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Sul traghetto che non salpa mai. E poi si scende

Nelle case di cura siamo tutti rinati a una seconda vita, dopo settimane in cui siamo invecchiati cent’anni. Rigenerarsi, all’inizio, ha la consistenza di un miraggio, le lancette sono immobili. Il paesaggio oltre il balcone fa tornare alla mente Thomas Mann, Alberto Moravia e Suso, da fuori, che scrive a Lele: «Se proprio potessi fare quel che mi sembra perfetto, vorrei venire a rapirti»

«Ti recano la minestra di mezzogiorno come te l’hanno recata ieri e come te la recheranno domani. E nello stesso istante qualcosa ti investe, non sai come né da dove: è un senso di vertigine, mentre vedi arrivare la minestra, le forme del tempo ti si confondono, confluiscono una nell’altra».

(Thomas Mann, La montagna incantata)

Un cartello indica la sala per la ginnastica respiratoria, più in là un avviso promuove un pacchetto di tre massaggi agli arti inferiori a quarantanove euro e un trattamento anti age a trentanove. Altre indicazioni portano alla palestra cardio, agli ambulatori per le radiografie, agli studi per gli ecocardiogrammi. Abbiamo lasciato i letti d’ospedale tramortiti, le ambulanze ci hanno catapultato in camere con finestre molto più ampie, affacciate sulle montagne: un centro di riabilitazione cardiaca in Trentino, a pochi passi dal Lago di Garda. Se fosse un film ci avrebbero anche bendato per esasperare il disorientamento. Nei corridoi si aggira un esercito di persone che si è lasciato alle spalle la catastrofe e con una luce negli occhi desidera riprendere una vita normale. La casa di cura è un ospedale senza la dimensione tragica: tornano le serrature nelle porte dei bagni, nessuno dà per scontato di trovarci riversi sulle mattonelle. Silenziati pianti e rantolii notturni, lontani dalle sale operatorie, sono spariti anche i corpi sotto coperte marroni spinti lungo corridoi di luce artificiale. Si è abituati a pensare all’inferno come una condizione irreversibile, invece abbiamo trovato un’inversione di marcia e siamo riemersi qui. All’arrivo, la prima impressione della casa di cura, dove dovremmo passare due settimane, è che ricorda le lunghe traversate in traghetto. A guardarsi in giro infatti l’unica attività sembra: ammazzare il tempo. Seduti su poltroncine di pelle o appoggiati al muro, uomini nerboruti in bermuda sportivi – molte vene sono state sfilate dalle gambe – chiacchierano o cercano l’equilibrio; figure che con la coda dell’occhio abbiamo intercettato d’estate a manovrare escavatrici o spostare covoni di fieno ora mostrano un’improvvisa fragilità. Davanti alle stanze, di solito da due o tre letti, ci si imbatte in gruppetti di donne con ferite sul petto prese in conversazioni dominate da temi medici, fibrillazioni, bypass, anestesie. I rari giovani o le giovanissime arrancano nelle aree comuni, tra stampelle e sedie a rotelle, accarezzando i corrimano, spossatezza e speranza convivono sui volti di tutti, senza eccezioni. Il primo piano è riservato ai pazienti di ortopedia, il terzo è per quelli di neurochirurgia, qui al secondo si avvicendano malati di patologie cardiache. Nelle ultime settimane siamo invecchiati cento anni, ma dentro ci sentiamo creature nuove. Siamo tutti Lazzaro, miracolati, rinati a una seconda vita – ci vuole tempo per realizzare che l’ospedale è sì un inferno ma anche un grembo – molti raccontano di aver perso i sensi durante una camminata, malesseri improvvisi insorti in un bosco o alla guida dell’auto, corse in ospedale, diagnosi ferali, l’aiuto provvidenziale di qualcuno che passava da una strada desolata. Anche le lancette scorrono con la stessa indolenza dei traghetti. Solo che questo traghetto di tre piani non ha motori. È immobile. Non salpa e non arriverà mai in nessun porto, eppure ci guardiamo bene dal farlo notare agli altri passeggeri. Da quando sono a bordo, infatti, non ci siamo ancora mossi.

Nella Montagna incantata, pubblicato esattamente un secolo fa, c’è scritto che nel sanatorio «non si aveva l’impressione di trovarsi in un luogo di dolore». Tante dinamiche sono le stesse di oggi. Hans Castorp pensa di tornare subito a casa: «Aspetta sei appena arrivato», gli dicono, «per noi quassù tre settimane non sono niente». La visita del protagonista al cugino si trasformerà in una permanenza di sette anni. Gli ospiti del sanatorio si lamentano della fiacchezza e le donne chiacchierano con le mani affondate nelle tasche: «Si parlava del tempo, di come si era dormito, della temperatura che si era misurata in bocca la mattina».

