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Sorridi, sei nel mondo del terrore

Il ghigno da orecchio a orecchio di “Shining” e il diabolico sorriso senza gatto di Alice. Letteratura, cinema, teatro e fumetti si nutrono di smorfie spaventose e di psicopatici sorridenti. Storia disumana e maligna di facce inquietanti e bocche in rovina

Il sorriso è contagioso come lo sono il panico, lo sbadiglio, la tosse nervosa a teatro, l’isteria collettiva, il riso convulso?

Di certo è contagioso in Smile, l’horror psicologico del regista esordiente Parker Finn arrivato questo autunno nelle sale cinematografiche, dove un ghigno sinistro, quasi un’entità disincarnata, s’impossessa delle sue vittime, una dopo l’altra, mettendo in moto una staffetta di suicidi – una specie di catena di Sant’Antonio che potremmo ribattezzare catena di San Medardo, come il vescovo francese del Sesto secolo che l’iconografia ci tramanda con le labbra schiuse in un sorriso sardonico, protettore non a caso dal mal di denti e dalle malattie mentali. Ma il sorriso di Smile è a sua volta il caso clinico più recente di un contagio cinematografico lungo quasi un secolo. Solo negli ultimi anni, quel sorriso lo abbiamo visto impresso sulla maschera di Ethan Hawke in Black Phone, riprodotto sui travestimenti dei devastatori carnevaleschi della Notte del giudizio, sporgente dal volto mostruoso di Venom o da quello imbiancato del clown Pennywise di It, moltiplicato all’infinito nelle metamorfiche incarnazioni di Joker, da Heath Ledger a Joaquin Phoenix. E risalendo ancora indietro troveremmo – tutti nella stessa posa: sguardo leggermente dal basso, ma rivolto irremovibilmente verso la cinepresa e lo spettatore – il sorriso di Anthony Hopkins nel Silenzio degli innocenti, il sorriso di Jack Nicholson in Shining, il sorriso di Malcolm McDowell in Arancia meccanica. Fino ad arrivare, nella nostra indagine epidemiologica, ai due pazienti zero: Anthony Perkins nel finale di Psycho di Alfred Hitchcock, con lo spasmo cinico del teschio della madre che affiora in dissolvenza dalle labbra ammiccanti del figlio, e Conrad Veidt nell’Uomo che ride di Paul Leni, del 1928, il film d’atmosfera espressionista che diede l’ispirazione decisiva ai creatori del personaggio di Joker, ossia del più virulento propagatore di sorrisi mortali. Fin dalla sua prima apparizione, in un fumetto della primavera del 1940, l’antagonista di Batman uccideva le sue vittime con un veleno capace di ricreare sui loro volti il suo stesso ghigno contratto, un po’ come l’entità misteriosa di Smile. I nostri due pazienti zero cinematografici, peraltro, erano vittime a loro volta di un salto di specie, di uno spillover dalla fauna letteraria ottocentesca: per Hitchcock l’agente patogeno era stato il sorriso mortuario tutto denti della Berenice dell’omonimo racconto di Edgar Allan Poe; per Leni, ovviamente, la fonte era il romanzo L’homme qui rit di Victor Hugo, il cui protagonista Gwynplaine ha il volto deformato in un perenne sorriso innaturale che si estende da un orecchio all’altro (bucca fissa usque ad aures, ci fa sapere Hugo).

Il cinema, i fumetti, la letteratura e non dimentichiamo il teatro – già Baudelaire, nel suo saggio sull’essenza del riso, ricordava i villain del melodramma “fatalmente segnati da una smorfia che arriva fino alle orecchie”. Nella vita reale, però, le cose sono un po’ diverse. L’etnologo Fabio Ceccarelli, autore negli anni Ottanta di quello che resta tuttora lo studio più illuminante ed enciclopedico sul tema (Sorriso e riso. Saggio di antropologia biosociale, Einaudi), si domandava in un inciso che avrebbe meritato un altro libro non meno ponderoso: “Chi, al di fuori della letteratura, può dire di aver visto un sorriso crudele?”. Per parte mia giuro di non averne visti, ma ho provato comunque a darmi una risposta. C’è senz’altro chi sorride crudelmente plagiando dalla finzione, il più delle volte per scherzo, come tra due invisibili virgolette: quanti di noi si sono divertiti a rifare il ghigno di Freddy Krueger in Nightmare? E ci sono senz’altro sorrisi crudeli procurati artificialmente con un rasoio o un coltello – il più famoso è quello dell’americana Elizabeth Short, la cosiddetta Black Dahlia, uccisa nel 1947; ma c’è pure una lunga storia d’oltre Manica, dalle gang di Glasgow negli anni Trenta agli hooligan di Chelsea negli anni Settanta, che lasciavano questo marchio sulle loro vittime. Si tratta però di faccende un po’ diverse da quelle che ci interessano. I cultori di fenomeni paranormali e di apparizioni soprannaturali registrano fin dal 1966 gli avvistamenti del Grinning Man, un uomo vestito di verde dal sorriso terrificante (l’ufologo John Keel gli dedicò un capitolo di Strange Creatures From Time and Space, del 1970), ma questo ci riporta per direttissima alla stazione di partenza, quella della finzione, delle fantasie orrorifiche e delle smorfie melodrammatiche di analoghe creature verdi come il Green Goblin di Spiderman o lo sdentatissimo Gollum del Signore degli anelli. Nella realtà il riso sardonico – formula attinta peraltro alla letteratura, e precisamente all’Odissea – è segnalato dalla scienza medica fin dai tempi di Ippocrate, ma del sorriso ha solo l’apparenza: si tratta piuttosto di un rictus, di una contrazione involontaria dei muscoli, dovuta a un avvelenamento, oppure al tetano, o comunque a una sofferenza estrema del corpo o della mente. E allora, se la vita di tutti i giorni non offre quasi mai esempi a cui ispirarsi, da dove proviene questa covata recente di sorrisi diabolici, e soprattutto perché ci inquieta tanto? Per rispondere, usciamo quel tanto che basta dalla nostra specie così fastidiosamente egocentrica e rivolgiamoci ai nostri animali domestici – i quali, essendoci familiari ed estranei, intimi e alieni allo stesso tempo, sono i signori naturali della terra di mezzo del Perturbante. Mettiamoci dunque a lezione dai cani e dai gatti.

