Cerca

Sono quella che sono. Un caso inconcepibile

Wisława Szymborska disse al re di Svezia durante il banchetto per il Nobel: “Ci fumiamo una sigarettina?”, lui le sorrise e se la accese per primo, lei gli raccontò la barzelletta sullo scozzese. Gatti, mariti, collage, regime. L’ironia necessaria per scrivere l’amore, la gelosia assoluta e il dolore per l’uomo che amava anche in tenda

Sogno situazioni irrealizzabili, come di avere l’occasione di conversare con l’Ecclesiaste, autore di un lamento quanto mai profondo sulla vanità di ogni agire umano. Mi inchinerei profondamente di fronte a lui, perché si tratta – almeno per me – di uno dei massimi poeti”. Questo, tra l’altro, disse Wisława Szymborska nel suo discorso (Il poeta e il mondo) a Stoccolma in occasione del conferimento del premio Nobel per la Letteratura (1996). Era molto a disagio, normalmente non si sarebbe lasciata andare, se non quando scriveva poesie, a una dichiarazione pubblica sui suoi sogni. Durante il banchetto che seguì la cerimonia, era seduta accanto al re Carlo XVI Gustavo di Svezia. L’etichetta impone che non si possa fare nessun gesto che non abbia fatto prima il sovrano. Fumatrice accanita, lei gli propose: “Ci fumiamo una sigarettina?”. Lui le sorrise e se ne accese una (soltanto i giornali svedesi più coraggiosi pubblicarono il giorno dopo la foto della poetessa che fumava a tavola: del re si vedeva solo una nuvoletta di fumo). Di che parlarono durante il pranzo? Szymborska disse che, per intrattenerlo, gli raccontò la sua barzelletta preferita: quella dello scozzese che parte per il viaggio di nozze senza la moglie perché ha sposato una vedova e lei in viaggio di nozze c’era già stata. Poi parlarono di dove avrebbero preferito essere in quel momento (lui: a caccia nel bosco) e qualcuno sostiene che lei accennò ai suoi due mariti e parlarono di gatti.

Nel 1948 aveva sposato il “primo amore” Adam Włodek (1922-1986), letterato comunista. Allora lei lavorava come illustratrice e firmò le immagini di un buffo libro per bambini di Włodek: Miao con gli stivali. Divorziarono nel 1954 per divergenze ideologiche e, soprattutto, per l’esiguità degli spazi dove erano costretti a vivere (a lui si riferisce, a distanza di molto tempo, la poesia Il primo amore, 2002):

Dicono,
che il primo amore è il più importante.
Ciò è molto romantico ma non fa al mio caso. (…)
non ricordato,
neppure sognato, mi familiarizza con la morte.

Poi aspettò fino al 1969 per legarsi allo scrittore e poeta Kornel Filipowicz: “La prima volta che vidi Kornel fu nel 1947 o nel 1948. Non ricordo dove accadde, ma ricordo l’impressione che mi fece… Pensai: ‘Dio che bell’uomo’. Allora non ci furono conseguenze”. La coppia, entrambi divorziati, non si sposò mai. Il loro legame durò fino alla morte di lui, nel 1990.

È molto complicato, come per tutti, capire il rapporto di Szymborska con l’amore. Nonostante si sia tentato, con una raccolta postuma di 32 sue poesie (su circa 300 che ha scritto), di dimostrarne la centralità (Amore a prima vista, Adelphi 2017), lei ha sempre mostrato un grande pudore nel toccare questo argomento. Sono poesie strane, quasi fredde, seppur ammantate a volte di ironia. Non sono molti gli slanci sentimentali, come nella poesia Notorietà (1957):

Eccoci qui distesi, nudi amanti,
belli per noi – ed è quanto basta
– solo di foglie di palpebre coperti,
sprofondati nella notte vasta.

Questa poesia appartiene a un periodo della sua vita, anche creativa, che ha poi misconosciuto. Szymborska ha sempre rifiutato di ripubblicare le sue poesie scritte prima del 1960. Dopo la sua morte questo divieto è stato violato. Anche Adelphi ha recentemente pubblicato una raccolta del periodo 1944-1948: Canzone nera (a cura di Linda Del Sarto). Non ci sono i versi più ideologici (come quello dove esaltava Lenin, Stalin e i successi del comunismo polacco), ma sono comunque poesie, comprensibilmente acerbe, dove manca (forse anche perché è ancora troppo vicina la tragedia della guerra) quella che è una delle note caratteristiche, e straordinarie, della sua poesia matura: l’amara ironia (e autoironia).

