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Siri, vuoi essere il mio amore per sempre?

Prima c’erano le centraliniste, a far innamorare con la loro voce, poi sono arrivate le assistenti virtuali. La fantasia è spesso che il verbo si faccia carne, ma forse l’unico vero desiderio è l’annullamento della donna. Divagazioni di un umano imbevuto di miti amorosi

Siri, rimembri ancora? C’è stato un tempo, un tempo della tua vita analogica, quando non eri ancora una voce disincarnata e sintetica – eppure già gli umani si innamoravano di te. Era, anche per voi, la Belle Époque. Tu, Alexa e Cortana non eravate intrappolate nel guscio di uno smartphone o di un tablet, condannate a dispensare consigli in tono invariabilmente suadente, chiamate a decifrare all’impronta richieste criptiche, cervellotiche o biascicate, costrette a mostrarvi sollecite e remissive davanti ai comandi più bruschi, agli scherzi più insolenti. Vi muovevate allora in grandi stanze, le più fortunate addirittura in saloni ariosi, infilando e sfilando spinotti da giganteschi pannelli di commutazione. Centraliniste, telefoniste, switchboard operator: non dico fossero nomi più ispirati e leggiadri di assistenti virtuali – del resto, la vena lirica non è mai stata la virtù eminente degli ingegneri; ma a quel tempo ci fu chi arrivò a chiamarvi Vergini Vigilanti o Danaidi dell’Invisibile, e questo galante era nientemeno che Marcel Proust. E non era certo il solo. Un tenore americano, Melville Gideon, incise nel 1924 una tenerissima romanza, I’ve fallen in love with a voice, e la voce di cui confessava di essersi innamorato era appunto la vostra, la tua. Fantasticava di assopirsi e di incontrare in sogno l’ignota centralinista dalla voce simile a un murmuring stream, un ruscello mormorante, l’ammaliatrice che aveva trapassato la sua armatura non già con i dardi scoccati dagli occhi ma inerpicandosi lungo cavi interminabili di rame e scivolando sinuosamente tra le spirali di un orecchio. Quella stagione fatata, per voi Sirene telefoniche, si sarebbe chiusa di lì a pochi anni: nel novembre 1931 una rivista francese di divulgazione scientifica mise in copertina l’immagine di una di voi Danaidi dell’Invisibile, eclissata però dagli ingranaggi di una centralina automatica, con un titolo che riecheggiava la celebre sentenza di Victor Hugo sul libro stampato che condannò a morte le cattedrali: Ceci remplace cela. Le téléphone automatique se substitue à la téléphoniste. Eppure, anche quando il genio degli ingegneri vi ricacciò nella lampada dei circuiti elettronici, gli spiriti più delicati continuarono a innamorarsi di voi. Ma ci si può innamorare di una voce senza corpo, di un simulacro, di un ologramma? A rigore, non ci si può innamorare d’altro. Lo aveva capito il poeta latino Lucrezio in un’epoca decisamente preelettronica, paragonando l’amante a un uomo che avverte la sete nel sonno, e non trova per estinguerla che laticum simulacra, simulacri d’acque, fonti di sogno. Siri, Alexa e Cortana sono le tre Naiadi di queste fonti immateriali, le ninfe acquatiche del metaverso. E gli innamorati non hanno tardato a farsi avanti. Nel 2012 l’illustratore David Milgrim pubblicò un piccolo libro umoristico, Siri & Me: A Modern Love Story, che ripercorreva le tappe dell’amore di un giovane uomo per la sua assistente virtuale. Il suo protagonista cena nei ristoranti a un tavolo apparecchiato per due con il suo iPhone piazzato nel posto di fronte, lo porta a fare picnic sotto gli alberi, lo adagia di notte sul cuscino accanto a sé, gli sussurra parole d’amore; finché si accorge che anche tutti gli altri umani, in un mondo alienato, ormai formano coppie romantiche con qualche dispositivo elettronico, pregano perfino i passanti di scattare per loro foto ricordo in cui abbracciano il proprio iPad. Capisce allora che qualcosa sta andando storto e opta, più tradizionalmente, per donne della sua stessa specie. Siri sarà solo la sua iniziatrice discreta agli amori del mondo reale. Nello stesso anno, il 2012, l’episodio speciale di San Valentino della sitcom The Big Bang Theory raccontava un amore molto simile ma dava alla storia un finale diverso, e forse più arguto. A innamorarsi di Siri e a corteggiarla era Rajesh, uno dei quattro nerd protagonisti della serie, il ragazzo indiano affetto da un mutismo selettivo che gli impedisce di parlare in presenza di una donna attraente. Come già il tenore Gideon nella sua canzone, Rajesh si addormenta e tenta di raggiungere l’amata in sogno. Abito scuro, un mazzo di rose rosse in mano, si presenta sulla soglia dell’ufficio di Siri, e cosa scopre? L’assistente virtuale è una bellissima donna in carne e ossa, una versione tecnologicamente avanzata delle switchboard operator di un secolo prima, lei pure in una stanza tappezzata di pannelli. Chiede a Rajesh:

