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Se mi lasci non vale: la ragazza e la valigia

In principio erano le valigie con la maniglia e galantuomini che portavano il tuo borsone. Ma anche bagagli imbarcati persi per sempre, lacrime e sciatica. Poi è arrivato questo trolley di liberazione, e la domanda è seria: dove sono i facchini, dov’è la poesia?

Penso a Julio a ogni cancello d’imbarco lontano chilometri dall’ingresso dell’aeroporto. Penso a Julio a ogni stazione di metropolitana che preveda un numero anche minimo di gradini da farsi senza ascensori e senza scale mobili. Penso a Julio a ogni: mannò, non la lascio in albergo, me la porto dietro in giro per questa città forestiera, così poi vado direttamente in stazione. Penso a Julio a ogni trolley ancora pieno che scavalco in mezzo a qualche stanza per mesi, a ogni trolley sul cui strato di roba avanzata da una gita precedente butto robe a caso per ripartire, a ogni trolley da due giorni riempito per quattro perché quei bagagli che una volta mi sembravano di misura normale ora mi paiono ingestibili e li uso come deposito di vestiti che mai più metterò. Penso sempre, ogni volta, quasi ogni giorno, quel che pensa ogni bambina degli anni Ottanta: la valigia sul letto è quella di un lungo viaggio. Quant’era lungo, il viaggio? Quant’era grande, la valigia? Com’è possibile che quella che lasciava Julio non mollasse lì tutti i suoi effetti personali, in anni in cui la valigia te la dovevi trascinare senza rotelle? L’avrà trovato un facchino? Si sarà percepita Claudia Cardinale mentre malediceva i vasetti di creme idratanti – allora in vetro, e quindi ancora più pesanti – che non avevano impedito alla sua relazione d’andare a rotoli ma in compenso affaticavano il trasporto? Viaggio da quando ero bambina. Ho viaggiato da turista e da lavoratrice, da ricca e da povera, da figlia e da nipote e da orfana, da studentessa e da nullafacente. Posso dire senza esitazioni che più delle statuine che cambiavano colore col meteo, più delle cartoline, più dei cibi locali, più dei vestiti, più delle scarpe, più dei profumi del duty free e più dei regali per i figli delle amiche, io in città in cui non abito ho comprato valigie. Il primo fu un borsone, anzi due. Verdi. Ero a Canterbury, era trentasei anni fa, la vacanza studio dei miei quasi quindici anni, una vacanza studio in cui imparai molte cose. Che noialtri italiani diciamo cantèrburi, mentre loro un po’ schifati ripetono càncerb’ri. Che già nel 1987, lontano da Bologna, esistevano posti che ti portavano la pizza a domicilio: che modernità, che emancipazione. Che già nel 1987, nel mondo evoluto, esistevano dei corn flakes più grossi e croccanti di quelli che si trovavano nei supermercati italiani: quelli di qui si smollavano subito, ti facevano passare la voglia di mangiarli; quelli di lì scrocchiavano ancora dopo interi minuti nel latte, erano la cosa più supercalifragilistica che avessi mai provato. Comprai due borsoni e, poiché avevo quindici anni e mancavo del numero di neuroni minimo per capire come preparare i bagagli, ne riempii uno di pacchi di corn flakes, e l’altro di marmellate e edizioni inutilmente in pelle di opere di Shakespeare. Il primo era una piuma e il secondo un trasloco. Oggi non farei quell’errore non solo perché ho imparato a fare le valigie, non solo perché c’è la globalizzazione e quei corn flakes panciuti si trovano in qualunque supermercato italiano; ma perché, se provo a tirar su un borsone di libri e barattoli di vetro, come minimo mi esce un’ernia: avevo un fisico bestiale e non lo sapevo, avevo un fisico bestiale e l’ho sprecato trasportando marmellate d’arancia. Da lì in poi, sono stati decenni di partire, comprare, procurarsi valigie in cui mettere i nuovi acquisti. Oppure: partire con valigie vuote, tornare con valigie piene. Quando mi è passato il consumismo, avevo i soppalchi pieni di valigie. La maggior parte delle quali inutilizzabili, giacché fatte a forma delle valigie del Novecento, mentre nel frattempo era iniziato il secolo del bagaglio a mano. Ricordo ancora il servizio di Vogue Paris che, intorno ai trent’anni, m’indusse all’acquisto d’un borsone di Yves Saint-Laurent. L’avrei portato disinvoltamente come quella modella in bianchennero, sarei stata aggraziata come quella modella in bianchennero, avrei avuto l’allure parigina che, se non avevo abitualmente, era solo per colpa della mancanza del borsone giusto. L’ho comprato, l’ho portato a casa, non l’ho mai usato. Ma mai. Pesa da vuoto più di quanto la me del 2023, la