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Stai tranquilla: il peggio è arrivato

Se la depressione ti afferra con le sue radici nodose è difficile camminare ed è difficile vivere. A qualcuno succede a Natale. Ma c’è un film che porta con sé il sollievo del dolore universale, ed è la comprensione del mondo. Roma città aperta alle quattro del mattino

Non dimenticherò mai la scena – sono i primi minuti di Melancholia, film del 2011 scritto e diretto da Lars von Trier – in cui Kirsten Dunst, in abito da sposa, in mezzo al bosco, con un cielo apocalittico sopra di lei, cerca di camminare, passo dopo passo, con tutta la forza che ha. Mentre le radici degli alberi, che le si sono avvinghiate alle caviglie, al ventre, al seno, la tirano indietro con tutta la forza che hanno: come fossero animate. Chi ha visto Melancholia non dimenticherà mai questa immagine pura, perfetta, della depressione raccontata in pochi secondi, e nemmeno quanto si vede immediatamente dopo, il pianeta Melancholia, di un azzurro slavato, e la Terra che stanno per scontrarsi ma qui ancora non si vede. Qui sembra che si bacino.

Mentre il Preludio di Tristano e Isotta di Wagner sottolinea il ralenti di queste scene, le carica di un dolore ancora più grande. Un dolore totale che, come sempre quando il dolore è troppo grande, diventa quasi sollievo; comprensione del mondo. Finalmente.

Finalmente è successo quello che avevamo da sempre terrore accadesse. Finalmente è successo quello che sapevamo sarebbe successo. Finalmente, la cosa più terribile che poteva accadere è qui davanti a noi: ci sta cercando, sta arrivando.

Per chi, da sempre, è preparato al peggio, il materializzarsi del peggio ha un colore dolcissimo, è come un sole gigantesco, giallo oro, che illumina tutto, che ci acceca tutti, e che ci mangia tutti nella sua infinita misericordia.

In poche parole, Melancholia racconta la storia di Justine (Kirsten Dunst) che avrebbe tutto. Un lavoro bellissimo, un uomo splendido che la ama, un matrimonio che sta succedendo proprio ora, una sorella, Claire (Charlotte Gainsbourg), che le vuole molto bene. Ma lei non ce la fa. Lei è depressa di una depressione disarmante, annichilente, che ha cercato di combattere ma che adesso ha spiccato un balzo e l’ha divorata. Fa saltare il matrimonio, lascia il lavoro, e si lascerebbe morire se Claire – che come mia sorella è la sorella buona e giusta, quella che ha un marito intelligente, con una buona posizione, un figlio, e sa sempre quello che si deve fare –, tra amore e disperazione, non la tenesse in vita. Ma poi di colpo il film vira e si ribalta. Il pianeta Melancholia minaccia di impattare con la Terra. Se ciò accadesse, sarebbe la fine del mondo. Ma, molto più concretamente, molto più orrendamente, sarebbe la fine di Justine, Claire e di tutti i loro cari.

Il passaggio dal realismo della prima parte della storia alla fantasia, all’irrealtà della seconda – la minaccia universale – è una metafora pazzesca. So che sto usando tutte iperboli; ma non mi voglio limitare. Quando la melancholia, cioè il sentirsi scontenti o tristi per nessuna ragione ovvia, minaccia non più soltanto Justine ma il mondo intero, chi è integro, come sua sorella Claire (come mia sorella) si sgretola. Chi è sgretolato e da sempre inadatto si scopre lucido, potente; forse: felice. Non felice perché potrebbe arrivare la fine, questo è importantissimo. Justine, in fondo in fondo, non vuole morire. Altrimenti sarebbe morta. Felice perché finalmente questo mondo di angoscia e terrore e nebbia che lei conosce così bene ma che finora è stato solo nella sua testa, questo mondo che nessuno poteva capire (Perché sei così triste?, Non lo so!), questo mondo finalmente lo vedono tutti. Sarebbe come se un medium tormentato dalle visioni si rendesse conto che, di colpo, tutti possono vedere i morti, tutti possono vedere il fu-

turo. Tutti possono vedere dio.

