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Scusi, siamo in una black comedy di serie B?

In un ospedale del sud anche la terapia intensiva può diventare una tragicommedia. Pazienti col casco per respirare che sfrecciano in corsia, amanti sconosciute, bare di metallo che sbagliano strada e schifosi yogurt alla fragola. Chissà cosa direbbe mio padre

Se fosse possibile illudersi che esistano davvero dei grandi burattinai a muovere le cose del mondo, si potrebbe allora addirittura sperare che la continua alternanza di commedia e tragedia della vita di un ospedale del sud Italia sia, se non pianificata che è troppo, quantomeno tollerata, anche per far trovare a pazienti e parenti un po’ di conforto nel dolore. E così, giusto per cominciare, nonostante si legga da anni, ormai, della necessità di riservare percorsi differenziati a pazienti, personale, visitatori, quando mio padre veniva portato su un lettino fuori dalla terapia intensiva verso un altro reparto si trovava improvvisamente rigettato da un luogo ovattato, fatto solo di bip di allarme, tutti diversi e tutti imperscrutabili, nella vita di ogni giorno. Lo stesso paziente che, fino a pochi istanti prima, pareva non poter resistere a nessuna sollecitazione esterna – niente visite, tv, radio, cibo da fuori – faceva una corsa in corridoi pieni di persone che bevevano caffè dalle macchinette, attendevano impazienti di timbrare il cartellino, si lamentavano delle correnti di aria fredda perché qualcuno non aveva chiuso una porta, facevano la coda per una visita ambulatoriale, discutevano di turni, Mondiali di calcio, fatti loro. I più avvezzi lasciavano passare la barella conoscendo i ritmi e i modi dell’ospedale come se la vista di un malato col casco per respirare non avesse nulla di stupefacente, i meno scafati invece, più curiosi, lanciavano uno sguardo denso di ansia e interesse al malato, perché quasi nessuno, in ospedale, riesce a resistere al refrain “potrebbe andare peggio”. Potrei essere il malato che sta facendo questa corsa forsennata su una barella guidata da due esperti infermieri-piloti, visto che, tra l’altro, lungo questi corridoi, si viene inseguiti da parenti e amici del paziente. Perché, mentre ogni norma anti Covid pare ormai saltata negli ospedali, sia quelle scritte nei decreti che quelle della pratica quotidiana, l’unica ancora in piedi è quella che regola le visite di parenti e amici: solo un’ora al giorno (e, per aggiungere ulteriore arbitrarietà, anche in un orario ballerino. Dovrebbe cominciare alle 14.30. Ma, se ci sono urgenze, anche un’ora dopo). Chiaramente perché – dal punto di vista di qualcuno – il Covid ha fatto anche cose buone: togliere la scocciatura delle visite. Così parenti e amici attendono all’uscita della terapia intensiva pronti a scattare appena una porta si apre e una barella esce fuori. Magari possono approfittare di quegli istanti, seppure di corsa, per dire una parola di conforto, farsi riconoscere e far sentire un po’ di vicinanza. Solo che è anche difficile riconoscere il proprio caro, perché, se è in terapia intensiva, una ragione deve pur esserci.

Quindi non è in forma, nel caso del mio aveva un’insolita barba, i capelli spettinati, un pigiama con cui non si sarebbe fatto vedere neanche da sua figlia, elegante, pudico e attento com’era; quindi, quando esce qualcuno di corsa su una barella bisogna anche avvicinarsi un pochino e cercare di capire se è proprio lui o meno, prima di mettersi all’inseguimento. Così, quando un giorno mio padre esce, capita che una signora lo confonda per suo marito e gli corra dietro urlando “amore mio, amore mio, amore mio”, mentre lui la guarda interdetto – ma ha l’ossigeno per respirare e non può dirle “guardi, si è sbagliata”, forse perché gli manca la solita prontezza, forse più tristemente il fiato – mentre mia madre insegue da più lontano, lenta, spaventata com’è da giorni, preoccupata di non ritrovarsi anche in quella famosa scena di Alessandro Haber in Amici Miei e scoprire che suo marito ha una doppia vita.