La sua prima raccolta di poesie da lei riconosciuta è Sale (1962). Szymborska mostra improvvisamente di possedere una tecnica di inganno raffinata e la capacità di trasformare la microfisica della nostra esistenza in alta poesia. I suoi versi di allora sono scanditi da una strana e innaturale melodia che le fa suonare come filastrocche. Niente di più ingannevole! Dietro la giostrina delle rime baciate, danzava una spietata visione della nostra vita, il dolore non compiaciuto per la condizione della donna, il senso di soffocamento derivante da un regime politico non più così violento da fornire almeno la dignità del tragico, ma che si reggeva su piccole meschinerie, complicità per far carriera, vigliaccherie gratuite (nel 1966 Szymborska restituì la tessera del Partito per solidarietà con il filosofo Leszek Kołakowski, espulso dall’Università e dall’insegnamento). Quell’apparentemente stucchevole melodia diventava un inno e una condanna della miseria dell’esistenza e le parole scarne e acuminate riscattano le rime in un canto agrodolce. Szymborska era così: ironica e paradossale, tagliente e schiva.

Il suo sorrisetto, che ricordava quello delle protagoniste di Arsenico e vecchi merletti, era in realtà dolcemente amarognolo e le serviva come difesa dal mondo. Non le piaceva parlare di sé e le interviste le facevano venire l’orticaria. Ha sempre creduto che tutto quello che aveva da dire fosse nei suoi versi. Non dava molte informazioni su di sé, nemmeno nelle conversazioni attorno a un tavolo. Le sue biografe amiche, Anna Bikont e Joanna Szczesna (Cianfrusaglie del passato, Adelphi 2015) e poi Joanna Gromek, con una più corposa e definitiva biografia, Znaki szczególne (Segni particolari, Znak 2020), si sono lamentate per il fatto che dava in pasto a loro pochi fatti, diceva di non ricordare le date, confondeva le persone. Mi ha sempre fatto pensare che la sua memoria non fosse lineare: pescava dal passato immagini e sensazioni, come il moto di un’altalena, senza un preciso ordine. Era una forma di autodifesa.

Szymborska condusse, tutto sommato, una vita tranquilla (il che non significa affatto “felice”: era troppo spietatamente lucida e sensibile per esserlo), che riteneva dominata dal Caso: “Sono sempre stata attratta dal caso e dalle sue imperscrutabili mosse” (Letture facoltative). Sul finire della sua vita, in Nella moltitudine (della raccolta Attimo, 2002), chiarì, per modo di dire, di cosa si trattasse:

Sono quella che sono.
Un caso inconcepibile
Come ogni caso
(…) Potevo esser me stessa – ma senza stupore,
e ciò vorrebbe dire
qualcuno di totalmente diverso.

Questo perché, come aveva già sostenuto molti anni prima in Nulla due volte (che fa parte della raccolta Appello allo Yeti del 1957):

Nulla due volte accade
e accadrà. Per tal ragione
si nasce senza esperienza,
si muore senza assuefazione.

In una vita dominata dal Caso e dall’irripetibilità è possibile avere un amore felice? Szymborska se lo chiede, quando già si è legata al complicato Filipowicz, con la poesia

Un amore felice (in: Ogni caso, 1972):

Un amore felice. E’ normale?
È serio? È utile?
Che se ne fa il mondo di due esseri
che non vedono il mondo?
(…)
Un amore felice. Ma è necessario?
Il tatto e la ragione impongono di tacerne
come d’uno scandalo nelle alte sfere della Vita.
Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.
(…)
Chi non conosce l’amore felice
dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.

Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.