La prima volta che ho visto Melancholia erano le quattro del mattino. Abitavo al Pigneto, a Roma, nella via in cui Pina di Roma città aperta, dopo essersi accorta che stanno portando via il suo Francesco, insegue la camionetta con dentro il suo uomo, urlando il suo nome, agitando la mano disperata, e viene sparata. E crolla a terra. E muore.

Io, ogni volta che tornavo a casa, pensavo a quella scena. Sono nata a Bari; non mi era mai capitato di vivere in una strada in cui si fosse fatta la storia del cinema. Mi sentivo piuttosto lusingata. Ma non era solo quello. Era che, per come stavo, per come vivevo in quei mesi, lo sparo alle spalle di quella donna mi rimbombava in testa ogni volta che camminavo per quella strada. Francesco! Francesco!, e poi quel corpo a terra.

Non riuscivo più a dormire. Non dormivo da mesi. La melancholia mi aveva preso con tutte le sue radici ossute e io avevo provato, ma non camminavo più. Quella notte, dunque, erano le quattro del mattino, le quattro del mattino di una qualsiasi delle notti di quei mesi in cui mi ero detta: basta, non ne posso più. Non voglio più essere nessuno. A un certo punto ho smesso di provare ad addormentarmi e ho acceso la luce. Avevo solo un computer portatile, nessuna tv, nessuno schermo. Non ricordo chi mi aveva consigliato di vedere Melancholia. So solo, ricordo benissimo, che ho acceso la luce, ho preso il computer, e ho visto Melancholia. In streaming, da un file sgranato, con un sonoro orrendo.

Nessuno mi aveva raccontato di cosa parlava. Non avevo idea di cosa stavo per vedere. Non succede tantissime volte nella vita di leggere un libro, di vedere un film e impazzire. Stavo per scrivere: trasecolare, o: emozionarsi così tanto, o: essere così felice. Ma la realtà è che io vedendo Melancholia sono scivolata in una sorta di trance, una sorta di illuminante follia. Mi è successo altre volte, con altri libri o film che hanno sconvolto la mia vita: Una questione privata di Beppe Fenoglio, per esempio, con quel finale perfetto di alberi che si serrano e fanno muro e Milton che, a un metro da quel muro, crolla.

Mentre guardavo Melancholia, il buio si disfaceva oltre la mia finestra e la notte si sgretolava piano piano. Cominciava a intuirsi una promessa di luce, poi qualche raggio s’infiltrava oltre il vetro, i colori pazzeschi del cielo di fuori erano un’altra declinazione dei colori pazzeschi in cui si immergeva tutto Melancholia. Morte, risurrezione, non lo so. Non so se sono morta guardando Melancholia o se sono risorta. Non so se ho sentito gli spari che trapassano la schiena di Pina di Roma città aperta o ho sentito solo un grandissimo, fiammeggiante amore. Mentre il pianeta Melancholia si avvicinava pericolosamente alla Terra e impestava il cielo, io come Justine mi sono sentita sollevata.

