I. Tendimi le mani, dimmi che io e te siamo immortali
Ogni creazione è inseguire un fantasma, allungare le braccia. Più ancora che un parto o un concepimento, forse, è sempre una pratica di resurrezione, perché noi siamo già nati, e non si tratta solo di scaturire qualcosa di nuovo che sbocci, ma anche far rivivere qualcosa già presente, e occorre una forza immensa per ridestare ciò che resterebbe così facilmente in pace, immobile, nella postura fetale del sepolcro. Come può un uomo rinascere quando è vecchio, chiedeva Nicodemo a Cristo. Occorre morire prima di morire. E contagiarsi, contaminarsi. Come scrisse R. K. Morgan, è tendere le braccia a un viso di cadavere rianimato, che condensa quanto abbiamo cercato altrove, tutto nascosto in esso: «Un viso di giovane dai lineamenti delicati, divorato dalla tisi, che saresti stato pronto a baciare rischiando il contagio. Un viso cui abbandonarti di notte in un vicolo buio, per poi svegliarti la mattina seguente e passare mesi affannosi a ricercarlo inutilmente per le strade». Immemori del contagio, volendo l’infezione stessa. Eppure quel volto e quell’abbraccio, prossimi come la giugulare, più lontani delle stelle, sfuggono sempre alla portata del braccio, ci espongono continuamente alla nostra impotenza, infermità, ridicolaggine. La tensione muscolare suscitata da un viso, al pari di un verso, dalla corrente segreta tra superficie e profondità, ritmo e parola. Volti che sono un messaggio intraducibile, cui segue, per come possiamo, tra balbettii ripetuti tutta la vita, la negoziazione dell’impatto, il processo elaborativo di quella energia che rinnova quanto la circonda. E tutto questo ci giudica. Dante si fa investire onda dopo onda dalle vite spezzate dell’inferno, sale la montagna della purificazione, traversa un muro di fuoco che brucia più del vetro bollente e quando finalmente incontra Beatrice lei invece resta velata, lo fa crollare in ginocchio, piangere, ammettere di averla dimenticata, di aver tradito ciò che aveva promesso di seguire e cantare come nessun altro prima e dopo di lui, svenire. Perché è sempre ciò che amiamo davvero, a giudicarci, solo fronteggiandolo possiamo davvero vagliare quanto siamo stati infedeli a cosa e chi ha più profondamente sostenuto la nostra vita profonda, sotto tutte le altre passioni più vistose, notte e giorno, dall’infanzia alla vecchiaia. E così come ubriachi inseguiamo quel fantasma per corridoi, strade, per ridestare ciò che impossibile da dimenticare o tacere, impossibile a esprimersi, la firma segreta di ogni coscienza individuale, separata dal resto. Lo sapeva Platone: «Quel che ogni anima cerca, e per amore di questo, compie tutte le sue azioni, avendo sentore che questo è; ma quello che sia non sa discernere a sufficienza. Non conosce la sua strada». Lo sapeva Sylvia Plath: «e tu, su quelle bianche/pietre, avanzasti nel tuo funereo cappotto nero, scarpe nere,/con i tuoi capelli neri, fino a fermarti laggiù ritto, vortice fisso sulla punta/estrema, inchiodando pietre, aria, ogni cosa, insieme». Fissarlo vuol dire già morire, perché la nostra vita non è più in mano nostra, è laggiù, in mano sua. Dirgli ti amo è ammettere questo e ciò che comporta. Dono della vita e dono della morte si equivalgono, notò Simone Weil. Von Aschenbach in Morte a Venezia di Thomas Mann, 1912, incrocia per l’ennesima volta l’adolescente Tadzio nei giardini dell’albergo sul Lido, e a 600 anni di distanza dalle vie di Firenze nella Vita Nuova viene investito dalla medesima resa che fece fuggire il giovane Dante in camera sua, quando la ragazza Portinari incrociò i suoi occhi. «La sua bellezza era inesprimibile e, come altre volte, Aschenbach sentì con dolore che la parola può, sì, celebrare la bellezza sensibile, ma non restituirla. Non era stato preparato a quella cara apparizione, giungeva insperata; e nello stesso istante accadde che Tadzio gli sorrise; un sorriso eloquente, confidenziale, carezzevole e schietto, schiudendo le labbra lentamente. Colui al quale quel sorriso era destinato se lo portò via come un dono fatale. E stranamente gli si imposero rimproveri teneri e sconcertanti: ‘Non devi sorridere così! Hai capito? Non bisogna sorridere così a nessuno!’. Si gettò su una panchina, fuori di sé, respirando il profumo notturno degli alberi. E riverso sulla spalliera, con le braccia penzoloni, abbattuto e scosso da brividi intermittenti, mormorò la formula eterna del desiderio impossibile, in quel caso, assurda, infame, ridicola e tuttavia anche questa volta sacra e degna di rispetto: ‘Ti amo!’».