Nelle case di cura si accede spesso con telecamere nascoste, blitz per denunciare vecchietti seviziati, infermieri assassini, condizioni igieniche da magistratura. Sono state sotto ai riflettori mentre esplodevano di Covid. Ma come sono di solito? Come trascorre il tempo alla fine dell’inverno? Qui ad Arco veniamo accompagnati in un cammino di rigenerazione, inizialmente con la consistenza del miraggio. A parte il cuore, i polmoni sono stremati, nelle poche ore di sala operatoria ogni organo ha disimparato il suo compito, le gambe tremano, la testa gira, gli occhi vedono doppio, la memoria fa cilecca, l’equilibrio è intermittente, i muscoli si sono ammutinati. Le giornate scorrono cadenzate da piccoli riti, pasticche da mandare giù, respiri profondi, raggi al torace, turni degli infermieri, l’andare e venire del parlottio, neon spenti e neon accesi sostituiscono il sorgere del sole e della luna. Chi è qui da più giorni monta sui tapis roulant o sulle cyclette. L’unica incursione nella realtà è l’orario di visite, quando si torna a parlare di vita reale, addirittura di traffico, autostrade, elezioni, piste da sci, o persino di libri.

Infermieri, operatori socio-sanitari, caposala, dottori e primari ci spronano, ci incoraggiano, se non riusciamo ad alzarci dal letto ci sollevano, se non riusciamo a camminare ci sostengono, se non siamo in grado di lavarci ci lavano, ci infilano i pigiami, ci medicano le ferite, ci tolgono i punti, ci misurano la febbre, monitorano giorno e notte la frequenza dei battiti e accorrono appena il cuore esce dal ritmo. Solo di notte le figure lungo i corridoi assumono un’aria spettrale.

Arco, in Trentino, ha sprigionato benessere da sempre. A fine Ottocento attira malati dell’impero asburgico. Scendendo dal nord Europa è la prima zona in cui i polmoni trovano aria mediterranea mite e salubre. Nel 1901 apre il primo sanatorio, il San Pancrazio, con bagni di sole, aria e luce. Oltre la finestra, si muovono ancora gli stessi rami di larici e nespoli, palme e nuvole bianche non hanno mai smesso di accarezzarsi. Le montagne con vette innevate cascano su una vegetazione di appena novanta metri sul livello del mare. Le temperature non sono mai rigide. La dolcezza del paesaggio e del meteo – un tepore che d’estate esplode in un’atmosfera sciropposa – delimitano un regno ibrido, un paesaggio alpino con alberi di limoni, dove ogni giorno si può scegliere se tuffarsi nelle acque blu del Garda o andare a cercare porcini. Oggi il turismo è composto da appassionati di sport, mountain bike, arrampicata, sci d’acqua o trekking, nella sfilza di negozi sportivi salgono fino al soffitto pareti foderate di corde e moschettoni, ci si può aggirare ore tra scarpette da scoglio, magliette termiche e mute da windsurf. Nel Dopoguerra riaprono o si ingrandiscono i sanatori, spesso nascono in edifici di alberghi, con verande e spazi verdi, sempre grandi vetrate rivolte a sud e terrazze per respirare sulle sdraio. Le strutture negli anni Cinquanta sono una trentina e ospitano circa tremila malati (la metà dei cittadini di Arco). Negli anni Sessanta, con la diffusione delle terapie antibiotiche, il numero delle strutture si riduce.

Il paesaggio oltre il balcone fa tornare alla mente vicende letterarie legate ai luoghi di cura e all’aria prodigiosa delle montagne. A dodici anni, Alberto Moravia trascorre la maggior parte del tempo a letto, con un gesso dal torace al piede. Ha la tubercolosi, è colpita anche l’anca destra. Viene ricoverato il 1° giugno del 1924, all’istituto elioterapico Codivilla di Cortina d’Ampezzo, ancora in fase di realizzazione (a Roma, per salire sul treno per Cortina, lo infilano dal finestrino). Rimane lì quasi un anno, lungo e intenso, tanto che considererà la condizione di malato «il fatto più importante della mia vita». La cartella clinica lo descrive come «deperito, pallido, senza appetito, molto addolorato». Presto però l’umore migliora e inizia la terapia climatica. Trasferiscono il letto in una delle balconate rivolte a sud, la pelle viene sanata dai raggi solari. È nudo, a parte una specie di pannolino e lenti per proteggere gli occhi. Alle undici di mattina il sole è così forte che lo riportano in camera. Il pranzo è all’una, i pomeriggi sono interminabili, alle dieci un’infermiera gli dà la buonanotte. Legge Dostoevskij, Tolstoj, Dickens, Flaubert e Balzac: «Alle quattro era già buio, accendevo una luce sul comodino e andavo avanti a leggere fino a notte». Butta giù novelle, poesie, lettere, abbozza un romanzo. Intorno, le montagne: «Non c’è bellezza né grandezza in queste montagne dall’aspetto triste». Condivide la camera con un viaggiatore di commercio, che ispirerà il racconto Inverno di malato, del 1930, dove non mancano i malati in terrazza avvolti nelle coperte: «Persino le piaghe, le fistole, gli ascessi che qua e là deformavano quelle membra inerti, parevano meno ripugnanti nella bella luce del mattino invernale».