I cani sorridono? Sembrerebbe di no. Se sono allegri scodinzolano, e quando hanno l’aria di sorridere non è certo per far festa (non per caso lo spasmo ippocratico ha avuto per secoli l’altro nome di risus caninus). Soprattutto, se incontriamo per strada un cane che sembra sorridere, guai a ricambiargli la cortesia come se avessimo incrociato una vicina di casa cerimoniosa: quella mostra di denti sarà decifrata dall’animale come una manifestazione di aggressività. L’escalation di morsi è dietro l’angolo. Forse però la domanda andrebbe capovolta: il sorriso degli umani è così diverso dal digrignare dei cani? Secondo una congettura di Konrad Lorenz che non trova consenso tra gli etologi, la differenza è grande, sì, ma si basa su una ben più grande analogia: come molti animali, gli umani mostrano i denti per minaccia, solo che nel corso dell’evoluzione il significato di questo comportamento ritualizzato ha finito per invertirsi nel suo opposto, ed è diventato un gesto di pacificazione e di saluto – la stessa carriera, insomma, di tanti simboli apotropaici o scaramantici, a partire dalle corna. Questa duplicità spiegherebbe il carattere perturbante del sorriso dentato nella letteratura e nel cinema: avvertiamo la minaccia che ribolle sotto il coperchio della rassicurazione, l’inoffensività che si fa avanti dietro l’insegna di un morso simulato. Basta cambiare di segno, e un significato civilizzato può rapidamente ribaltarsi nel suo contrario ferino.

Nella vita quotidiana ci sono tanti fattori contestuali che aiutano a sciogliere il dilemma, a orientarsi tra i segnali, a interpretare correttamente un sorriso. Ma se il contesto manca? Per sbrogliare quest’altro gomitolo tocca rivolgerci ai gatti. I gatti sorridono? Di nuovo, sembrerebbe di no: semmai, fanno le fusa. Ma tutti sappiamo che c’è almeno un gatto capace di sorridere, il Gatto del Cheshire, o Stregatto, della Alice di Lewis Carroll. Siamo di nuovo intorno a metà Ottocento, la stagione di Poe e di Hugo, insomma l’epoca d’oro del sorriso inquietante, che Baudelaire attribuiva al satanismo dell’orgoglioso spirito moderno e che, più dimessamente, lo storico Angus Trumble (A Brief History of the Smile, 2004) mette in conto ai progressi dell’odontoiatria, che resero un po’ meno grottesche le bocche in rovina degli umani. Lo Stregatto sorride, non è chiaro perché, e ogni tanto scompare lasciando soltanto un sogghigno aleggiante nell’aria. Di questo Alice è un po’ sconcertata: “Avevo visto spesso dei gatti senza sorriso”, pensa la bambina, “ma non avevo mai visto sorrisi senza gatto”.

Ragionamento impeccabile; ma noialtri, fuori dal paese delle meraviglie, ne abbiamo visti o no di sorrisi senza gatto, sorrisi cioè del tutto slegati dal loro portatore e dalle sue intenzioni? Inutile tornare con zelo antiquario a certe maschere grottesche mesopotamiche o fenicie, e alle loro derivazioni teatrali e carnevalesche, quando abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi i loro rampolli: emoticon ed emoji. Questi moderni pittogrammi, a cui si dedicano semiologi, psicologi, antropologi e linguisti, dovrebbero svolgere una funzione vitale: rimettere il gatto intorno al sorriso, o il sorriso sul muso del gatto. In altre parole, che prenderò a prestito dalla pragmatica della comunicazione, le faccine servono a ricongiungere i due livelli – il livello di contenuto e il livello di relazione, ossia ciò che diciamo esplicitamente e ciò che comunichiamo intorno al rapporto con il nostro interlocutore – impliciti in ogni scambio, riducendo per quanto possibile le ambiguità causate dall’assenza dei segnali non verbali tipici della comunicazione faccia a faccia. La frase “ti odio” può avere un senso molto diverso se accompagnata da faccine con gli occhi a cuore.