Oggi l’Hotel de Bains dove Luchino Visconti girò il suo adattamento di Morte a Venezia nel 1971, con Dirk Bogarde, Silvana Mangano e Björn Andrésen, è chiuso. Hall e corridoi coi fili esposti e muri scrostati, mobilia ammonticchiata, si possono attraversare in The Most Beautiful Boy in the World, il documentario su Björn Andrésen-Tadzio. Destino forse adeguato per un luogo che, al pari dell’Overlook di Shining, il Bates Motel di Psycho e il Der Oper di Portiere di Notte, è stato lo scenario per una storia di spettri, la caccia a un fantasma che fu tale anche per regista e interprete protagonista e che a sua volta avrebbe reso l’altro giovane attore principale, al suo esordio assoluto, un frame raggelato dello spettro di se stesso per tutta la vita a seguire, il primo teen idol, persino l’ispirazione visiva per Lady Oscar. Un film, quello di Visconti, giudicato folle, quasi muto, con pochi dialoghi inframmezzati da altri in polacco senza sottotitoli, scandito da un Adagio di Mahler – lo stesso di Tàr con Cate Blanchett e Maestro di Bradley Cooper – a ripetizione pressoché continua, come un disco rotto o un singhiozzo, un adattamento che suscitò scandalo e conobbe resistenze eppure fu perseguito col rigore ossessivo di una vocazione ultima, un riepilogo e lascito. La confessione di due anime che riunisce pezzi sparsi e ne fa finalmente un simbolo, per mezzo d’una terza. Luchino Visconti, Dirk Bogarde, via Mann. Pensavo anche a tutto questo quando son giunto davanti all’Hotel des Bains in un inizio settembre afoso. «Sei proprio un feticista», mi aveva scritto un amico cui avevo inviato una foto, e in parte aveva ragione. Spariti gli dèi restano solo gli oggetti, aveva già constatato Proust. La prima volta che vidi il film, prima ancor di leggere il racconto, avevo dodici anni, gli stessi di quando vidi Blade Runner di Scott e in un certo senso la maschera di Dirk Bogarde morente che si disfa sotto il sole e lo scirocco e il viso piangente del replicante Roy di Rutger Hauer che spira con un accenno di sorriso sotto la pioggia per me si sono sovrapposte. Avevo preso il traghetto al molo della stazione, anch’io come Aschenbach-Bogarde, per poi percorrere i viali alberati punteggiati di panchine, sullo sfondo il rumore delle ciabatte e delle voci dei turisti in villeggiatura. L’albergo, separato da una strada e basta rispetto al bagno con ristorante e alla spiaggia, era chiuso, il cancello serrato da una catena, le finestre buie o tappate con imposte e assi. Solo il mare e la spiaggia erano quelli di sempre, gli stessi dalla novella, del film, l’acqua chiara sotto il cielo azzurro scialbo a raccontare «la solita storia lì sotto» scriveva Verga in un romanzo che sempre Visconti aveva adattato per il cinema spartendosi la corona del neorealismo con Rossellini e De Sica, «perché il mare non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole». Sono avanzato sulla spiaggia dove Aschenbach agonizzava sulla sdraio mentre Tadzio in mare indicava l’orizzonte, fino agli scogli dove alcuni tedeschi adesso prendevano il sole, mi sono rimboccato i pantaloni e addentrato in acqua, nella solita strana tensione frustrazione da doppia vista suscitata in noi quando un luogo della mente e dell’anima diventa alfine uno spazio concreto, e si vorrebbe provare chissà che cosa, rievocare ciò che esso ha significato per noi anni e anni addietro, a strati. Dovrei essere più emozionato di così, sono davvero qui, qui, ci diciamo. Qualunque pellegrino conosce