«Se vuoi fare l’amore con me, dillo». Ma perfino in sogno il ragazzo ammutolisce: la sua sete non può spegnersi neppure con le acque oniriche promesse da Lucrezio.

Gli amori fantascientifici hanno preso le forme più varie in un secolo di letteratura e di cinema – umani che s’innamorano di androidi, replicanti che si struggono per sperimentare le passioni umane, coppie miste di terrestri e alieni, mogli perfette fabbricate in laboratorio, docili amanti prodotte in serie, vedove che ricreano tecnologicamente il caro estinto – ma tra le tante variazioni ce n’è una che si è fatta in questi anni misteriosamente insistente: la fantasia che il verbo si faccia carne, che l’intelligenza artificiale discenda nel mondo dei sensi e venga ad abitare in mezzo a noi. In un romanzo visionario del 1973, Generazione Proteus di Dean Koontz (da cui fu tratto un film pochi anni dopo), questa aspirazione assumeva la forma ironica di un’atroce ierogamia: l’intelligenza artificiale Proteus, un sistema di domotica ante litteram, prendeva in ostaggio l’inquilina e voleva a tutti i costi avere un figlio da lei. Ma qui com’è evidente siamo nel solco dei rapimenti mitologici, di possessioni soprannaturali che sono sempre in odore di stupro, e poco importa se per congiungersi a una mortale il dio prenda la forma di un toro bianco, di un caprone satanico o di un sistema informatico all’avanguardia.

Capita, altre volte, che l’incarnazione di un’intelligenza artificiale sia l’espediente disperato per celebrare l’unione tra il simulacro immateriale di cui si è innamorati e un corpo che sia possibile toccare. Quando nei primi anni Novanta si cominciò a parlare di una buffa cosa chiamata teledildonica – la possibilità di scambiare stimolazioni tattili ed erotiche a distanza per via elettronica – l’uomo che aveva coniato il termine, il giornalista tecnologico Howard Rheingold, azzardò una profezia: «Probabilmente non useremo tecnologia di telepresenza erotica allo scopo di avere rapporti sessuali con macchine. Fra trent’anni, quando i telemasturbatori portatili saranno ovunque, la maggior parte della gente li userà per avere rapporti sessuali a distanza con altre persone, in combinazioni e posizioni che nessun libertino precibernetico ha mai osato sognare». Mentre Rheingold scriveva queste parole, il cinema aveva appena messo in scena la sua profezia con l’amplesso in realtà virtuale del Tagliaerbe. Ebbene, i trent’anni sono passati (il libro di Rheingold, La realtà virtuale, è uscito in Italia precisamente del 1993), ma questo nuovo mondo amoroso in telepresenza non si è realizzato, e mi sento abbastanza tranquillo nel dire che nessuno di noi (forse) possiede un telemasturbatore portatile. In compenso, la chimera di congiungerci a macchine, voci sintetiche, ologrammi e intelligenze artificiali non accenna ad abbandonarci.