Il problema è che gli emoji sono bestiole venute dal Cheshire, e non possiamo mai esser certi delle loro intenzioni o dell’animo del gatto che le spedisce. Le stesse faccine – quella che ride a denti stretti, per esempio, o quella così esilarata che strizza gli occhi come due virgolette caporali che si danno le spalle – possono lasciarci interdetti: sono minacce o fumate di pace? Vogliono essere amichevoli oppure ostili? Quanti equivoci sbocciano, ogni giorno, intorno a queste maschere arcaiche moltiplicate sui nostri display? Gli emoji hanno risvegliato tutti i sottintesi inquietanti del sorriso, tutta la duplicità di una mezzaluna di denti allineati. E i primi ad accorgersene, come spesso accade, non sono stati i grandi registi, ma i mestieranti del cinema horror a basso budget, custodi di una vasta discarica disseminata qua e là di gemme grezze. Pochi anni prima che la Sony trasformasse gli emoji nei festosi e melliflui pupazzetti dell’inguardabile The Emoji Movie, il regista Michael J. Gallagher aveva girato un film slasher, Smiley, che di certo non era bello, ma che andava dritto al cuore del problema: a fare strage di adolescenti non era un generico psicopatico con un ghigno sadico, era un killer con addosso una maschera da emoji sorridente. Questo killer con la mortifera faccina, il cui sorriso era una larga cicatrice sanguinante, assaliva alle spalle chiunque scrivesse tre volte, in una chat, la frase “I did it for the LULZ”, l’ho fatto per le risate (LULZ è una storpiatura comune dell’acronimo LOL, laughing out loud, sto ridendo sonoramente). E dietro alla sua scia di omicidi c’era una banda di troll sadici e ridanciani sbucata dai bassifondi della rete, da quei message board umbratili e malfamati come 4Chan, gli stessi ritrovi dove sarebbe nata da lì a poco la teoria del complotto di QAnon. Il film è del 2012, l’epoca in cui le cronache registrarono le prime apparizioni di una figura particolarmente sinistra: il RIP troll, dove RIP sta per Requiescat in pace. Erano commentatori sadici e anonimi che si dedicavano a tormentare i parenti di persone scomparse in modo tragico – per lo più adolescenti suicidi o morti in incidenti – postando commenti sarcastici e meme di umor nero sulle pagine Facebook o MySpace allestite in loro memoria. Dicevano di farlo “for the LULZ”, appunto. E le loro faccine dai sorrisi spalancati non erano certo un segno di pace. Questo esercito sotterraneo di sadici sghignazzanti avrebbe, di lì a poco, accompagnato l’ascesa di un supervillain dal riso beffardo, Donald Trump.

E chissà se dietro la moltiplicazione dei sorrisi maligni nell’immaginario contemporaneo non ci sia uno smottamento sociale e antropologico più profondo di quel che pensiamo. Forse la risata, che nel lungo interludio postbellico della società opulenta e della televisione generalista, soporifera e conciliante, era stata un potente narcotico sociale, un gas esilarante che puntava a renderci rincretiniti e felici (lo diceva, a metà degli anni Ottanta, un celebre pamphlet invecchiato molto male, Divertirsi da morire di Neil Postman), si è trasformata, nell’epoca caotica e centrifuga della rete, in una forza disgregatrice e sottilmente sociopatica, una maschera al servizio di molestie più o meno anonime, il cimiero più volentieri indossato nella guerra per bande identitarie dei social network. L’ipotesi di Konrad Lorenz aiuterebbe a darsi ragione dello spettacolare ribaltamento. Ma possiamo accontentarci di volare più basso, e limitarci a decifrare i sintomi che il contagio ha depositato nella finzione. Il Joker del coloratissimo Batman televisivo degli anni Sessanta, interpretato da Cesar Romero, pareva un’innocua figurina sbalzata da una carta da gioco. Quarant’anni dopo, nel Cavaliere oscuro di Christopher Nolan e nel Joker di Todd Phillips, ha ormai i tratti sinistramente convergenti del terrorista nichilista e dello stand-up comedian. E ha cominciato a reclutare una corte di seguaci, tutti con lo stesso sorriso da orecchio a orecchio.

Guido Vitiello (Napoli, 1975), scrittore, ricercatore e docente universitario. Insegna Cinema alla Sapienza di Roma. I suoi ultimi libri sono «Una visita al Bates Motel» (Adelphi, 2019) e «Il lettore sul lettino» (Einaudi, 2021).