la frustrazione tesa che è un altro goffo tentativo di assommare e provare ancora una volta una storia intera di debito e gratitudine. Si può fare poco al riguardo. Persino contemplare questa distanza tra la finitezza effettiva della cornice e il quadro che essa ha causato in noi è un modo in fondo per scandagliare l’amore. Mi sono voltato verso la finestra vuota, in alto, da cui nel racconto e nel libro Aschenbach si affacciava fumando dopo essere precipitosamente scappato per poi scoprire con palese sollievo che le sue valigie erano state spedite in una destinazione errata e ciò lo obbligava a tornare all’albergo, nonostante i primi segni del colera già ai margini della visuale, agitando adesso una mano verso Tadzio ritrovato giù in spiaggia, che non poteva vederlo, e non occorreva neppure lo facesse. Ho salutato in risposta.
II. Le mura di Khorsabad e l’agente segreto
A 16 km da Mosul sorgeva la capitale assira di re Sargon II. Oggi molti dei suoi bassorilievi, che furono anche danneggiati dall’Isis, si trovano al Louvre, al British Museum, a Chicago. Profili di sovrani dal naso adunco, barbe lunghe su cui spiccano le labbra piene, le ciglia pesanti. Volti che assommano crudeltà e visione. A quella ferocia seduttiva, la stessa di Giove che rapisce Ganimede e lo solleva ad altezze inconcepibili, tra banchetti e stupri, pensò Dirk Bogarde dopo il suo primo colloquio con Luchino Visconti. Sebbene in fondo non si trattasse del primo incontro, ma del secondo. C’era già stato uno sguardo scambiato durante un rinfresco, un party dopo la prima d’un progetto cui Bogarde teneva molto e che invece era andato piuttosto male. Dal bancone del bar «il mio futuro mi stava fissando». Dirk Bogarde portava molto bene la divisa e gli era come rimasta incollata dopo la Seconda guerra mondiale nelle campagne di Belgio. Era cresciuto in una campagna inglese da sogno idillico, che rimpianse tutta la vita, a cui era seguita una scuola altrettanto dickensiana di violenze e soprusi. Nelle file degli alleati aveva visto i campi di concentramento e decenni dopo, ricordando un sopravvissuto scheletrico che gli faceva la V di vittoria, la bocca gli si contraeva ancora in uno spasmo per non piangere. Rientrato in Inghilterra e abbandonato piuttosto frettolosamente un teatro che in fondo non amava, troppo esposto al contatto del pubblico, era presto diventato uno dei volti giovani più amati dei film per famiglie, spesso nelle vesti appunto di soldato o medico. Bello, elegante, tra i primi divi oggetto dei servizi da rotocalchi per ragazzine nella rapace stampa britannica, con una sensibilità vibrante per le sfumature più tenui che riusciva a farlo esprimere con precisione assoluta persino ripreso di spalle – rimase convinto per tutta la vita che la macchina da presa catturasse i pensieri – sapeva rovesciare il dramma nella commedia e viceversa. Eppure una sottile inquietudine lo frustrava e lo spingeva a tentare ruoli più inquieti e ambigui, dal criminale delle nuove generazioni degli “angry men” che preludevano al ’68 così come ai “rebels without cause” al maggiordomo che intesse una relazione sadica col proprio padrone, al primo film sul ricatto di un omosessuale nell’Inghilterra dove ancora gravava l’ombra del processo Wilde. Una fonte indiretta nella biografia di Coldstream sostiene che Bogarde si sottopose persino alla terapia di avversione, che consisteva nel guardare fotografie di uomini nudi accompagnate da pillole che inducevano il vomito. La