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Super classifica show degli psicofarmaci

Al liceo nelle lettere della Chicca incontrai il Prozac. Poi c’è stata la moda dello Xanax, del Rivotril, oggi il Lyrica. Catalogo chimico e sentimentale di valli delle bambole per afflitti e insonni, con una verità non universalmente riconosciuta: se non ti stanchi non dormi
di Guia Soncini
illustrazioni di Makkox

Più delle canzoni di Sanremo, più delle citazioni di Cinque pezzi facili che ripeteva il tenebroso che mi piaceva, più di Molière scoperto via Sordi e che nessuna prof di letteratura francese poteva convincermi non fosse romano, io di quand’ero minorenne ricordo a memoria le lettere d’amore della Chicca. Non importa a chi fossero indirizzate: le prendevo, cambiavo i nomi, e scrivevo pezzi di vita sua a quelli che mi piacevano. C’è chi è cresciuto plagiando Hermann Hesse, chi Giana Anguissola, chi Dylan Dog: io sono cresciuta plagiando la Chicca. È perciò con la sicurezza con cui si ripetono le poesie imparate alle medie che ricordo il rigo da cui appresi l’esistenza del Prozac. “Bye-bye blues, la chiamano: la medicina degli afflitti”. Eravamo al secondo anno di liceo, e i giornali parlavano della messa in commercio in America di una capsula che rendeva superflua la psicanalisi, liberandoti dall’infanzia infelice. (Negli anni Ottanta la psicanalisi era un feticismo di pertinenza soltanto di noi adolescenti e di Woody Allen: tutti gli altri erano adulti).

Col senno di poi, il suggestivo “bye-bye blues” indicava che la Chicca avesse letto Vittorio Zucconi o simili, ma all’epoca non approfondii (non approfondivo mai, mi limitavo a trascrivere; è stato così che da grandi siamo diventate io una cialtrona e lei una psichiatra). Se l’avessi fatto, avrei scoperto cosa intendeva la Tea Guerrazzi, il personaggio di Eleonora Giorgi in Sapore di mare 2, quando sospirava “pillole per dormire, pillole per stare sveglie”: da piccola pensavo fosse una trovatina di ritmo del dialogo, a casa mia esistevano soltanto le pillole per dormire.

Mia madre non aveva mai visto un mattino, almeno non negli anni in cui mi era stato dato di frequentarla. Ricordo blandi tentativi di mio padre di spiegarle che il sonnifero doveva prenderlo presto, se lo prendeva a mezzanotte passata poi per forza le faceva effetto tardi, e lei che sbuffava. Avanzamento veloce d’una trentina d’anni, e sono da una dottoressa della mutua per farmi fare non so più che ricette. Butto lì che non dormo da giorni, settimane, forse secoli. Lei mi dice le do qualcosa, io dico no per carità non voglio fare la fine di mia madre rincoglionita tutto il giorno, lei mi dice ma sua madre avrà preso dei barbiturici, mica sono più gli anni Settanta. Sono gli anni Dieci, e a Milano prendono tutte lo Xanax. Ma tutte tutte tutte. Hanno con lo Xanax il rapporto che la me cinquenne aveva con la Citrosodina: esistesse anche di quello un barattolone, ci si attaccherebbero come facevo io al barattolone bianco e giallo. Il medico della mutua mi dà lo Xanax. Che non è neanche un sonnifero, ma evidentemente lei pensa io sia ansiosa. Però non me lo dice, altrimenti la ammorberei con la mia citazione preferita.

Nello sceneggiato televisivo che mi avrebbe insegnato a vivere se fossi stata capace di apprendere, West Wing, a un certo punto il presidente degli Stati Uniti non dorme. Fanno arrivare uno psichiatra che lo visiti in gran segreto, quello gli fa tutte le domande che possano escludere cause fisiologiche, ambientali, sarcazzo, e poi arriva a: stress. Il personaggio di finzione in cui mi sia più immedesimata nella vita è un cattolico premio Nobel per l’Economia e presidente degli Stati Uniti, e credo questo spieghi bene la mia diffidenza nei confronti dell’identitarismo. Allo psichiatra, Josiah Bartlet detto Jed sbuffa: “Non mi piace la parola stress, è una parola da Madison Avenue, una roba che si cura con caffè aromatizzati e lunghi bagni caldi” (“Madison Avenue” era “Ztl” prima che con “Ztl” credessimo d’inventarci qualcosa).

Insomma la dottoressa mi dà un ansiolitico, e non un ipnotico, perché pensa non dorma perché ho uno straccio di preoccupazione, uno straccio di coscienza, uno straccio di superio. Ma io so che aveva ragione mio padre, in quella primavera in cui da giovane lamentavo di far fatica ad addormentarmi (poi ci torniamo): non dormi perché di giorno non ti stanchi. A Madison Avenue raramente zappiamo la terra, ci resta un sacco di tempo e spazio per dichiararci malati d’ansia e bisognosi di psicanalisi.

