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Sempre la stessa di trent’anni fa

Perché non ti sposi? Perché non fai figli? Che cosa aspetti? L’importanza del tempo speso a diventare un essere umano. La fatica, il primo Acer, il cinema Gnomo a Milano. La libertà di non fare e poi il calore e le tenaglie di una neonata. Se fossi nata in Galles, chissà

Molti anni fa ero stata una studentessa Erasmus nella cittadina di Swansea, in Galles. Ci ero tornata poi qualche giorno, da laureata, per andare a trovare un amico. Una delle sue coinquiline in quell’occasione fece una battuta che mi è sempre rimasta impressa, you should be married and have children.

Non mi ricordo che cosa le risposi, se le risposi. La sua osservazione era legittima, sensata, plausibile. Lei era al secondo anno di studi e quindi più giovane di me. Le sembrava strano che io, finito il mio percorso universitario, a ventiquattro anni, avessi del tempo da perdere, strano che non avessi un lavoro, delle responsabilità.

Ventiquattro anni sono un’età che il poeta di Swansea, Dylan Thomas, celebra nei suoi versi. Non sono una faccenda allegra per lui che inizia dicendo 24 years remind me the tears of my eyes e non lo sono stati per me che a quei tempi ero confusa e insicura, senza un’identità vera, senza molte idee.

Può darsi che avessi una visione schematica di che cosa vuol dire diventare adulti. Adulta, anzi. Trovare un lavoro, certo. Stare in una relazione sentimentale, certo. I figli, ammesso che ci pensassi, sarebbero stati una conseguenza della relazione sentimentale, sarebbero venuti alla fine, scivolati nella parte conclusiva della storia, dopo un e vissero per sempre felici e contenti, o qualcosa del genere.

Il mio schema non doveva essere poi molto diverso da quello della ragazza gallese, ma conteneva un elemento di procrastinazione, un orizzonte temporale lontano.

Non è che mi trovassi comoda nella condizione di figlia. Quando si trattava di dare esami cercavo di sbrigarmi, un po’ per non pesare sui genitori, un po’ per non sentirmi una fallita, e così hanno fatto le mie amiche più care. Un esame via l’altro. Laurea. Ricerca di un lavoro.

Ci accomunava il fatto che studiavamo a Urbino. Venivamo dal sud, chi dalla Puglia, chi dalla Basilicata. Non avevamo alle spalle licei prestigiosi né modelli femminili. Qualcuna andava ancora a messa la domenica, qualcun’altra no. Volevamo realizzarci senza sapere che cosa di preciso questo significasse. Volevamo stare bene con noi stesse, un’idea generica e vaga, più che una rivendicazione. Eravamo ingenue, inconsapevoli, per niente politicizzate. L’unico obiettivo in testa era arrivare a discutere la tesi o tutti i nostri sforzi, il nostro impegno, non sarebbero serviti a niente.

Oggi ci sentiamo via Whatsapp in una chat che si chiama “noi”. Nella foto del profilo si vedono delle vecchie grasse e allegre che mangiano, bevono e fumano. Sotto, la scritta: io e le mie amiche fra trent’anni.

Ci siamo rincontrate poche settimane fa, a Pesaro, dopo tanto tempo. Eravamo con i rispettivi mariti e le figlie che hanno dagli otto ai dodici anni.

Sono perlopiù figlie uniche. La mia amica Daniela ha deciso alla fine di non avere altri figli per non trascurare la prima. Un’altra amica, Caterina, di figlie ne ha due. Quando aspettava la seconda ci manifestò tutta la sua sorpresa (ma anche piacere, soddisfazione, timore) di ritrovarsi incinta di tre mesi a quarantadue anni.

Le abbiamo avute fuori tempo o appena in tempo, secondo i punti di vista.

Siamo state fortunate: niente fecondazione assistita, niente ricerche di benedizioni da Madonne col bambino.

Le abbiamo avute quando da anni lavoravamo e una pancia gravida si poteva scambiare con i chili del sovrappeso.

