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Se al fronte incontri una donna, sai che l’ha scelto

Nel 2014, alla prima invasione russa in Ucraina, le donne non potevano combattere ma lo fecero lo stesso: Amina, Olga e Olena erano parte di un esercito invisibile. Oggi nelle Forze armate di Kyiv ci sono 60 mila donne, seimila in prima linea. Il concorso per trovare nuovi cecchini, l’agilità e la pazienza delle vincitrici e quel che la Russia machista di Putin non potrà mai avere

Nel 2014, quando è cominciata la guerra in Ucraina, le donne non potevano andare a combattere ma lo fecero comunque. Amina Okueva era la più famosa tra loro, aveva trentuno anni, una carabina di fabbricazione americana e gli occhi azzurri enormi. Era nata sul mare, a Odessa, da una famiglia di ceceni. È cresciuta con in testa e nel cuore le immagini del vuoto fatto dalle bombe di Vladimir Putin a Grozny. È partita per il Donbas con una valigia piena di munizioni e l’hijab verde militare a coprirle i capelli. Ha pregato Allah cinque volte al giorno nella foresta accanto a Olga Simonova, una russa degli Urali nata a Chelyabinsk, un’ingegnera dissidente che quando il suo presidente invase la Crimea era volata a Kyiv, aveva bruciato il passaporto della Federazione e aveva chiesto alla gente del posto: insegnatemi voi a combattere Putin. L’agenzia stampa Unian le aveva dedicato un trafiletto con scritto: «Olga Simonova è la prova che ucraini non si nasce ma si diventa».

Con Amina e con Olga c’era Olena Bilozerska, l’ucraina con la fama triste «ma necessaria» – dice lei, spietata, oggi – di essere la donna nata in questo paese ad aver ammazzato più uomini russi nella storia. L’unica delle tre a essere ancora viva nel decimo anniversario dall’inizio della guerra, due anni dopo l’invasione totale e mentre Kyiv ha ancora bisogno di difendersi. Nel 2014 Olena era la più esperta perché veniva già da dieci anni di addestramento intenso – aveva sparato il suo primo colpo dentro un bosco quando era una ventenne, nel 2004. All’epoca non c’era ancora stata l’invasione della Georgia e neppure quella della Crimea, ma c’era già stata la Cecenia. Chi voleva capire di cosa fosse capace Putin lo aveva già capito. Il compagno di Olena, che ha vent’anni più di lei ed è ancora lo stesso da allora, era convinto di una cosa: la Russia ha progetti cupi per il nostro futuro. Così la sera la coppia leggeva assieme libri sulla storia delle guerriglie dell’Europa e dell’Asia e la mattina andava a sparare sulle colline basse fuori le porte di Kyiv.

