L’estate rovinata del padre dell’Ale è la prima volta che ho capito che la ricchezza non è una cifra: è uno stato d’animo. Era a un certo punto degli anni Ottanta, eravamo nel posto di mare in cui tutti avevano una casa – tutti quelli con cui andavo a scuola; quindi, per un’undicenne: tutto il mondo – e il padre dell’Ale era scocciato. Qualche ladro da villeggiatura gli aveva rubato la Jaguar dal giardino. Se pensate che al padre dell’Ale importasse del costo della Jaguar da rimpiazzare, non siete mai stati quasi ricchi. Chi se ne frega della macchina, sbuffò, ma nel bagagliaio c’erano le mazze da golf fatte su misura: ci vuole un mese per rifarle, mi hanno rovinato l’estate.
Oggi una frase del genere il padre dell’Ale la direbbe ancora? E, se il filmato finisse sui social, verrebbe lapidato dai rinfaccisti che trattano una Jaguar come Versailles?
Il padre dell’Ale era un burino (esistono quasi ricchi raffinati? A guardare Instagram si direbbe di no; ma pure a guardare le serie televisive di nicchia, i romanzi di Francis Scott Fitzgerald, i compiti in classe che ci assegnavano su Verga, i film dei Vanzina; forse c’è qualche ricca vera con pretese di sciccheria nel cinema francese, ma come minimo si tagliuzza le cosce); dicevo: il padre dell’Ale era un burino, ma niente è più relativo della ricchezza. Ricomprare la Jaguar richiedeva a lui il sacrificio economico che per me era ricomprare il gelato caduto sul marciapiede.
Possiedo due Birkin, la borsa di Hermès che – come tutte le cose da quasi ricchi – nell’era di Instagram è divenuta una burinata. A mia discolpa, le possiedo da prima dei social. Sono dello stesso modello base: pelle bovina, quaranta centimetri. In negozio costavano, una quindicina d’anni fa, cinquemila euro (adesso, credo, più del doppio). Ma possiamo davvero dire che fossero gli stessi cinquemila euro per me – che per comprare quella blu chiesi un mutuo pur di vivere al di sopra delle mie possibilità guardarobiere (alla banca dissi che dovevo rifare il bagno di casa) – e per l’amica che mi regalò quella nocciola perché ne aveva troppe e le venivano a noia?
La seconda volta che ho capito che la ricchezza la capisci solo da povera (o da quasi ricca, che è peggio che povera) è stata meno d’una ventina d’anni fa, quando in un romanzo frivolo trovai un consiglio fondamentale: prendete un volo privato, diceva l’io narrante più saggio ch’io abbia mai incrociato, solo se siete certe di non dover mai più prendere un volo di linea.
Essere la ragazza di prima classe, innamorata del proprio cappello, e ritrovarsi tra il dolore e lo spavento della terza: in tutta la storia dell’opera lirica e del teatro shakespeariano e della cinematografia fassbinderiana non c’è tragedia altrettanto tragica.
Di solito ai veri ricchi non accade, a meno che poi non cadano in disgrazia, non sperperino patrimoni abbastanza da diventare poveri (o, peggio, quasi ricchi). Nella nuova stagione di Succession, il racconto dei ricchi che ha superato tutti gli altri racconti di ricchi della tv americana, c’è un momento in cui a uno dei figli tocca prendere un volo di linea. Il patriarca che s’è fatto da solo conosce certi sacrifici, ma la prole cresciuta nella bambagia no. Il figlio cinquantenne strabilia per la poca cura dei dettagli sul volo di linea – i formaggi erano troppo freddi, che ne sapete voi dei traumi d’un plutocrate – e il padre gli dice “ah, mi dispiace tanto” col tono con cui potrebbe dire di portar via dei piatti sporchi a un cameriere. Apparentemente inconsapevole, il padre, d’aver appena assistito a un grande momento di letteratura: quello in cui un vero ricco passa del tempo in quell’inferno che è la vita di chi crede d’esser ricco, dell’illuso da prima classe, del benestante con velleità.