me che come tutti è abituata ai trolley che si spingono con un dito, sia disposta a tollerare. Ogni tanto fantastico di quelle vacanze che si facevano a vent’anni, quelle in cui il fidanzato del momento ti veniva a prendere in macchina sotto casa, ti portava nella villa in campagna di amici, e poi alla fine della villeggiatura ti riportava a casa. Per quelle sì sarebbe perfetto il borsone di Saint-Laurent, quello col peso specifico d’un vasetto di marmellata d’arance. Sono disposta, per ammortizzare l’incauto acquisto, a tornare a essere una che si sorbisce un soggiorno in campagna? E, se anche lo fossi, sono disposta ad andarci con un borsone che poi mi devo trascinare per il cortile fino alla macchina del tapino, tapino che essendo il ventunesimo secolo mica mi viene incontro acciocché io non faccia cinquanta metri di fatica? Quand’è che quei cinquanta metri di scomodità sono divenuti inconcepibili, quand’è che i tapini hanno smesso di dire «Lascia, faccio io», quand’è che la società del benessere è diventata affare in cui preferiamo ci siano le rotelle perché non mi posso fidare di nessuno? Temo che c’entri la poverizzazione del fu lusso, di quelle prime classi che ormai sono seconde classi con le poltrone un po’ più larghe, e la possibilità che ti perdano una valigia troppo grande per portartela dietro con un dito sono esattamente le stesse. Ho deciso che non avrei mai più imbarcato valigie una ventina d’anni fa, quando la mia ingombrante valigia con rotelle novecentesche fu persa due volte. Prima dalla British Airways, che mi fece stare tre giorni a Los Angeles senza vestiti ma, soprattutto, senza caricabatterie del computer che nessun negozio pareva essere in grado di rimpiazzare (se penso che sono stata così giovane da imbarcare il caricabatterie del computer, mi sembra più inverosimile delle sbronze di vodka alla pesca). Poi dall’Alitalia, che mi fece stare in Puglia senza il bagaglio contenente non solo i vestiti ma le cassette delle interviste che avrei dovuto trascrivere mollemente adagiata su uno scoglio invece di piangere al telefono col servizio clienti Alitalia. Al secondo giorno in cui ero in lacrime e il servizio clienti diceva di non avere idea di dove fosse la mia valigia, il proprietario della masseria chiamò il suo amico degli aeroporti di Puglia, quello chiamò un suo uomo a Fiumicino, quello mandò uno scagnozzo nel deposito delle valigie orfane, e lo scagnozzo guardò uno a uno i codici a barre finché trovò il mio, cosa che se Tizio non avesse conosciuto Caio che poteva dare ordini a Sempronio non sarebbe mai accaduta, perché non solo viviamo in un secolo in cui gli uomini non ti vengono a prendere la valigia dall’altra parte del cortile, ma pure in un secolo in cui le aziende cui hai pagato un biglietto non s’incomodano a mandare un loro stipendiato a vedere dove sarà mai ’sta valigia di cliente pagante che abbiamo imperdonabilmente non imbarcato. E forse c’entra la poca ricchezza di noialtre che ci ostiniamo a fare vite che non ci possiamo permettere, vite da cosmopolite senza conoscere le lingue, vite da fusi orari ma senza aerei privati, vite di bagaglio a mano per disperazione spacciata per emancipazione. Ricordo come una scena dickensiana un inverno in cui ripartivo da St Barts (che non mi potevo permettere) per New York (che pure non mi potevo permettere), e in quel minuscolo aeroporto al di sopra delle mie possibilità c’erano signore in lino bianco e cappelli a falda larga, e poi c’ero io, col bagaglio a mano nel quale non erano entrati gli stivali pelosi che quindi, come una sfollata capitata per errore in un aeroporto per ricchi, tenevo in mano, perché all’arrivo a New York senza uno straccio di limousine ad attendermi mica potevo gelarmi i piedi. E quindi sì: c’entra anche il declino della borghesia, il cui fascino discreto prevedeva l’esistenza non dico delle guardarobiere o degli autisti, ma almeno dei facchini. Sì, quella fotografia di Claudia Cardinale che si trascinava la valigia era affascinante, ma solo perché era un fermoimmagine. In quell’istante senza contesto, potevamo ammirarne lo stile senza conoscerne i crampi, il sudore, e tutte le controindicazioni dell’essere povere prima delle valigie con le rotelle. Chiunque La ragazza con la valigia l’abbia guardato non può che aver pensato che mollarla vabbè, ma mollarla con quell’ingombrante valigia e senza i soldi per la mancia al facchino è una roba da ergastolo ostativo. Il fratello minore che raccatta lo scarto con valigia, i romantici pensano faccia colpo perché