Diceva Gramsci che uno dei guai dell’Italia fosse questa “malattia melodrammatica” e non poteva avere torto, ma chissà che invece proprio questo grigio non sia, al tempo stesso, anche l’unica possibile escatologia. Quando finalmente l’amante sconosciuta si accorge dell’errore domanda scusa e torna silenziosa ad attendere che esca davvero il suo caro, mentre noi abbiamo l’occasione di riempire quei due minuti con uno di quegli episodi che, raccontati negli anni, diventano fondanti di un’epica familiare. Magari lo racconteranno a ogni vigilia di Natale, arricchendolo di particolari falsi e litigando pure sulla veridicità dell’episodio. Ma questo non potremo più sentirlo dal suo punto di vista. Si era accorto davvero di questa tizia? Chissà. Intanto siamo fuori a un’altra porta. Mio padre resterà anche in quel reparto per qualche ora, ma dopo dovranno riportarlo in terapia intensiva e di nuovo, anche se non ha senso, dovrà uscire nei corridoi e passare davanti all’ingresso principale, alle macchinette con le merendine – perché questa barretta di cioccolato con le M&M’S la vendono solo in ospedale, domanda un tizio – alle varie sale d’aspetto, tutte piene di volantini di vario genere: noleggio ambulanze (sensato), cessione del quinto (già un po’ meno), volantino del “Quarto motogiro di Babbo Natale in moto” (la ripetizione di “moto” è originale nel testo), Sagra della zucca. Ci si domanda con che speranza qualcuno in una sala d’aspetto per visitatori di un reparto di terapia intensiva dovrebbe trovare un volantino della sagra della zucca e decidere di andarci, e con che spirito poi, ma possiamo domandarcelo perché il tempo libero dell’attesa sembra infinito.