Di norma, queste cose le sai solo se non sei Anson Hunter. Anson Hunter è il giovanotto ricco di Scott Fitzgerald, e una frase di quel racconto è il primo rigo di Scott Fitzgerald che lessi a sedici anni, il che mi diede un certo qual vantaggio: avrei passato i decenni successivi a vedere aspiranti analisti di ricchezze fraintenderne l’incipit. L’avrete sicuramente incrociato, l’incipit, lo citano tutti quelli che equivocano il punto; è quel paragrafo che contiene il concetto: i ricchi sono diversi da voi e da me. Ma non, come lo equivocano i più: i ricchi dai poveri. Quel che intende l’autore è: i nati ricchi dagli arricchiti. Da noialtri che dolore, spavento, ma ogni tanto – senza continuità, senza certezze – anche innamoramento per il nostro cappello. Da noialtri che mai siamo Anson, ma sempre Dolly Karger. Quella che, visto da vicino il giovanotto ricco e poi abbandonata al proprio non ricco destino, “stesa a fissare insonne il soffitto, non credette mai più in nulla”.
Il momento in cui ti avvicini al ricco e ti scotti e lui neppure ti offre una pomata per le ustioni è sempre uno spettacolo interessante, per gli altri. Con alcuni amici abbiamo per esso un nome in codice. E’ quello d’una poverina che faceva la tv, e che un giorno ha lasciato un commento su Instagram.
Lasciate che vi parli di Instagram, curioso incrocio tra Versailles (la residenza di Maria Antonietta) e la residenza Covelli (la casa di Cortina dei protagonisti di Vacanze di Natale, opera vanziniana del 1983 che spiega gli arricchiti meglio del Grande Gatsby).
Instagram è il luogo in cui i ricchi veri e gli arricchiti velleitari sono accomunati dal subire la lotta di classe in forma di commenti indignati con molte maiuscole (David Geffen che instagramma la barca smisurata su cui ha preso il largo durante la pandemia, ma anche la moglie di Bonolis coi suoi assai più modesti voli privati a noleggio). Ma è anche il luogo in cui sviluppare la convinzione che i ricchi non siano abbastanza ricchi da essere credibili come ricchi: cosa siete ricchi a fare – tu stilista, tu cantante, tu influencer, tu calciatore – se avete quegli infissi orrendi, e quelle segretarie incapaci di togliervi gli errori d’ortografia dalle scritte in sovrimpressione sui video, e quell’arredamento inadeguato. Nulla ci ha convinti che saremmo multimiliardari migliori più rapidamente di quanto l’abbia fatto la foto di Richard Branson e Elon Musk davanti a pensili della cucina da Mercatone Uno.
Insomma un giorno la poverina che faceva tv – mica vi sarete già dimenticati di lei – vede su Instagram la foto d’una fantastiliardaria che, con un certo bullismo, si fa ritrarre su una barca a vela il cui ponte è grande come piazza Navona. E sotto commenta, teneramente speranzosa d’invito, di scrocco, d’un paio di giorni da imbucata in un mondo non suo: cara, è questa la barca su cui venni ospite una volta? La fantastiliardaria, crudele come sanno esserlo solo quelle nate ricche, risponde secca: no.
Il fatto è che, mi scuso per la ripetitività, non tutte le cifre uguali sono uguali. Quei tot milioni di euro te li sputtani con meno disinvoltura (sono la tua Birkin col mutuo) se per accumularli ti ci sono voluti decenni di brutta tv e televendite con cambio shimano e inaugurazioni di centri commerciali; con più disinvoltura (sono la tua Birkin di troppo) se t’è bastato divorziare da uno solo dei tuoi mariti. Con ancor meno disinvoltura, ti separi dai tuoi lupini accumulati in una vita di sacrifici, se rispetto a quand’eri giovane tu il cambio shimano si è evoluto, e i piazzisti di prosciutti dell’Instagram ora prendono trecentomila euro per fare due storie da quindici secondi su una macchinetta del caffè. Non c’è più religione, tu dovevi lavorare un anno a piazzare cambi shimano per quella cifra, le rockstar della tua epoca dovevano sudare per almeno un paio di concerti, e questi si comprano un appartamento con, che l’algebra lineare mi aiuti, novanta secondi di Instagram in pigiama.