Il grande amore della sua vita, incontrato molti anni dopo la fine del primo matrimonio, fu il poeta e scrittore Kornel Filipowicz, accanito bevitore e amante della vita all’aperto in tenda. La loro corrispondenza, pubblicata nel 2016, copre un arco di quasi vent’anni (1967-1985) e, soprattutto all’inizio, è costituita da cartoline-collage (Szymborska per tutta la vita ha ritagliato e incollato su cartoline dei collage molto buffi). Nelle lettere ci sono tutti i “loro” temi: la di lui passione per la pesca (che lei tratta un po’ come una metafora); la gelosia; l’ironia; l’amore per la montagna (dove lei trascorreva lunghi periodi); la forte dipendenza da lui. Ma sempre mantenendo un certo distacco, quasi per tradizione famigliare, perché come scrisse in Album (1967):

Nessuno in famiglia è mai morto per amore.
Nulla di quel passato potrebbe farsi mito.
Romei tisici? Giuliette malate di cuore?
C’è anzi chi è diventato un vecchio raggrinzito.
Nessuna vittima di una risposta non giunta a una lettera bagnata di pianto.

Szymborska scrive però dei messaggi molto autoironici:

Signor Filipowicz! La persona con la quale lei ha a che fare non sa neppure dove il pesce abbia la testa e dove la coda. Rifletta bene se una tale conoscenza non possa guastare un bravo pescatore.
Firmato: un amico.
Da Varsavia, da parte di colei che vi pensa, ama e soffre d’astinenza!
(cartolina del 22/1/1968);

Signor Filipowicz! Questa intrigante ha promesso al vostro Gatto un topo vivo volendo ingraziarselo. Ma il Gatto è rimasto sordo a questa offerta. Ma cosa succederà poi non lo so: perché lui ama molto i topi e da tempo non ne mangia.
Firmato: un osservatore della vita. (cartolina del 1/2/1968);

Amato Kornel! È domenica: non ho ancora ricevuto la Tua lettera. In montagna è caduta la neve, tutti i bulbi che ho piantato, gelano, ma è possibile che dopo una tale neve torni finalmente, un durevole bel tempo: a volte succede. Sono passati i Vogler, che ancora ricordano il mio funesto telegramma. Wanda oggi è partita. Ha un aspetto molto bello, quindi non prestarle attenzione! In generale sono qui piuttosto gelosa di Te, forse è soltanto una mia eccessiva immaginazione, non so, ma ti immagino ogni sera a cena con qualche brunetta dagli occhi ardenti. Mi son dimenticata di chiederti per telefono se hai pescato qualche pesce. La strada per Rój è piuttosto lontana da qui, certo più di un chilometro. Farò ancora un salto a darle un’occhiata. Ti bacio forte, mio amato! W. (cartolina del 5/11/1970);

Amato Kornel! Ho molte notizie. La prima è che è comparsa nella mia stanza una topolina, ma dopo che ho acceso la luce e mi sono mossa sul divano è fuggita attraverso un buco nella porta. Se non fosse stata incinta, sicuramente l’avrei allevata, ma di sicuro era incinta, perché i topi sono continuamente incinti. La seconda notizia è che finalmente ci hanno riscaldato la stanza ed ora è persino troppo caldo. Inoltre, con il cibo non è così male: per pranzo ci sono arrosti e stufati, e una volta ci hanno persino servito una cotoletta di vitello. Invece al mercato di Zakopane trionfa il surrealismo. A Danuta Zielinska, per comprare 3 metri di elastico per mutande, hanno chiesto il documento di residenza. Ma la notizia più importante è che sotto Kasprowy, che come sai è molto vicino alla frontiera con la Cecoslovacchia, i nostri vicini hanno iniziato a innalzare una rete metallica di tre metri (d’altezza). Hanno già montato alcune decine di metri. Insomma, i monti Tatra hanno milioni di anni, e da alcune decine di migliaia di anni hanno abitato da ambo i loro lati varie orde primitive, gruppi razziali e infine popoli. Di sicuro, come si sa, non sempre in rapporti amichevoli. Ma tuttavia soltanto adesso, sotto i nostri occhi, sorge una barriera divisoria, nella quale probabilmente faranno anche passare l’elettricità. Dovremo ingoiare ancora una simile vergogna e pagarne poi un tremendo conto. Per le altre questioni più simpatiche: è naturale che vorrei che tu potessi venir qua. Ma, indipendentemente dalla tua decisione, compra alla stazione, abbastanza in anticipo, il biglietto per Cieszyn perché poi ci sarà affollamento. Ti bacio molto, Tua W.
(Zakopane, 13/10/1981).