Non so bene cosa risponderemmo se ci chiedessero perché le abbiamo avute tardi. Se me lo chiedesse la ragazza gallese, mi ricordo ancora

il suo nome – Andy –, me la vedo circondata da figli grandi. Forse solleverei le spalle, direi: che vuol dire tardi, tardi per chi?

Qualche anno fa, su una spiaggia greca, mia figlia si era messa a giocare con una bambina norvegese e l’adulta che era con lei, la nonna, aveva più o meno la mia età. Lì per lì mi sono sentita un po’ strana, effettivamente, un po’ fuori fuoco.

È come se nei mei sogni più rosei mia figlia l’avessi messa sullo sfondo, un puntino su una tela, e mi fossi avvicinata a lei a passi da lumaca.

Potrei sempre dire, al di là delle storie personali, che io e le mie amiche rientriamo perfettamente nelle statistiche, che in Italia la natalità è all’uno virgola qualcosa, cioè sotto il livello di sostituzione (ho scoperto che si dice così), e che l’età del primo parto si aggira intorno ai 33 anni.

Potrei fare finta di tornare indietro nel tempo, a uno dei nostri pigiama party, e porgere io stessa la domanda, perché abbiamo temporeggiato, perché siamo diventate madri al margine della nostra giovinezza?

Già li sento i silenzi stizziti, le risposte laconiche, io ero pronta, prontissima, io frequentavo un master qui, un corso di perfezionamento là, io dovevo ancora prendere la patente.

Di me non posso dire di essere stata impegnata a fare il giro del mondo, a visitare il fondo degli oceani, a cambiare lavori, identità, connotati.

Dopo gli anni a Urbino, mi sono trasferita a Milano dove ho trovato un lavoro da impiegata part-time che faccio tuttora. Il parttime ha rappresentato una gran fortuna, all’inizio, di cui non mi rendevo conto. Non avendo responsabilità, me ne andavo in giro per autobus e metropolitane con la mappa in tasca, e i miei soldi li spendevo alla cineteca di Porta Venezia o al cinema Gnomo, nelle librerie dove facevo scorta di scrittori, di scrittrici, di filosofe. Li spendevo in corsi di scrittura o nell’acquisto del mio primo portatile, un Acer da un milione e qualcosa. Per un po’ ho frequentato anche un interessante catechismo per adulti nella chiesa di Santa Maria Incoronata.

Se dovessi usare le parole di Simone de Beauvoir, il suo linguaggio implacabile, tremendo, da sacerdotessa, direi che per molto tempo sono stata impegnata a diventare un essere umano, che non ho potuto pensare ad altro che a questo, e che questo è stato per me un processo lungo, doloroso e faticoso.

Non so, non ho idea, della strada che avrei potuto percorrere se fossi nata altrove, in Galles, mettiamo, un paese di cui in fondo non so nulla.

Qui in Italia gli studi sono stati tutt’altro che determinanti nello scegliermi il lavoro e il mio essere donna ha significato soprattutto mettermi al servizio di qualcun altro, di un’azienda, per esempio, mostrarmi disponibile e comunicativa, risolvere problemi, dire di sì. Ancora adesso, quando a fine turno me ne vado a casa, libera di pensare ai fatti miei, quando osservo me stessa e il mondo, quando scrivo, ho la sensazione di farlo da un posto molto scomodo, molto angusto, un posto da cui non si vede niente.

È da questa visuale, da questo margine che la maternità mi è sembrata a un certo punto desiderabile. Un’esperienza umana tra le altre, non indispensabile, ma necessaria a me come individuo.

Quando mia figlia è nata, o poco prima che nascesse, mi sentivo più o meno pronta ad accoglierla. Ero più matura, in teoria, più equilibrata, più evoluta che in passato, ma non posso dire che sapessi a cosa andavo incontro.

Non potevo conoscere la stanchezza che ti avvolge come una nebbia fitta e che viene dalle ore sottratte al sonno, alla cura personale, ai pasti, alle abitudini. Potrei paragonarla a un vago stato confusionale o allo stress che deriverebbe dal guidare di notte per una destinazione ignota e una strada mai vista.