(Sì, lo so che è matematica delle elementari e non algebra lineare, che sarebbe una branca dell’algebra astratta: ma, se non è astratto comprarsi gli appartamenti parlando alla telecamera del telefono, io non so proprio cosa). I ricchi sono diversi tra loro, avrebbe più accuratamente dovuto dire Scott Fitzgerald. Quelli che inorridiscono guardando i passeggeri di terza classe e i loro tramezzini nella plastica, convinti che i loro formaggi di prima classe siano un lusso, e venendo guardati dalla terza classe come privilegiati; e quelli per cui i formaggi troppo freddi sono un’insopportabile vessazione inflitta alla plebe, e poco importa che sia plebe di prima classe.
Ci vuole uno che non prenda voli di linea per mettere in prospettiva il privilegio di chi considerava la sala d’attesa riservata un lusso. In questa allegoria quelli di Succession sono i ricchissimi che ti complessano. Non dico i personaggi: dico gli autori. Quelli di Billions erano i narratori della ricchezza della tv americana per eccellenza, nella storia Axe faceva arrivare in elicottero da Philadelphia a New York i migliori panini con la bistecca, aveva una tizia che andava a domicilio a stirargli i muscoli perché se sei ricco mica puoi fare lo stretching da solo. Poi è arrivato Succession, la storia di ricchissimi in auge è diventata la loro, e ora l’autore di Billions risponde amareggiato a tweet di gente che gli chiede perché non uniscano le due produzioni. Tweet che paiono sempre sottintendere: visto che voi siete gente da formaggi troppo freddi. Avevo un’amica che credevo ricca. Un giorno andai a salutarla mentre stava per ripartire dalla mia città. La figlia aveva appena letto Orgoglio e pregiudizio, portai all’amica un libro su Jane Austen per la piccina. Ringraziò graziosamente, come fanno i ricchi. Poi ripartì lasciandolo sul tavolino al quale avevamo preso il tè. La storia della mia inadeguatezza a frequentare i ricchi è il segno tondo della tazza di tè su quel libro abbandonato. Sì, lo so a cosa state pensando. Anch’io. I nostri ricchi erano burini da ben prima di Instagram, e quindi tutte le scene che ci hanno insegnato la ricchezza sono scene dei Vanzina (oddio, qualcuna pure di Dino Risi).
Il libro su Jane Austen era il mio “occhiali da sole portati in regalo alla ragazza del quasi ricco da Claudio Amendola in Vacanze di Natale”. Di lì a poco calpestati dai voraci ricchi in fase scambio di regali tra loro. Quasi ricchi da formaggi freddi, solo apparentemente privilegiati rispetto a Mario Brega, che nel film era il padre borgataro di Amendola che aveva fatto tanti sacrifici per portare la famiglia a Cortina. Che tu faccia un mutuo per la Birkin o che tu ne abbia un numero sufficiente da calpestare la borsa di marca minore che reca in dono la plebe, comunque non sarai mai un Anson Hunter.
L’amica che credevo ricca diceva che non si parlava mai di soldi, che era volgare. Poi ha fatto amicizia con dei veri ricchi. Avevano tenute adiacenti, ma lei se ne allontanava in una macchina con autista, e loro con l’elicottero. Lei si faceva portare a una prima classe con formaggi freddi, e loro a voli privati. Lei andava in vacanza in alberghi che non mi sarei potuta permettere io, e loro in isole private che non si sarebbe potuta permettere lei. Siamo tutti la plebe di qualcuno.
La mia amica ha iniziato a parlare solo di soldi. Era ossessionata dal costo dei passatempi dei suoi vicini persino più di quanto io fossi ossessionata dal suo armadio delle Birkin. Chissà se i vicini lo sapevano, d’essere perennemente su un vetrino, scrutati, studiati, conteggiati. Chissà se si sono accorti che, se c’è da pagare, paga sempre lei: perché è ansiosa di dimostrarsi economicamente all’altezza, e perché come tutti i veri ricchi loro non hanno mai il portafoglio. Chissà se, quando non hai mai preso un volo di linea, gli altri esistono.
Nella settima puntata della nuova stagione di Succession, c’è un figlio nato ricco (non quello dei formaggi, un altro) che compie gli anni. C’è un mucchio di pacchi che mi ha fatto tornare in mente quella volta che, dopo una festa, mia madre diede ai bambini poveri (un’entità astratta quant’altre mai) i giocattoli che mi avevano regalato: erano troppi. Credevo che essere ricchi fosse quella roba lì: che gli amici di famiglia ti regalino troppi giocattoli, il disordine da accumulo. Che illusa ero. Per fortuna poi sono cresciuta e ho imparato a riconvertire la narrazione: quella fu la sera in cui la mamma diede via la roulotte di Barbie prima ch’io potessi giocarci, il trauma primario, la tregenda per cui stare vent’anni in analisi. (Se sei normale, quel trauma lì lo risolvi comprandoti, da adulta, una roulotte di Barbie su eBay; se sei davvero ricco, fai rimettere in produzione alla Mattel l’esatto modello di roulotte di quand’eri alle elementari).
