Ho iniziato a capirlo a quattordici anni, quando un pomeriggio di ritorno da scuola, mentre attraversavo la strada, un camioncino ha suonato il clacson. Allora mi sono girata con la mano alzata per scusarmi, forse stavo camminando troppo lenta, avevo lo zaino più pesante del solito. Ho raggiunto il marciapiede e il camion invece di accelerare, ha rallentato. Dal finestrino che si abbassava è spuntata la faccia di un ragazzo, avrà avuto dieci anni in più di me, si è sporto, mi ha guardato fisso negli occhi e ha infilato la lingua nelle due dita tese a v come in segno di vittoria. Ha mosso la lingua su e giù un paio di volte, veloce, poi ha riso, ha tirato su il finestrino, è andato via.
Sono andata via anche io, con lo zaino che mi batteva sulla schiena sudata, sperando che nessuno ci avesse visti. Due erano le cose chiare, per me: che il gesto di quel ragazzo fosse sessuale (ne ero certa anche se non conoscevo la parola cunnilingus e sarebbero passati anni prima che ne vedessi praticare uno dal vivo), e che quello che era appena successo non avrei potuto raccontarlo a nessuno.
Era una sensazione di vergogna e stupore mischiati insieme, mai provata prima, il peso improvviso di un segreto tra me e uno sconosciuto, una rivelazione che quel tizio dal camioncino mi aveva gettato addosso senza che glielo chiedessi, senza che nemmeno ne sospettassi l’esistenza.
Avevo cominciato a capire, a quattordici anni, che il mio corpo non era neutro, che non era come quello di mio padre o di mio fratello. Non poteva permettersi di andare in giro e farsi i fatti suoi.
Camminare nel mondo e indossare dei pantaloni, oppure una gonna, una maglietta, un vestito, una giacca, mettermi poco o tanto o per niente trucco, tenere i capelli sciolti o fare la coda alta, essere accompagnata da un’amica o stare da sola, tutto questo rappresentava una variabile che non cambiava il risultato: un maschio, all’improvviso, avrebbe potuto dirmi che avevo degli occhi stupendi, suonare il clacson e urlare che ero bona, che ero fregna, che culo che c’hai, fischiare da una finestra, nei bar fare di gomito al maschio accanto, dire forte abbastanza perché potessi sentirlo: «Hai visto quella?».
Mi faceva rabbia, certo, anche quand’ero ragazzina e non avevo idea di cosa fosse il femminismo e il patriarcato, di cosa volesse dire catcalling, di quanto lo sguardo maschile sia abituato a formarci e plasmarci, e quindi fulminavo con gli occhi chiunque mi guardasse insistentemente, alzavo il dito medio e, se mi sentivo abbastanza tranquilla, urlavo contro chi aveva fischiato. Provavo a reagire. Ma allo stesso tempo, oltre allo sconcerto e alla paura (una volta una macchina si era fermata mentre aspettavo l’autobus, un quarantenne in giacca e cravatta era sceso e mi aveva chiesto se fossi straniera, come mi chiamavo, voleva accompagnarmi lui a casa della mia amica), dietro alla confusione (pensavano davvero, quindi, che le loro frasi potessero portare a qualcosa? Che il loro desiderio così espresso avrebbe fatto breccia nell’altro? In me?), in aggiunta a quei sentimenti di rifiuto e sconcerto, si celava una sensazione che mai avrei confessato, in apparenza contraddittoria con la rabbia e il senso di impotenza, ma in realtà a essi profondamente legato. Quegli sguardi e quelle grida, le sopracciglia che si inarcavano, il sorrisetto d’intesa, gli occhi che soppesavano rapidamente il mio petto, la pancia, i capelli, le gambe, per decidere se fossero meritevoli di attenzione, se facessero di me un soggetto desiderabile, tutto questo mi dava la sensazione di esistere nel mondo, di esserci. Questi uomini “del fuori” erano una massa indistinta nella mia testa, un concerto di mormorii approvativi: se mi notavano, voleva dire che andavo bene, potevo sopportare i rifiuti nel mondo reale, dei maschi che conoscevo e desideravo e che non corrispondevano i miei sentimenti, potevo continuare a sentirmi bella anche se avrei voluto staccarmi le cosce e sostituirle con altre più magre, aumentare la superficie della mia fronte, raddrizzarmi gli occhi che vedevo calanti ai lati, eliminare per sempre i peli che mi crescevano intorno all’ombelico, dimezzare i polpacci che un mio compagno di classe aveva definito “da calciatore”.