giovane, perché sincero, perché innocente. Ma la verità è che «Aspetti, mi permette?» « È pesante, eh?» «Non importa» è una formula di conquista quasi del valore d’una proposta di comunione dei beni, se una oltre a non avere confidenza col bagaglio a mano non ha neanche modo di farsi portare i bauli non per amore ma per danaro. La ragazza con la valigia è del 1961, cioè di quegli anni – che sarebbero durati almeno fino a fine Novecento – in cui non dovevi essere la regina d’Inghilterra per risparmiarti la brutta fatica di trascinare il valigione con tutta la tua vita dentro («Dentro quella valigia tutto il nostro passato non ci può stare»: anche voi pensate spessissimo a Julio?). Nelle stazioni c’erano i facchini, negli aeroporti c’erano i facchini, anche noi poco ricche, noi appena più inserite nella società della squattrinatissima Cardinale, potevamo viaggiare con bauli e cappelliere senza che ci s’infiammasse il nervo sciatico. Quando penso che più della metà della mia vita è trascorsa con valigie che dovevo, santiddio, sollevare, mi chiedo come sia stato possibile che non abbiamo fatto la rivoluzione per il diritto a viaggiare comode. Solo l’idea che più di metà della mia vita sia trascorsa senz’aria condizionata mi fa trasecolare altrettanto. Zadie Smith ha detto a un’intervistatrice del Guardian che, quando invoca l’abolizione dei telefoni collegati all’internet, tutti inorridiscono dicendole: e le mappe? Come si fa senza stradario in tasca? Se aboliamo l’internet tocca recuperare dalla soffitta le vecchie copie del Tuttocittà? Tempo fa ho molestato su Twitter (o come si chiama ora) un ventenne che considerava una violazione dei suoi diritti il fatto che in Italia non si possano portare ai concerti batterie esterne per il cellulare. E se mi si scarica il telefono come torno a casa, pigolava il poverino, e io, mostro insensibile, ridevo di lui: siamo sopravvissuti tutti senza cartine stradali, chiedevamo indicazioni, seguivamo la folla che andava verso il metrò, in qualche modo ce la cavavamo. E invece, pensa te, questa generazione sceglie come priorità irrinunciabile l’avere sul telefono quel pallino che ti guida per le vie della città. E non le valigie con le rotelle, baluardo dell’emancipazione, avanguardia del progresso, comodità senza la quale io non posso concepire di vivere. Sia chiaro: le valigie con le rotelle di questo secolo, perché non tutte le rotelle sono uguali. Avevano le rotelle anche certe gigantesche Samsonite di gioventù, ma erano rotelle malfatte. La maniglia sull’angolo rendeva macchinosissimo il trasporto, la valigia che era rettangolare ma non verticale si sbilanciava in continuazione mentre te la trascinavi come una Cardinale minore, alla fine per far prima la sollevavi. Era un’antenata dei trolley di adesso, quelli pronti a tutto: alla ghiaia, ai sanpietrini, alle scale, a qualunque dissesto tu decida di far affrontare alle loro rotelle. (Elenco breve di entità che sono riuscite a rompermi le rotelle di qualche trolley: linee aeree inglesi, alberghi milanesi, traslocatori russi). Quelli di adesso li trascinano gli scolari per le scale della scuola, giacché i poveri puccettoni di adesso, oltre alle mappe nel telefono, hanno anche i dizionari nel trolley, ché mica possono affaticarsi a sollevare lo zaino o la cinghia come facevamo noialtri, essi non si perderanno allungando il percorso e non si faranno venire la scoliosi portando pesi, essi avranno il pane e le rose, ed è per garantire loro tutti questi diritti che la generazione dei loro genitori ha fatto tanti sacrifici – tipo decidere che salsa voleva con il pollo fritto da Burghy, e tutti gli altri traumi dei miei coetanei che poi diventati madri e padri hanno promesso a loro stessi che mai i loro figli avrebbero sofferto di trasporto bagagli scolastici senza rotelle e confusione stradale e salse a numero limitato nei fast food. Una studiosa svedese, Katrine Marçal, sostiene che il tardivo avvento delle valigie a rotelle è un prodotto del maschilismo (cosa non lo è, d’altra parte). Che già negli anni Cinquanta erano spariti i facchini (forse in Svezia, in Italia giuro che c’erano anche molti decenni più tardi); ma nessuno ha brevettato la valigia a rotelle fino al 1972 perché veniva liquidata come un’esigenza da femminucce: il vero uomo le valigie le solleva senza esitazione, diamine. Tuttavia persino i veri uomini a un certo punto si scocciano di fare fatiche inutili, ed è così che si fanno venire idee. Il vicepresidente d’una ditta americana che faceva bagagli, racconta Marçal in