Una ragazza sui trent’anni domanda alla madre cosa ci faccia un’immaginetta di Stalin sull’altare per le preghiere, accanto a una statua enorme della Madonna nelle cui mani, forse negli anni, si sono accumulati decine di rosari. La madre risponde che quello non è Stalin, ma San Giuseppe Moscati, un santo medico napoletano. Poi entrambe ricominciano a compulsare il telefonino. Mentre siamo fuori a questo nuovo reparto in cui mio padre deve restare per ore da solo, ma comunque non possiamo entrare, e non ci sono neanche tutte le regole stringenti della terapia intensiva, ma solo una porta sottile con infissi orrendi, incapaci di trattenere il caldo, e sopra appiccicato un volantino in cui si allude a come gli “infermieri eroi” del Covid siano poi stati abbandonati (ma perché, anche sui giornali, usano tutti “eroi” come aggettivo e mai “eroici”?), a un certo punto vediamo da lontano arrivare una bara. Non capiamo subito cosa sia, la forma è inconfondibile però è tutta di metallo. Forse l’ho vista simile in qualche film, sembra una di quelle che vanno chiuse con la fiamma ossidrica, ma non ho tempo per ricordare in quale film, perché sta venendo proprio verso di noi. Spero fino all’ultimo che cambi strada, che scarti di lato, che chi la guida chiami un ascensore o si fermi a chiedere un’informazione a qualcuno. Invece viene proprio qui. Ed entra esattamente nella stanza in cui c’è mio padre. Non so cosa si faccia in queste situazioni. Entro e domando: “Scusi, ma siamo in una black comedy di Serie B?”, “non ci dite niente?”, “devo scoprirlo davvero così?”. Ma non serve disperarsi, non ancora perlomeno, perché esce, perché ha davvero sbagliato strada. Tocca anche buttare uno sguardo e sincerarsi che sia davvero vuota, non si sa mai, meglio controllare invece che fidarsi di calcoli approssimativi sul fatto che in quei pochi secondi non avrebbero comunque fatto in tempo a caricarla. Quella prende l’ascensore, vuota ma carica di angoscia per qualcun altro e io torno ad ascoltare un podcast sulla caduta di Costantinopoli e comincio a pensare che l’inevitabilità della caduta della città e dell’Impero bizantino coincida con l’inevitabilità della caduta del corpo. Passeggio avanti e indietro, magari arrivo comunque a diecimila passi. C’è un racconto di Sedaris in cui lui parla della sua ossessione di arrivare a quella soglia anche nelle giornate più assurde della sua vita e io sto partecipando a quella stessa competizione. Quando, finalmente, arriva il mio turno di visita ho a disposizione molto di meno dell’ora promessa, perché devo dividerla con altri familiari. Naturalmente non sarebbe lecito, perché potrebbe entrare solo una persona al giorno, ma il personale chiude un occhio, mentre i visitatori si scambiano di fretta uno di quei camicini verdi monouso che qualche regolamento astratto obbliga a indossare. Faccio in tempo a vedere un vasetto di yogurt alla fragola sottomarca di una sottomarca, neppure aperto. Mio padre avrebbe dovuto mangiare quello oggi. Ma non lo fa, e lo capisco. Ha già perso una decina di chili da quando è lì. Faccio in tempo a ricordare una pagina di Serge di Yasmina Reza. C’è un personaggio, anche lui molto malato, che fa una tirata assurda contro lo yogurt alla fragola. Ed è talmente efficace e perfetta che ti sembra che Reza abbia scritto le cento pagine precedenti giusto per arrivare a quel punto, che non volesse altro che parlare male dello yogurt e dire che la vita non è degna di essere vissuta se poi sei costretto a nutrirti con uno yogurt alla fragola. Forse non è proprio così, forse ci stiamo illudendo e ricordiamo male il libro, e cosa succedeva poi? Serge muore alla fine del libro? Fa niente, facciamo finta di non ricordarlo, non è il momento di fare i filologi. Visto che poi poche ore dopo mio padre non c’è più. A molti che l’agonia non sia troppo lunga sembra davvero consolante, altrimenti non lo direbbero di continuo. Esistono delle formule standard che una persona sogna di non dover usare mai. Come dire a un bambino “quanto sei cresciuto”, anche se ti ricordi che, quando lo ascoltavi da bambino, non aveva senso. Ma poi da adulto non riesci a resistere. Perché davvero quel bambino è cresciuto tantissimo da quando l’hai visto. Così “ha smesso di soffrire” oppure “non ha sofferto”.

Come se davvero l’alternativa fosse solo quella e questa frase potesse alleggerire qualcosa e avere senso. Ma ora, invece che interrogarsi sul senso della sofferenza umana, tocca andare all’agenzia funebre e interrogarsi sul testo del necrologio. Siamo nel sud Italia e ancora c’è questa usanza. Il dipendente dell’agenzia continua a ripetere il nome di mio padre ad alta voce come se ci fosse una doppia B. Ma ce ne è una sola. Chiedo di vedere il testo, ma lui non me lo mostra e continua a rileggermelo. E ogni volta ci mette questa doppia B. Io mi vergogno come un cane, ma a un certo punto non resisto e gli dico “per favore, si raccomandi ai tipografi, una sola B”. Lui, però, capisce che sono un malfidente e, dopo, si rimangerà la promessa di sconto che mi aveva fatto. A distanza ormai di più giorni, la tragicommedia continua a ritornare attraverso Facebook: ogni volta che lo apro vedo apparire in cima alla lista delle “persone che potresti conoscere” proprio il nome del tizio dell’agenzia di pompe funebri con cui ho parlato. Un “memento mori” al passo coi tempi, meno evocativo del teschio dei quadri del Seicento, ma altrettanto efficace. Magari l’elaborazione del lutto consiste nel cliccare sulla richiesta d’amicizia, magari poi è lui che la rifiuta perché non può mescolare l’amicizia col lavoro.

Arnaldo Greco (Caserta, 1979), giornalista e autore tv. Da poco ha curato l’antologia “Aragoste, champagne, picnic e altre cose sopravvalutate” che uscirà per Einaudi Stile Libero in primavera.