Gli uomini del fuori mi proteggevano dai maschi dentro, quelli che facevano parte della mia vita vera. La loro violenza era uno schiaffo anestetizzante, quasi piacevole. Mi insegnavano che potevo essere apprezzata davvero solo se tenuta a distanza.
Finché un giorno un fidanzato con cui stavo quando abitavo a Torino mi ha presa per un braccio e mi ha messa davanti allo specchio. «Guardati», ha detto, e io mi sono guardata: avevo ventidue anni, indossavo una gonna corta e sotto delle calze a pois, me le aveva comprate mia madre con i saldi.
«Guardati», e poi: «È ovvio che la gente ti nota, se ti vesti così». Sulla faccia una smorfia, era disgustato. Ha indicato anche il cappotto rosso attaccato all’ingresso di casa: mettermi quel cappotto era come pregare di essere guardata, ha detto, desiderare che tutti gli occhi fossero su di me.
«Prima mentre passeggiavamo ci ho fatto caso», ha continuato. «Una signora ti ha guardato le gambe, le è scappato da ridere». Ci ha pensato un po’ su, mi ha accarezzato i capelli con tenerezza, ha detto quasi in un sussurro: «In effetti sei ridicola, amore».
Mi piacerebbe poter dire che ho continuato a mettere quelle calze, che ho lasciato quel fidanzato, interrotto seduta stante la nostra orribile convivenza, ma ovviamente non è successo.
A ventidue anni non sapevo niente.
Un pensiero aveva cominciato però a farsi spazio nella mia testa: la distinzione tra fuori e dentro non esisteva.
In fondo, la prepotenza che utilizzavano gli uomini fuori casa era la stessa che esercitava quel fidanzato neanche trentenne su di me. Era la voglia di rimettermi al mio posto, la paura di perdere un potere, l’orgoglio di avere una fidanzata carina minacciato continuamente dalla violenza che lui stesso incarnava, il desiderio gretto di dettare il modo in cui mi era permesso stare tra le persone. Quel fidanzato aveva il terrore inconfessabile di non essere abbastanza per me, che io potessi accorgermi di chi fosse veramente e quindi fuggire via, lontana.
Molte volte ho voluto fuggire via, lontana più che potevo, e non solo da lui.
Ho desiderato scappare dal controllo sistematico del mio riflesso su ogni specchio che incontro, dall’istinto irresistibile di sincerarmi che almeno qualcuno alzi la testa nella mia direzione, ogni volta che entro in una stanza, dalla speranza ridicola e disperata che il mio corpo e la simmetria della mia faccia bastino a far rimanere chi amo, siano sufficienti a garantirmi riparo dalla solitudine.
Mi sono scelta lavori che non avessero nulla a che fare con l’aspetto fisico, ho letto libri e ascoltato podcast sul male gaze, ho pensato tanto da sola e parlato dell’argomento con le mie amiche, ho rifiutato per lunghi periodi di prendermi cura della superficie, dei capelli, del trucco, dei vestiti, cercando di tenerla in disparte, convincendomi che per me non avesse valore, che non contasse nulla rispetto a quello che dico, quello che faccio, all’amica che sono.
A volte il tentativo funziona, e allora per qualche tempo il corpo diventa solo l’involucro che mi porta nel mondo. Sono i momenti in cui sento un peso che scivola via, e io con lui. Mi illudo di essermene liberata per sempre. Mi è concesso pensare che il desiderio sia sfaccettato, complesso, che va bene modificarlo, il corpo, va bene crescerci insieme, sformarlo se voglio, prendermene cura in modi diversi da quelli che mi hanno insegnato.
Osservare me stessa con uno sguardo che non sia quello dei maschi di fuori e neanche quello che senza volerlo mi sono ritrovata dentro, che mi giudica e mi fa sentire cretina, superficiale, minuscola.
Usare uno sguardo terzo che io non conosco e che forse non esiste ancora, l’unico che conta davvero. Chissà se mai ci riuscirò.
Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito più di ottanta scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. Ognuna con la propria voce e la propria esperienza.
L’iniziativa è nata grazie a un appello di Giulia Caminito e Annalisa Camilli
#unite
un’azione letteraria collettiva