Sentirsi sollevati dopo che si è stati molto male è davvero la sensazione di sollevarsi dal suolo. Come Justine, galleggiavo faccia in su in un corso d’acqua limaccioso, con le mani giunte sul petto, in abito da sposa. Probabilmente morta. Quando il pianeta ha cominciato a farsi sempre più grosso in cielo, respiravo meglio. Non respirare è un’altra delle condizioni di quando non stai bene. È come se i polmoni si rimpicciolissero. Io passavo le giornate succhiando dal Ventolin, dicendomi che mi era tornata l’asma. Che era per quello che non respiravo più. Il Ventolin non mi serviva a niente, ma mentre Melancholia era diventato gigantesco, accecante, e i cavalli si imbizzarrivano, e il marito di mia sorella Claire perdeva la testa e lasciava la famiglia al suo destino, e mentre mia sorella Claire impazziva e prendeva suo figlio in braccio e correva dappertutto, gravida di questo peso, con questo bambino sempre più pesante cercando un rifugio, qualsiasi rifugio, io con Claire pensavo: dove corri? Perché ti agiti? Stai tranquilla: non c’è più nessun rifugio. E all’improvviso ero l’unica che potesse salvare qualcuno. Finalmente potevo salvare chi si era sempre arrogato il diritto di salvarmi e per questo mi aveva sempre odiato, chi mi aveva sempre guardato come una poveretta, incapace di altro se non di fare la vittima: mia sorella Claire, per esempio. D’improvviso ero serena, potente, padrona di me stessa. Sapevo cosa fare.

Mentre mia sorella Claire piangeva, io abbracciavo, con calma, mio nipote Leo, suo figlio, che era molto spaventato. “Ho paura”, mi diceva, “che il pianeta ci colpirà sicuramente”. Io lo guardavo, gli dicevo: “Non aver paura. Ti prego”. Lui: “Papà diceva che non ci sarebbe nessun posto dove nascondersi”. Io: “Se davvero ti ha detto questo, è solo perché ha dimenticato un posto”.

E quel posto lo costruivamo noi.

E poi aspettavamo che succedesse tutto.

E poi tutto succedeva, e il film finiva, ed era arrivato il giorno. E io prendevo il tabacco e le cartine e i filtri che avevo abbandonato per terra – la mia stanza pullulava di cicche spente – e mi rollavo una sigaretta e respiravo a pieni polmoni quel fumo. Finalmente, respiravo.

Avrei dovuto scrivere un articolo che passando per Melancholia e la depressione parlasse della depressione natalizia. Era così che l’avevo proposto. Era così che l’avevo pensato. Un articolo sulla famosa depressione delle feste, che ci prende tutti, chi più chi meno. Quelli a cui prende di più, quando arriva l’estate tanto agognata, quando arrivano le vacanze di Natale tanto agognate, è molto triste. Adesso che non sono più imprigionata dentro le radici nodose della melancholia – o forse è tutta una questione di imparare, e anche di sottrarsi a sé stessi, io molto spesso mi dico: basta smettila hai rotto, sei pazza, e dirlo ad alta voce mi fa sentire molto sana e molto razionale – il Natale e le vacanze estive rimangono uno scoglio difficile. Le aspetto con tutto il mio cuore ma poi quando arrivano mi capita di sentirmi così triste. Ma talmente triste. Mi sgrido anche in quel frangente, argomento, spiego: “Toni”, mi dico, “sei pazza. Goditi il mare, goditi il sole, goditi il viaggio che hai tanto voluto. Cazzo, goditelo. Sei pazza”. Capita a molti, credo. E quindi avrei voluto scrivere un articolo su questo.

Ma poi Melancholia ha liberato tutti i suoi alberi del bosco, tutte le sue radici, e mi ha legato caviglie, ventre, seno e mani, e non potevo più scrivere di altro. E ho visto il pianeta che baciava la Terra, e il vento che si alzava, e con Justine, Claire e Leo mi sono riparata nel rifugio fatto di pochi rami di alberi che abbiamo costruito. Abbiamo aspettato insieme, non avevamo più paura. E poi è arrivata la luce.

Antonella Lattanzi (Bari, 1979), scrittrice e sceneggiatrice. I suoi ultimi libri sono “Devozione” (Einaudi, 2010), “Prima che tu mi tradisca” (Einaudi, 2013), “Una storia nera” (Mondadori, 2017), “Questo giorno che incombe” (HarperCollins, 2021) e “Salvarsi”, (Einaudi, Quanti, 2021). Il suo ultimo racconto è nell’antologia “Willie lo Strambo” (Sperling & Kupfer), ora in libreria.