sua doppiezza ironica era anche lo scudo affilato e inesorabilmente sollevato a schermare una segreta fragilità, il terrore persino, come dichiarò poi suo fratello. Per tutta la vita egli convisse col suo agente Anthony Forbood, evitando con rigore implacabile che si potesse far luce sulla relazione. «Se credete che passiamo le serate a sferruzzare a maglia vi sbagliate» rispose elusivo a un intervistatore, che era un modo per negare, e al tempo stesso il luccichio degli occhi sfidava a suo modo ad andare oltre, come un ladro che in fondo desideri essere acciuffato. «È tutto scritto lì, nelle mie memorie» disse, «ma se non siete abbastanza svegli, non lo coglierete». Nel 1959, all’apice della popolarità dei suoi matineé e melodrammi, era stato considerato un possibile James Bond, e in un certo senso Bogarde era un agente segreto, affabile, ironico, splendido ospite delle feste in piscina, imitatore spassoso eppure in fondo guardingo, sempre attestato su una ultima riserva impenetrabile, che già gli faceva considerare di ritirarsi in campagna a cinquant’anni, e sprofondare nella scrittura delle sue memorie. E come in un romanzo di Fleming o Le Carré, nel mezzo delle chiacchiere fatue di un party cinematografico, oltre le ondate di brusio con le quali smussare la propria insoddisfazione per il film andato male, per l’ennesima ricezione parziale, eccolo incrociare lo sguardo lampeggiante di un uomo massiccio, elegante, felino a suo modo ma assai meno difensivo, se l’aggressività non è un altro modo per dichiarare la propria solitudine in mezzo a coriandolate di gente, diceva Testori proprio dell’amico regista. Qualche tempo dopo, gli fu proposto di incontrare Luchino Visconti, “l’imperatore del cinema europeo”, come lo avrebbe definito lui. Bond convocato a corte.
III. I cavalli di Siddartha
Luchino Visconti era cresciuto come un principe delle fiabe, tra privilegi e prove. Era venuto al mondo il Giorno dei Morti, cattivo indizio per sua ammissione. Il palazzo milanese di via Cerva comprendeva un teatro per le esibizioni familiari, la tenuta di Mondrone era una sorta di borgo neomedievale nella voga di fine 800. Il nonno era stato presidente della Società de la Scala, assieme a Boito e Toscanini. Il padre fu tra i primi lettori di Proust, la madre Carla indossava corone di pavone in feste che incarnavano ancora per breve tempo fuggente quelle dei Guermantes.
La sveglia per i figli però era alle cinque e i bambini erano obbligati a ignorare le scale tra i piani, dovevano correre o arrampicarsi con delle sartie da pompieri. Luchino s’inventò persino una sorta di micidiale paracadute. Ginnastica, materie umanistiche, ore e ore di violoncello. Su tutto aleggiava la tensione a un vago ma austero onnipresente progetto morale che in qualche misura doveva riscattare o giustificare i vantaggi di sangue e censo. Era l’infanzia e la giovinezza di un capo, che capeggiò una rivolta in liceo e si buttava ora su questo ora su quel progetto. Romanzi incompiuti, opere teatrali, arredamento. Intraprese addirittura una fuga mistica nel deserto africano, in cui trovare Dio, seguita da un ritiro a Montecassino. Cosa fare, cosa essere. Al padre di Siddartha era stato profetizzato che il figlio sarebbe stato un conquistatore formidabile del mondo, o avrebbe rinunciato a ogni cosa. Tutto o niente, anche qui. Nell’esercito Luchino scopre la passione per i cavalli, diventa allevatore e i suoi Lafcadio, Sanzio e Weimar vincono le principali coppe d’Europa.