Non avevo idea dello sforzo che mi ci sarebbe voluto per allattarla, l’assoluta mancanza di naturalezza, il piccolo braccio spostato sotto la mia ascella, i suoi strilli durante queste manovre, il sudore che mi bagnava da tutte le parti nel tentativo di attaccarla al seno.

La sua nascita si è rivelata sì un’occasione di crescita, ma diversa da come l’avevo immaginata.

Ero io, l’adulta, ad avere occhi da talpa, per certi versi, e lei, la neonata, occhi attenti, infallibili, vigili.

A lei non importava se mancavo di lucidità, di senso pratico, se dimenticavo di chiamare la pediatra per la prima visita di routine, se compravo fasce, ciucci, tutine e altri oggetti che poi non usavo. Le importava che fossi sveglia, viva, che occupassi col mio corpo tutto lo spazio, con la mia voce che rispondessi ai gorgheggi, che cantassi, che facessi aderire il mio tempo al suo.

Un tempo strano, improduttivo, ripetitivo, noioso, senza scopo, senza pagine scritte.

Mi ricordo che in quei mesi tentavo di leggere, ignorando il saggio consiglio di un’ostetrica: quando la bambina dorme, lei deve dormire.

Mi ero procurata delle riviste poco impegnative ma ogni tanto pescavo dalla libreria un romanzo serio, tipo La vegetariana o Il teatro di Sabbath. Faticavo a trarne piacere.

Faticavo soprattutto a leggere alcuni passaggi angoscianti, violenti, a seguire i protagonisti nei loro percorsi distruttivi ed ero contenta di tornare da mia figlia, di avere altro per la testa. Riprendevo la lettura e la interrompevo per cambiare un pannolino. L’odore della pomata, delle salviettine umide mi confortava, così come i comportamenti autolesivi dei personaggi a un tratto mi respingevano, le loro esistenze malconce, cupe, disperate. La miniera d’oro che avevo sempre cercato nei libri, la verità, la conoscenza, potevano per una volta aspettare. La vita che avevo sempre inseguito tra le pagine si era riversata fuori, era confluita nella ciccia di una neonata. La potevo abbracciare, contenere, ne potevo sentire il profumo, il calore, ma anche le tenaglie. Occupati di me notte e giorno, mi diceva quella vita.

Da una parte provavo uno slancio, un bisogno di vezzeggiare, di inventare nomignoli, di ricoprirla di una tenerezza che non credevo di possedere. Mi sentivo capace di incoraggiarla, io che ero stata paurosa di tutto, di trasmetterle una fiducia che a me non era mai stata insegnata. Dall’altra avevo la sensazione di allontanarmi dal mio centro, dai miei bisogni, e che sarebbe bastato poco, un piccolissimo errore a trasformarmi in una neomadre inetta.

Era difficile davanti agli altri, parenti o amici, mostrarmi scontenta, farmi uscire un lamento, sfogarmi. Non era quello che volevi? Potevi pensarci prima, erano i commenti che risuonavano nel retrobottega della mia testa. No, non posso dire di aver trovato nella maternità la pienezza che promettono le fiabe né una patente definitiva di donna adulta. Ho trovato piuttosto un’altra lente attraverso cui guardarmi e una relazione con cui misurarmi per tutta la vita. Superato lo shock post-partum, la maternità è stata ed è importante per me.

Allo stesso tempo, proprio in virtù di questa esperienza, provo ammirazione per una donna che sceglie di non avere figli, di stare senza un uomo piuttosto che con uno qualsiasi, di bastare a sé stessa una volta per tutte.

Sai Andy sono quella di trent’anni fa, le direi oggi se la incontrassi, non mi sono ancora sposata. Cosa?, mi risponderebbe, perché? Oppure non mi direbbe niente, farebbe spallucce come a dire: chi se ne frega, sei libera di non fare quel che ti pare, tutte lo siamo.

Carmen Totaro (San Giovanni Rotondo, 1974), scrittrice. Vive a Milano. Ha pubblicato i romanzi “Le piene di grazia” (Rizzoli, 2015), finalista al premio Calvino, e “Un bacio dietro al ginocchio” (Einaudi, 2021).