«Ci siamo preparati a una guerra partigiana perché nessuno vent’anni fa poteva immaginare che un giorno sarebbe arrivata qui la contraerea precisa americana, l’artiglieria francese e i fucili Beretta», dice Olena seduta sul divano di una casa di campagna umida che è la sua base per una nuova missione, circondata dalle sue armi e dai ritratti delle compagne morte al fronte disegnati da lei a matita. «Olga è morta nel Donetsk, dove tutto è cominciato, ammazzata da un mina russa. Amina non è morta in guerra. Amina l’hanno cercata per anni perché ucciderla era diventata un’ossessione per l’intelligence del Cremlino». Il primo giugno del 2017 un uomo si presenta come un giornalista francese e chiede un incontro ad Amina, all’appuntamento estrae la pistola ancora prima di dire una parola, lei però sospettava e reagisce in tempo: finisce in ospedale, ma prima con un proiettile ben piazzato impedisce al finto giornalista francese e vero sicario di ucciderla. Missione fallita, con perdite, per il Cremlino. Il 30 ottobre dello stesso anno un gruppo di uomini aspetta, con armi automatiche in mano e nascosto dietro un cespuglio, il momento in cui l’auto di Amina e di suo marito si ferma all’altezza di un passaggio a livello in mezzo alla campagna nella regione di Kyiv. In almeno sei aprono il fuoco durante la frenata e crivellano di colpi il corpo appena guarito di Amina. Uno dei suoi assassini si chiama Igor Redkin, un russo della repubblica musulmana del Daghestan che si è nascosto in Ucraina per un po’ e poi è scappato nell’Ungheria di Viktor Orbán. Il paese guidato dal migliore amico di Putin nell’Unione europea che da tempo nega l’estradizione del sicario Redkin all’Ucraina. Nessun esercito regolare prima di quello di Kyiv aveva schierato, in proporzione alle proprie dimensioni, così tante donne in una guerra convenzionale. Oggi le Forze armate ucraine hanno quasi sessantamila donne operative e circa seimila donne in prima linea. «Questa è la guerra più femminile della storia e noi siamo l’esercito invisibile», dice Olena, che si definisce una ex soldata illegale perché è andata in guerra prima che le donne fossero ammesse al fronte. Nel 2014, Amina, Olena e Olga per l’esercito ucraino non esistevano, ma per un movimento di donne che stava nascendo in quel periodo erano già diventate un simbolo. Il movimento di protesta chiedeva la fine delle discriminazioni per legge in ambito militare basate sul sesso e nel 2016 ha vinto: l’Ucraina ha abolito la distinzione arbitraria e aprioristica tra generi nelle Forze armate. Le ragazze ucraine sanno che il loro esercito avrà bisogno di una nuova mobilitazione: l’ex capo di stato maggiore Valeri Zaluzhny aveva parlato di «cinquecentomila uomini», il presidente Volodymyr Zelensky è più prudente ma consapevole che i soldati disponibili oggi non sono abbastanza per una guerra che si prevede lunga. Le donne ucraine del movimento che aveva vinto la sua battaglia nel 2016 e Olena si chiedono: è una questione di forza fisica? Un uomo rachitico di cinquant’anni è davvero più in grado di passare una settimana in trincea d’inverno di una donna allenata di trenta?

«La vita di una donna non vale né più né meno di quella di un uomo. E la concezione secondo cui un corpo è più delicato e bisognoso di protezione perché portatore di vita di un altro ce la siamo messa alle spalle», è la sentenza di Olena. Da un punto di vista spietatamente militare, la Russia ha un vantaggio: può rapire in una notte migliaia di uomini in una repubblica della Federazione abitata da una minoranza etnica e trasportarli al fronte. Kyiv non può farlo. «Ma l’Ucraina ha un asset che la Russia machista di Putin», che dall’inizio degli anni Duemila ha espulso le donne anche dalle posizioni che occupavano nel settore militare ai tempi dell’Unione sovietica, «non ha: le donne». In Ucraina c’è stato un concorso aperto a tutti quando le Forze armate cercavano cinque nuovi cecchini: dopo le prove sul campo, tre posizioni su cinque le avevano vinte tre donne. Una ha scelto come nome di battaglia “Il sultano” perché è un’appassionata di soap opera turche, un’altra ha scelto il nome di battaglia “Amina”. Il loro istruttore ha raccontato che all’inizio era scettico, ma che dopo la fine dell’addestramento aveva cambiato idea e si era convinto che fossero generalmente più adatte a quella specifica mansione perché sono più leggere e agili, più silenziose mentre si muovono e perché nel complesso sono anche più pazienti, quindi meno propense a correre rischi ingiustificati. Alla fine della selezione, durante un test di sopravvivenza militare particolarmente estenuante che in gergo si chiama “Fizo”, su una base di partenza di novanta candidati soltanto cinque erano rimasti in piedi e soltanto due dei cinque erano uomini.

«Quando al fronte incontri un uomo non sai bene perché sia qui. Potrebbe essere stato obbligato dalla legge marziale, potrebbe essere qualcuno senza un lavoro e alla ricerca di uno stipendio sicuro. Quando al fronte incontri una donna c’è una sola spiegazione: ha deciso di essere qui, ha superato più ostacoli, più sguardi sfacciati e più risolini pur di essere qui e sa perfettamente cosa sta facendo».

Cecilia Sala (Roma, 1995), giornalista. Ha realizzato insieme a Chiara Lalli il podcast “Polvere” che è diventato un libro per Mondadori. È autrice e voce del podcast quotidiano “Stories” (Chora Media).