Nella Parigi della moda è amico di Coco Chanel, Marlene Dietrich e amante del fotografo P. Horts, che lo ritrae con una luce che illumina fronte alta sopracciglia folte e occhi, il resto del volto carezzato da un’ombra tenue. Ma a Parigi soprattutto Visconti conosce Jean Renoir, il cinema e si avvicina sempre più alla causa comunista. Il primo film è già a strati, una trasposizione di un romanzo di Cain ambientata in un’Italia lurida e miserabile, una storia di sesso e tradimento e morte che – sostiene la vulgata – fece esclamare a Vittorio Mussolini «Questa non è l’Italia». Un altro mondo per Luchino stesso, l’estremo opposto della sua formazione e della sua classe sociale, nel quale però egli voleva esprimere la stessa tragedia e i sogni feriti del melodramma, la sconfitta che rende tutti i processati dolorosamente belli, direbbe Kafka. Seguono gli anni del neorealismo tenuto a battesimo, La Terra Trema realizzato per il Pci impegnando i gioielli di famiglia, Bellissima, un teatro nuovo per la lirica e il dramma che plasma critica, attori e persino i fruitori, tagliando le pause, imponendo l’ingresso prima dell’apertura del sipario. Visconti porta in Italia Miller, Cocteau, Pinter, rovescia sulla borghesia spettatrice la lotta di classe, lo stupro, l’omosessualità. Inventa la Callas. L’opera non va interpretata con rigidità formale ma «con forza disperata» come raccomandava Puccini. Lui così fa. Crea il suo stesso pubblico ed epigoni convinti di proseguirlo con crinoline e ninnoli e sono semplicemente delle sbiadite devote copie. Eppure un tarlo lo fa sempre più volgere indietro, dal presente verso il passato, a ricercarsi e esprimersi in una serie di alter ego immaginativi. Il trionfo del Gattopardo a Cannes non è solo la geniale operazione ideologica di riuscire artisticamente a mutare un romanzo “di destra” in un film “di sinistra” – con tanto di biglietto del vecchio Togliatti che lo esorta a non tagliare niente, niente del ballo finale – ma anche una rivelazione.
Quel mondo al trapasso è il suo, lui è il Principe di Salina che guarda smarrito in camera mentre Angelica, la bellezza, la giovinezza, il mondo nuovo, la morte sorride maliziosa alle spalle. Burt Lancaster l’aveva compreso così bene che, nel suo sforzo nel trovare una chiave per trasformarsi da cowboy e trapezista in aristocratico italiano, si era messo a imitarlo. Al centro di quel vortice di premi, feste, scenate furibonde a collaboratori, pupilli, amanti, slanci di generosità come altrettante zampate, oltre centoventi sigarette al giorno, restava come una camera invisibile di silenzio, una solitudine che risaliva indietro, dal corso d’acqua alla sorgente, il sentirsi comunque altro, diverso, l’unico peccato imperdonabile, più ancora della grandezza. Aveva già raccontato il suo mondo, adesso si trattava di mettere a nudo la sua anima, scorticarsi in un ritratto dell’artista come uomo morente.
IV. Non ti dispiace essere un cavallo, vero?
La Caduta degli Dèi del 1969 è una serie di stratificazioni laviche: fonde I Buddenbrook di Mann, I demoni di Dostoevskij col Terzo Reich, e nel farlo assomma pure Torless e Macbeth e certi ricordi d’infanzia di Visconti stesso. Un film oggi impossibile a girarsi, ammise poi il critico Vieri Razzini, per i costi e per la violenza di temi come la pedofilia o l’incesto. La strage delle SS dopo l’orgia notturna, una lunga sequenza in tedesco senza sottotitoli, ha ispirato Tinto Brass quanto Quentin Tarantino. La fusione di nazismo e sadomasochismo fornisce già il quadro immaginativo per Liliana Cavani e Susan Sontag. Per Pasolini conteneva una delle scene più belle del cinema di Visconti, «il momento in cui per una stradina buia, appena illuminata da un’aurora atroce, lampeggia opaco il faro di una motocicletta (che è un momento sublime, come direbbe un po’ fatuamente un ragazzo dei Cahiers e come dico, sul serio, io)». Eppure la sceneggiatura era, per ammissione di Visconti, “merde”. Così disse Visconti a Bogarde nel loro primo vero incontro, in un albergo, perché il regista non aveva mai avuto uno studio. «Credi davvero che girerei questa merda?» Era una trappola. «È solo perché gli attori la rifiutino, perché la capiscano gli agenti americani, perché i finanziatori leggano e ci diano i quattrini». A Bogarde Visconti era parso «più alto di quanto immaginassi, vestito in modo impeccabile» con «occhi neri e fissi, stanchi ma allerti, e mani bellissime». Bogarde obiettò che il suo personaggio, novello Macbeth, era un uomo così debole, e che lui era stanco di interpretare uomini deboli, ambigui, come in Losey o Pinter. Visconti rovesciò la prospettiva. «Ci vuole un uomo forte per interpretare un uomo debole». Gli chiese di fidarsi di lui, raccontò le sue esperienze come addestratore.