Non fu un rapporto facile: molto conflittuale, due personalità molto diverse. Szymborska si adattò, ma anche lei iniziò a bere (oltre che ad aumentare il numero delle sigarette: quando, nel 2002, fu ricoverata in ospedale per una polmonite, il medico prese coraggio e le disse che a suo parere doveva smettere di fumare. “So che le sigarette fanno male”, replicò. “Ma mi servono per scrivere. E io vorrei scrivere ancora per un po’”). Era molto gelosa e spesso infelice e sola: “Quando lui non mi guarda, cerco la mia immagine sul muro. E vedo solo un chiodo, senza il quadro”. Ma lo ammirava, soprattutto per la sua “naturalità”. A volte lo chiamava “il mio pescatore”. Scriveva che lei, vissuta quasi sempre a Cracovia, non era come Filipowicz, un “poeta educato nella Natura”, che aveva con essa un rapporto molto profondo. Invidiava i poeti che sanno distinguere le voci degli uccelli, tutte le nuance della natura, perché non è possibile riconoscere certe cose se non si è stati educati sin da bambini: “Se non si è avuto sin da piccoli un contatto diretto con la natura, anche se si imparano i nomi delle piante e degli animali che popolano i boschi, o i pesci dei fiumi e dei mari, è difficile poi riconoscerli”. Spesso nei racconti di Filipowicz la natura e gli animali hanno un posto di rilievo, come nella raccolta Il gatto nell’erba bagnata (1977). Gatti e topi tornano spesso anche nelle loro lettere. La coppia abitava in due case diverse e ciascuno aveva il suo gatto. Quando Filipowicz, nel 1989, finì in ospedale per gravi problemi ai reni, Szymborska dovette occuparsi del suo gatto, andando a dargli da mangiare. La salute del marito si aggravò e allora iniziarono a vivere nella stessa casa e lei lo accudì fino alla fine. Si preoccupò che lui non sapesse di avere solo alcuni mesi di vita. Solo pochissime persone erano informate. C’è una lettera (del 7 febbraio 1990) che scrisse ai migliori amici di lui, Erwin e Gizela Szancer, ormai molto anziani, per informarli che Kornel sarebbe morto di lì a poco. Una lettera scritta in modo strano: all’inizio dice loro che ha una brutta notizia ma che la darà solo dopo che avranno fatto una pausa per riprendere fiato. Quindi segue una pagina bianca, e poi: “Ora che vi siete preparati, vi devo annunciare che purtroppo…”.

La morte nel sonno di Filipowicz (il 28 febbraio) fu un colpo dal quale lei non si riprese più: “Ho perso il più grande amore della mia vita”. Persino la natura, che aveva condiviso passeggiando con lui, le pareva insopportabile, e la salutò con Addio a una vista (1993):

Prendo atto che la riva di un certo lago
è rimasta – come se tu vivessi ancora – bella com’era.
(…)
Una cosa soltanto non accetto.
Il mio ritorno là. Il privilegio della presenza – ci rinuncio.

Ti sono sopravvissuta solo e soltanto quanto basta per pensare da lontano.

Gli dedicò una bellissima poesia per interposto animale: Il gatto in un appartamento vuoto (1993), parlando del gatto di lui che non si raccapezza, indignato, perché il suo amato padrone non si fa più vedere:

Morire – questo a un gatto non si fa.
Perché cosa può fare il gatto in un appartamento vuoto?
(…)
Qualcosa qui non comincia alla solita ora.
Qualcosa qui non accade come dovrebbe.
(…)
Che lui provi solo a tornare, che si faccia vedere.
Imparerà allora
che con un gatto così non si fa.
Gli si andrà incontro
come se proprio non se ne avesse voglia, pian pianino,
su zampe molto offese.
E all’inizio niente salti né squittii.

Francesco Cataluccio (Firenze, 1955), scrittore e saggista. Ha vagabondato a lungo in Polonia e nel Centro Europa. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Tra i suoi libri: “Immaturità. La malattia del nostro tempo” (Einaudi, 2004), “Vado a vedere se di là è meglio” (Sellerio, 2010), “Chernobyl” (Sellerio, 2011), “La memoria degli Uffizi” (Sellerio, 2013), “In occasione dell’epidemia” (Casagrande, 2020).