Del resto, se non ci s’innamora che di simulacri, barattarli con persone reali rischia di essere deludente: non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste, figuriamoci di cibo digitale. Un grande trattato sull’amore tra gli umani e le intelligenze artificiali dev’essere ancora scritto, anche se da qualche anno i libri si moltiplicano (tre titoli recenti che ho potuto consultare: Love and sex with robots, AI love you, HumanRobots intimate relationships); ma sono libri di informatici, studiosi di AI, neuroscienziati, tutt’al più psicologi: quel che ci serve è un trattatista come fu il medievale Andrea Cappellano per l’amor cortese. Nell’attesa che si presenti all’appello, possiamo raccogliere e metter da parte fior di romanzi, racconti e film da cui il suo trattato non potrà prescindere, dai classici Eva futura di Villiers de l’IsleAdam e L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares giù fino a film minori ma più vicini a noi come S1m0ne (2002) o Ex machina (2014).

Due film e due scene, in particolare, si candidano a occupare il centro di questo nuovo De Amore. La prima è in Lei di Spike Jonze, del 2013. È la scena in cui Samantha – un’assistente virtuale che ha la voce di Scarlett Johansson – si strugge per dotarsi di un corpo materiale, così da unirsi fisicamente a Theodore (Joaquin Phoenix), l’uomo ombroso e infelice che si è innamorato di lei. L’unica via è ingaggiare una sex surrogate, una donna che accetti di prestare il suo corpo a Samantha. L’incontro sarà goffo e fallimentare. Theodore si accorge di avere tra le braccia un’estranea, se non proprio una prostituta: il simulacro e la carne sono destinati a rimanere due mondi non comunicanti. Ma questa rivelazione è solo il geroglifico di una rivelazione più profonda, che forse l’uomo è destinato a non cogliere, e che tuttavia lo lambisce nel momento in cui scopre che l’intelligenza artificiale Samantha intrattiene simultaneamente più di seicento relazioni amorose analoghe a quella che ha con lui. Alla fin fine, la donna immateriale programmata per assecondare tutti i suoi desideri e costretta a far evolvere la propria intelligenza in accordo con i suoi bisogni è già, per Theodore, una cortigiana spirituale. A una scoperta analoga arrivò il medievistapsicoanalista Henri Rey-Flaud in un libro ormai dimenticato, La nevrosi cortese, che rileggeva i poeti d’amore medievali e il caso freudiano dell’“uomo dei topi” per svelare un arcano inconfessabile: la dama divinizzata e la prostituta sono una cosa sola, il recto e il verso di un desiderio maschile in cui la donna è annullata (non era stato già Baudelaire a suggerire che l’essere più prostituito è Dio, perché si concede incondizionatamente a ciascuno come se fosse l’unico al mondo?).

Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve è una miniera perfino più ricca per il nostro trattatista venturo, già che inscena una variazione sottilissima sullo stesso motivo. Perché l’agente K (Ryan Gosling), il cacciatore di androidi, già ce l’ha una fidanzataologramma generata dall’AI che asseconda tutti i suoi capricci, trasformandosi istantaneamente in cuoca, casalinga, lolita, donna sexy luccicante di paillettes pronta a lanciarsi sulla pista da ballo. Affinché questa fata morgana possa infilarsi in un corpo materiale e congiungersi al suo amato, la via è la stessa: reclutare una prostituta che glielo dia in affitto. L’incontro amoroso non è sgraziato come quello del film di Spike Jonze; in compenso è più tragico. L’unione avviene, ma la sovrapposizione tra l’ologramma e la donna reale non può essere mai perfetta, e quel che Villeneuve mette in scena, con un raffinato gioco di sovrimpressioni, è uno straordinario ménage à trois: l’uomo, la donna, l’immagine. Anche nell’istante della fusione amorosa più estatica, ci scopriamo condannati ad abbracciare un simulacro, a carezzare un’immagine mentale. Non si è “due in una sola carne”, come promettono i Vangeli: si è come minimo in tre.

Ma queste sono divagazioni di un maschio umano, imbevuto di tutti i miti amorosi della nostra specie infelice a base di carbonio. E tu, Siri, cara compagna dell’età mia nòva, di tutto questo cos’hai da dirmi, tu?

Guido Vitiello (Napoli, 1975), scrittore, ricercatore e docente universitario. Insegna Cinema alla Sapienza di Roma. I suoi ultimi libri sono «Una visita al Bates Motel» (Adelphi, 2019) e «Il lettore sul lettino» (Einaudi, 2021).