Tra il 1928 e il 1930 Salvatore Satta narra i giorni in sanatorio nel libro La veranda (Adelphi). Marino Moretti ne resta folgorato, è convinto di aver trovato la versione italiana della Montagna incantata, ma smarrisce il manoscritto (sarà ritrovato dopo la morte di Satta). Se si esclude Il freddo di Thomas Bernhard, con sputacchiere, brande arrugginite, coperte che sanno di muffa, e infinita disperazione, il libro di Satta è il più cupo tra quelli che raccontano i sanatori. Malato di tisi, aveva conosciuto quello di Merano: «La veranda comune si stende lungo tutta la facciata del sanatorio. (…) Durante le ore di sdraio si deve parlare il meno possibile, e sempre a voce bassa. Con la diligenza di un neofita mi sono insaccato nelle coperte, e guardo da un quarto d’ora il soffitto».

Qualche decennio dopo Cortina, Moravia è citato nelle lettere scritte da Suso Cecchi d’Amico al marito, Fedele d’Amico, ricoverato con la tubercolosi nel sanatorio di Arosa, in Svizzera. Fedele rimane tra i monti più di un anno, lei gli scrive ogni giorno. Il carteggio è raccolto nel libro curato dai figli Silvia e Masolino d’Amico, Suso a Lele. Lettere (dicembre 1945-marzo 1947) (Bompiani). Suso collaborerà a una serie di capolavori, I soliti ignoti, Miracolo a Milano, Il Gattopardo, Senso. Nelle lettere traboccanti affetto, nostalgia e attesa
– «Mi hanno detto che Arosa è dalla parte opposta della Svizzera. Io non ho voluto guardare la carta. Mi piace immaginarti più vicino amore caro» – rivolge al marito le domande classiche, con chi è in camera, se il posto è bello, se dorme, quanto dovrà restare: «Vorrei come ti ho detto che tu cercassi di farti un’idea di quanto (grossissimo modo) durerà il tuo soggiorno questo non per metterti fretta amore ma già che abbiamo fatto questo sacrificio di lontananza facciamolo in modo che non si abbia a replicare». Come avviene per Hans Castorp, Moravia e Bernhard, più i mesi passano, più la solitudine si fa dura, «se proprio potessi fare quel che mi sembra perfetto vorrei venire a rapirti».

Come il sanatorio, anche la casa di cura è un guscio. Due timori contrari lottano nello spirito negli ospiti. La paura che i tempi si allunghino e il timore di tornare a casa. La parola dimissioni è la più ambita e la più spaventosa. Esiste infatti la segreta seduzione dell’inerzia, il richiamo del letargo, la sindrome di Hans Castorp imbrigliato nel sanatorio: «E lei è sempre stato qui?», gli chiede la donna affascinante tornata dopo un periodo di lontananza. «Sì. In attesa». «Di che cosa?». «Di te».

Le speranze condivise, la sofferenza e la fragilità tessono legami tra i pazienti. Il clima di confessioni, intimità e solidarietà rende evidente che i malati formano un unico corpo. Nel pomeriggio di Arco ci si riunisce al piano -1 per il corso Tecniche di rilassamento. Nella penombra, stesi in circolo su comodissime sdraio di plastica compaiono finalmente le coperte di lana: ecco il momento Montagna incantata. La dottoressa conduce l’incantesimo e qualcuno si addormenta. Al termine, legge email spedite da chi ci ha preceduti, con gratitudine per le cure ricevute.

Il traghetto, sul quale non ci saremmo mai immaginati di salire, non approda da nessuna parte. Eppure, arriva per tutti il momento di scendere. L’annuncio si irradia su tutta la comunità. Le lancette tornano alla loro velocità, i battiti riprenderanno il loro ritmo. Scrive Suso a Lele: «È che a volte stupidamente mi viene il panico che tu non arrivi. E allora vorrei saltare i giorni che ci dividono solo per essere sicura che arrivi e che il quartetto si può ricomporre al completo. Finché non ci vedo tutti e quattro insieme non sto tranquilla».

Francesco Longo (Roma, 1978), scrittore e giornalista. I suoi ultimi libri sono «Molto mossi gli altri mari» (Bollati Boringhieri, 2019) e «Il cuore dentro alle scarpe» (66thand2nd, 2022).