La festa di compleanno di Succession, dicevo. La Claudio Amendola del caso è una fidanzata bionda che fin lì non era vittima d’alcun divario sociale. Poi il giovanotto ricco decide di scartare proprio il suo regalo. Un orologio. Ma come un orologio. Io un orologio ce l’ho. Non ci hai neppure inciso niente. Non è un regalo speciale. Non c’è niente di più umiliante che fare a un ricco il regalo sbagliato, e tutti i regali ai ricchi sono sbagliati. Forse la ricchezza è quando tutti capiscono di non poterti regalare niente. Forse quel mucchio di pacchi alla fine della festa non verrà aperto, verranno distribuiti ai domestici: cosa possono avere mai da regalare, gli invitati meramente mortali, a un Anson Hunter?
Forse ricco è solo chi non s’instagramma, o forse Instagram è il divario tra Gianluca Vacchi che, quando vuole un kebab, mette su un marchio di consegne di kebab a domicilio e instavende la sua cena di kebab a tutti; e Axe di Billions, che i panini con la bistecca li faceva arrivare senza riprendersi col telefono – e infatti Axe è un personaggio di fantasia. I soldi che spendi senza instagrammarli valgono uguale? Marco De Benedetti lo sappiamo che può permettersi il tartufo, l’abbiamo visto su Instagram, ma come facciamo, senza uno straccio di presenza social, a verificare che John Elkann non mangi formaggi troppo freddi come uno di noi mortali?
Sei ricco quando hai la roba e ce la celi, o sei ricco quando hai la roba e ne fai sfoggio? O sei ricco quando neanche lo sai, se hai la roba? Puoi avere la stessa idea di ricchezza nel paese di Jay Gatsby e in quello dei Malavoglia?
E’ ricco l’industriale che dà indicazioni agli invitati al matrimonio del figlio d’andare a dormire in quei due alberghi, e gli alberghi sono suoi, e gli invitati pagheranno il conto, e lui fatturerà sul matrimonio del figlio, non come i poveri velleitari che vanno dall’usuraio per comprare alla figlia un abito da sposa che la faccia sembrare ricca?
E’ ricca la influencer che, mentre qualunque stilista è disposto a tutto per vestirla coi suoi capi, ama riprendere solo la parte del suo armadio che contiene le borse di Hermès e quelle di Chanel, gli unici due marchi per vere ricche, gli unici due che mica si sputtanano a omaggiare le influencer?
E’ ricca la nobildonna che nel 2005, all’intervistatore che le domanda se abbia amici poveri, chiede col tono di chi si trova tra gli aborigeni se si stia parlando di gente che deve lavorare per vivere? Sedici anni fa, quando non si aveva più paura dell’Anonima sequestri e non se ne aveva ancora del rinfaccismo poveraccista dell’Instagram, dove la plebe segue i ricchi solo per commentare sotto le foto di panfili “gli italiani non arrivano alla fine del mese, non ti vergogni”, sedici anni fa nelle interviste si poteva giocare ai ricchi. Anche se magari eri appena atterrata, ti avevano perso il bagaglio con le mazze da golf, e avevi il formaggio freddo sullo stomaco.
Oggi non si può, e il padre dell’Ale morirebbe tacendo il suo segreto: teneva più alle mazze da golf che ai parenti, ma lo sa solo una bambina che passava dal suo giardino nell’estate sbagliata. Oggi però, se sei ricco, quasi tutto è rimpiazzabile, nessun articolo è mai davvero esaurito: il Charles Foster Kane di Quarto potere avrebbe una carta di credito illimitata con cui comprare slittini Rosabella, invece di morire invocando quello d’infanzia. Mica come me, che morirò non abbastanza plutocrate da essermi fatta rifare la roulotte di Barbie dell’autunno 1979, che morirò invocando un’acquisizione della Mattel mentre mi strozzo col formaggio freddo.