Mother of invention: How good ideas get ignored in a world built for men, si fa venire l’idea guardando i carrelli che usano i facchini, in aeroporto, tornando da Aruba, caracollando con tutte le valigie delle vacanze di famiglia: quei compiti che in un secolo più prescrittivo spettavano agli uomini, come attaccare le mensole e non saper riconoscere i colori. Ora, il maschilismo è solo una tesi, e perdipiù sospetta: il libro non esisterebbe se Marçal non sostenesse che il mondo maschio e cattivo ha ignorato le invenzioni che più sarebbero servite alle femmine. Ma un dato è innegabile: quando il tizio torna dalla vacanza ad Aruba, è il 1970. Quando l’industria americana si fa venire l’idea delle rotelle sotto le valigie, è passato un anno da quando l’America ha mandato della gente sulla Luna. «Eppure, quando Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins sono tornati sulla Terra, hanno sollevato ognuno la sua valigia per la maniglia, portandola com’erano stati portati i bagagli dall’invenzione della valigia moderna, a metà Ottocento». Chissà perché non ci era venuto in mente prima, considerato, come nota Marçal, che la ruota esisteva da cinquemila anni, un tempo più che sufficiente a pensare: ma attacchiamola a tutte le cose pesanti, quindi anche ai bagagli. E considerato anche che la richiesta di brevetto presentata dal tizio della vacanza ad Aruba è la formula della felicità: «Ogni persona, a prescindere dalla sua mole, forza, o età, potrà facilmente tirarsi dietro il bagaglio senza sforzi». In realtà non è che non ci avessero pensato: a qualcuno l’idea era venuta prima che al tizio di Aruba, e nessuno se l’era voluta comprare. Sarà, teorizza Nassim Nicholas Taleb, perché l’umanità rifiuta sempre le soluzioni semplici (un postulato che mi pare traballante: l’umanità mi pare voglia solo soluzioni semplici, ma Taleb vende molti più libri di me quindi ha sicuramente ragione). In realtà c’è un piccolissimo margine di recriminazione nella diffusione di quell’oggetto di liberazione collettiva che è il trolley. No, non i posti di lavoro perduti dai facchini di tutto il mondo. No, non le volte che qualcuno di goffo tira giù il proprio trolley dalla cappelliera contundendo voi che siete seduti lì sotto. No, non i controlli dei bagagli a mano da parte di zelante personale di sicurezza che, per controllare che la crema idratante non sia liquido esplosivo col quale intendiamo farci brillare a bordo, disfano senza pietà il nostro accuratamente impacchettato trolley nel quale è poi impossibile far rientrare tutto in un tempo che non faccia fioccare le bestemmie di chi è dietro di noi in fila. La lamentela è che, se non sei Claudia Cardinale incomprensibilmente mollata da tutti, c’era in «Mi aiuti?» una civetteria, una riposante resa, un gioco di ruoli che ora non esiste più. Ora, schiavizzate dalla nostra indipendenza, tiriamo il trolley con un dito mentre con l’altro componiamo messaggi coi quali governiamo mondi, aziende, famiglie. Che brutta fatica. In Non mandarmi fiori, Rock Hudson credeva di stare per morire, e quindi di doversi preoccupare che Doris Day fosse in grado di cavarsela senza di lui. Non le diceva niente per non spaventarla, ma la spingeva a emanciparsi, cercava di spiegarle come si facesse a pagare una bolletta, e quella pigolava qualcosa tipo: ma caro, per queste cose ci sei tu. Era un mondo romantico, ora è un mondo in cui, se mi lasci col bagaglio a mano, probabilmente vale. Il tizio di Aruba dice, in un’intervista citata dalla svedese, che all’epoca c’era una grande resistenza psicologica contro la trovata della valigia che scivolava e che quindi emancipava le donne, era un riflesso machista, «gli uomini portavano le valigie alle mogli, era la cosa giusta da fare». Era, la valigia scivolante, un dono per noi zitelle, cinquanta e più anni fa. Adesso, serve perché le mogli non debbano bisticciare con mariti che non tengono aperta la portiera della macchina, non pagano il conto del ristorante, non ti versano il vino: figurati se ti portano la valigia. Adesso sì, non devo aspettare al nastro bagagli, non devo cercare facchini comunque introvabili, non devo preoccuparmi che mi abbiano perso il caricabatterie. Ma chi ci ridarà la poesia perduta della valigia sul letto, quella di un lungo viaggio, o della busta di soldi che infine Jacques Perrin dà a Claudia Cardinale, e che mi piace pensare servisse per pagare una fornitura a vita di facchini?

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Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).