classi meno abbienti vuol dire solamente: tasse da pagare. E’ un’opinione da vecchi? Sarò vecchia.

 

Lei scrive: “Ecco come sappiamo di vivere nel panico morale: solo la massa ha diritto di giudicarti. E sono troppi i giornalisti che le hanno ceduto questo diritto. In effetti, molti in questa massa sono giornalisti”. Che cos’è questo panico morale?

Il panico morale si verifica quando la società sviluppa un’opinione diffusa su un singolo male – vedi la stregoneria, la pedofilia, il razzismo – e i leader culturali e politici o le autorità religiose e i mass media trovano un capro espiatorio, apparentemente innocuo – la zitella che guarisce con le erbe, l’insegnante d’asilo, l’adolescente nel seminterrato di sua madre che gioca a Dungeons and Dragon, o oggi: i progressisti bianchi che credono di essere anti razzisti ma che sono quelli che effettivamente fanno più male alle persone di colore, come scrive Robin DiAngelo. Oggi siamo in panico morale per la questione del razzismo: nonostante l’America sia finalmente unita nell’antirazzismo, i media ci dicono che il razzismo è ovunque, anche dove meno te lo aspetti, e che si combatte non con cose importanti come la riforma della polizia, ma con cose sciocche come non poter essere in disaccordo con i politici se sono di colore.

La diseguaglianza è il grande problema in America (e non solo), eppure i woke si concentrano solo sulla razza e sulle minoranze, facendone le loro priorità. Perché? Davvero i woke alla fine vogliono solo lo status quo – sono loro i veri conservatori?

La wokeness è un ottimo modo per sentirsi paladini di una lotta per la giustizia sociale contro malvagi avversari politici, senza sacrificare nulla. Ubriaco di virtù, proteggi la finzione meritocratica che il tuo status ti concede e allo stesso tempo l’enorme privilegio economico di molti liberal. Puoi mantenere il tuo status elitario e il tuo stipendio bello gonfio mentre chiami pervertiti morali tutti quelli che dissentono da te.

Non crede di essere un po’ troppo dura con i liberal? Le persone anti woke di destra finiscono per sfruttare questa battaglia diventando loro stesse illiberali. Esiste un equilibrio tra questi due estremi illiberali?

Sono decisamente troppo dura con i liberal. Spesso dimentico di sottolineare che hanno buone intenzioni. Sono felice quando qualcuno me lo ricorda. Detto questo, in America, la libertà di parola oggi la difende la destra. E questo è un grande autogol per i liberal. A destra si affollano gli elettori della working class – sempre più elettori neri e latinoamericani. Sono di sinistra, penso che la sinistra debba difendere il lavoro, ed è per questo che sono inorridita, e anzi mi inorridisce anche che i miei compagni di sinistra non siano inorriditi quanto me.

Lei dice di aver scritto questo libro anche perché, pur non avendo votato per Trump, molte delle persone che lei ama lo hanno fatto. Che significa?

Si tratta dei miei parenti più vicini e di alcuni tra i miei più cari amici – compresi amici afroamericani e latinoamericani. E mi sono davvero stufata di vedere che gli americani della working class vengono trattati come razzisti da presentatori televisivi pagati milioni di dollari.

Crede che le ragioni degli elettori di Trump siano state travisate dalla narrazione dominante?

Assolutamente. Ho intervistato centinaia di persone che hanno votato per Trump e tutte, tranne una, mi hanno detto che avrebbero voluto che l’ex presidente non twittasse, che si comportasse in modo più dignitoso, che stesse zitto, che governasse e che la smettesse di far risse e insultare la gente. Erano d’accordo con le sue politiche, perché li aiutavano ad arrivare alla fine del mese, ma odiavano la sua postura pubblica. Solo un afroamericano in Georgia mi ha confessato di apprezzare i tweet sfacciati di Trump, gli piaceva che Trump se la prendesse con chi lo guardava dall’alto in basso. Ma a tutti gli altri con cui ho parlato interessavano i giudici conservatori, il dibattito sull’aborto, l’economia, l’impegno per i non laureati, abbandonati da quarant’anni dai democratici e dai repubblicani. Ma questo i media di sinistra l’hanno nascosto. Piuttosto che ammettere di aver del tutto abbandonato la working class, si sono messi a dire che erano razzisti i ceti meno abbienti che votavano Trump. Perché l’hanno fatto? Perché chi porta avanti questa narrazione ha beneficiato del fatto che la working class sia stata espropriata. L’economista francese Thomas Piketty chiama la sinistra di oggi “sinistra bramina”, riferendosi alla casta sacerdotale dell’induismo, la più alta, la più privilegiata, la più potente. Un’élite, che non ha la più pallida idea del fatto che il sistema economico che l’ha catapultata nel ricchissimo dieci per cento della popolazione è anche quello che ha espropriato i lavoratori di tutte le razze.

Lei ci ha ricordato le parole del discorso di Joseph Pulitzer nel 1907, alla fine della sua carriera, il suo lascito per il giornalismo: “Non mancare mai di solidarietà nei confronti dei poveri”. Lo definisce un populista, in modo positivo. Può spiegarci questo “populismo buono” visto che lei stessa si definisce, con orgoglio, populista?

Populismo, per me, vuol dire schierarsi dalla parte del popolo, delle masse, dei lavoratori, perché una democrazia ha bisogno di equilibrio. Oggi soprattutto mi sembra che la fazione contro cui battersi sia l’élite meritocratica altamente istruita, che vorrebbe governare come un’oligarchia, e la sua controparte ricca a destra che difende assurdità da cui è l’unica a trarre vantaggio: entrambe tolgono dignità alla working class. Entrambe sono antidemocratiche, e trovo intellettualmente offensivo il modo in cui cercano di dividerci per preservare la loro posizione al di sopra di tutti gli altri.

Il Watergate e il film con Robert Redford e Dustin Hoffman, Tutti gli uomini del presidente, hanno cambiato ogni cosa nel giornalismo e nella sua percezione. In che modo?

Il giornalismo era un mestiere della working class. Nell’Ottocento, la maggior parte dei giornalisti non aveva una laurea, e lo stesso vale per buona parte del Novecento. Le cose iniziarono a cambiare quando uscì Tutti gli uomini del Presidente, e improvvisamente tutti videro un film su due strafighi impavidi e sexy che facevano a pezzi il presidente più impopolare d’America. Il mestiere del giornalista diventò glamour. E, davvero, la professione è stata rivoluzionata: oggi il 92 per cento dei giornalisti ha una laurea, rispetto ad appena un terzo degli americani! E ovviamente i giornalisti fanno parte del dieci per cento più ricco del paese.

Non in Italia, le assicuro. Comunque lei dice di essere ottimista: perché?

Sono ottimista per lo stesso motivo per cui sono populista: il popolo americano è troppo intelligente e troppo buono per volere di nuovo una società fondata sulla razza. Si va solo e sempre avanti, insieme.

E per quanto riguarda la sua carriera, dopo questo libro, è ottimista? Pensa che troverà lavoro in futuro in media di sinistra?

Non m’importa tanto dove lavorerò ma se riuscirò a comunicare un messaggio che a sinistra possa essere compreso. Nel testo mishnaico Etica dei Padri i rabbini insegnano che “non spetta a te finire il lavoro, ma non sei libero di abbandonarlo”. Il mio compito è tentare di proseguire la missione di un’America più equa, di convincere il maggior numero di persone nel modo più utile a tutti. Vedo che i liberal, lentamente, ma inesorabilmente, ci stanno arrivando. E questo mi dà speranza.

Paola Peduzzi (Milano, 1976), vicedirettrice del Foglio.