«Non ti dispiace essere un cavallo, vero?» aveva aggiunto con un lampo di malizia. «Non ci hai messo molto», commentò Forbood quando Bogarde uscì. «No. È stato istantaneo. Appena è entrato nella stanza, ho saputo. Non so esattamente cosa, ma l’ho saputo. È circondato da un tale potere. Come un toro assiro, un principe tartaro, ha qualcosa di tremendo».
V. Poi devi morire, lo sai?
I primi giorni di riprese a Salisburgo furono frustranti. Non solo per la tensione palpabile nell’aria, dove le simpatie naziste erano ancora piuttosto forti (Visconti consigliò alla troupe italiana di acquistare anelli pesanti per fare più male ai locali casomai si fosse arrivati ai cazzotti) ma perché Bogarde non capiva né i modi né l’operare di Visconti, capace di convocarti in tutta fretta per poi riceverti un giorno dopo perché dormiva fino alle una o guardava l’Eurovision con la sua corte familiar-attoriale.
Bogarde si risentiva, passivo-aggressivo, glaciale, andava a cenare da solo, e allora Visconti lo raggiungeva di colpo con tutti gli altri. Tutto era estremo, eccesivo persino il sangue in scena era reale. «Tu sei inglese, Bogarde. Devi conoscere la tua eredità… Shakespeare? Non eccessivo, elisabettiano, magari, vedi, io faccio opera al cinema. Macbeth è opera, questa morte è opera. Ecco, capisci, Bogarde?». E poi Visconti in scena lo guidava assai poco. Sparute indicazioni e poi niente. Ma questo perché, a differenza di tanti attori feticci da lui scoperti, plasmati, manovrati, egli aveva finalmente trovato qualcuno già alla sua altezza. Ciak dopo ciak, si intendevano con pochissimo. Avanti. Avanti. Tecnici e operatori erano attoniti. Niente scenate, e dire che Visconti sapeva smontare interpreti celebri bofonchiando «Speriamo tu sappia dire la battuta un po’ al di sopra della merda» o «Cagna sì, ma distratta no». Alla fine il film fu pesantemente tagliato per far spiccare il ruolo dell’amato Helmut Berger («tutto per Berger, Bogarde!») ma il regista, sotto la rassegnazione dell’attore professionista alle dinamiche editoriali, percepiva una insoddisfazione più profonda e con un sorriso tenero e crudele assieme alluse a un certo “regalo” che presto gli avrebbe fatto. «Anche solo per il pudding». Qualche tempo dopo si presentò con un pacchettino. Al suo interno una copia di Morte a Venezia di Mann. Il dialogo riportato nelle memorie di Bogarde è una serie secca di domande e risposte, carica di sottintesi. «Lo faremo insieme. Ti va?». «Sì. Quando?». «Se guardi la bellezza perfetta, poi devi morire, lo sai? Gireremo dal libro come Mann l’ha scritto. Senza sceneggiatura. Ti fiderai di me questa volta?». «Sì».
Acquisizione dei diritti, convincimento di produttori americani, che si dissero subito orripilati all’idea di una storia – parole loro – «su un vecchio che va dietro al culo di un ragazzino», casting, ricostruzione perfetta di un mondo che era stato il presente di Mann e il passato di Visconti stesso, tutto questo andava ancora ottenuto. I successi previi non offrivano alcuna garanzia. Ma in fondo era solo la spuma del mare. Ciò che contava davvero, per la seduta spiritica adesso era evocare il fantasma. Andare in cerca di Tadzio. (1. Continua. La seconda e ultima puntata sul prossimo numero di Review).