Oppure la dottoressa mi dà un ansiolitico e non un ipnotico perché i farmaci vanno a mode, che è il dubbio partendo dal quale mi sono messa a scrivere queste pagine – ma poi arriviamo pure a questo. Fatto sta che vado a casa e, col terrore di finire come mia madre, tiro fuori il bugiardino e mi metto a leggere. Nel momento in cui scrivo è l’autunno 2022, sono passati suppergiù dieci anni da quella sera, e io ho ovviamente dello Xanax in casa, ma non vado a controllare. Non vado a controllare perché tra la verità e una bella storia non sceglierò mai la verità (spesso neanche tra la verità e una storia media). Non vado a controllare perché per me il bugiardino dello Xanax conterrà sempre quella frase, e se è un falso ricordo non lo voglio sapere. Ho quarant’anni, apro la mia prima scatola di Xanax e il bugiardino si raccomanda di prenderlo solo quando si è già a letto, altrimenti si rischia di addormentarsi nel tragitto fra dove si è ingoiata la pastiglia e il letto. (Mentre scrivo mi viene il dubbio che in realtà questa raccomandazione stesse nel bugiardino dello Stilnox, al quale il medico passò quando le dissi che non dormivo neanche con lo Xanax; è per questo che odio scrivere per i giornali: ti fanno venire lo scrupolo di controllare, e ti si rovinano gli angoli della sceneggiatura in cui avevi incastrato la tua vita).

Il fatto che fossi andata da una dottoressa a farmi fare la ricetta vi dà la misura della mia adultità e della mia distanza dall’armadio marròn. Nel tinello della casa in cui sono cresciuta c’era un armadio a muro marròn. Orrendo, a ripensarci, ma quando sei piccola tutto quello che ti circonda ti sembra normale. L’armadio a muro aveva una parte gigantesca superiore, una più piccina inferiore, e a separare le due parti c’era un ripiano sul quale stava il televisore. Nella parte inferiore c’erano le carte da pacchi usate, quelle che nel Novecento si conservavano per riciclare i regali: li aprivi stando attenta a non rovinare la carta, così quando dovevi impacchettare qualcosa per un regalo a qualcuno di cui non t’importava avevi carta come nuova e dovevi solo procurarti il nastro adesivo. Questo mondo ha iniziato ad andare a rotoli quando nelle case ha smesso d’esserci l’anta della carta da regali usata – ma non divaghiamo. La parte superiore dell’armadio era quella dei medicinali. C’era qualunque cosa. Ho, nella cesta delle medicine dei miei cinquant’anni, una scatola di Narcan scaduta quando ne avevo ventidue, a perpetua memoria del mio delirio d’onnipotenza. Il Narcan è il medicinale che si somministra d’urgenza agli eroinomani in overdose. Considerato che sono una delle dodici persone nate negli anni Settanta che da giovani non si facevano neanche le canne; considerato che sono riuscita a vivere a Bologna fin quasi a diciannove anni senza mai incrociare un eroinomane (ed era la Bologna degli anni Settanta e Ottanta: era più facile crescere nel paese di Heidi senza mai incontrare una mucca); e considerato che se vedo un ago svengo, sa il cielo cosa me ne facessi di fiale da somministrare endovena a gente in overdose. Ma, se hai un armadio di medicinali a disposizione e vent’anni d’età, te li porti via comunque. Per non parlare dei ricettari.

La differenza tra la mia amica preferita dei vent’anni, D., e la mia amica preferita dei cinquanta, L., è che D. non viene da una famiglia di medici: trent’anni dopo, ancora racconta con gli occhioni sgranati come le mie case romane fossero piene di ricettari in bianco. Quelli di mio padre, e persino quelli della mutua: il medico di base dei miei era un amico di famiglia, e invece di far incomodare la segretaria a compilare ricette lasciava un comodo blocco in bianco a casa dei miei; blocco che io facevo sparire senza che nessuno si facesse domande (che io non sia diventata eroinomane è la prova definitiva che non ci sono premure genitoriali che possano prevenire i disastri: i figli crescono completamente a caso in un senso o nell’altro, a volte gli dai accesso a tutti i mezzi per diventare tossicodipendenti e quelli al massimo si comprano le pasticche per l’emicrania). L., che è figlia d’uno psichiatra, sa che la diaspora dei ricettari dall’armadio marròn di Bologna al disordine delle mie varie residenze romane non era l’eccezione: ogni volta che sospiriamo quanto la nostra sia la più fessa generazione di genitori della storia del mondo, L. aggiunge che però anche i nostri padri non è che fossero sveglissimi, a non chiudere a chiave i ricettari.

Quando tutti i giornali americani cominciano a parlare di Elizabeth Wurtzel, ho a stento ventidue anni, sono convinta d’essere un’adulta, e un nuovo dettaglio soppianta il “bye-bye blues” della Chicca: il Prozac in America è prescritto per curare la bulimia, è il primo antidepressivo che faccia dimagrire, è l’anoressizzante perfetto per chi ha abbastanza vent’anni da voler solo essere magra ma non ha abbastanza disciplina da mettersi a dieta. Non osta che in Italia non sia catalogato come medicinale per la bulimia – e comunque io mica sono bulimica; mi piace mangiare, ma sono troppo pigra per vomitare: se è un disturbo clinico, devono ancora trovargli un nome; in compenso per noialtri c’è un girone dantesco – giacché io possiedo molteplici ricettari, nessuna fiducia nelle regolamentazioni farmaceutiche locali, e una certa qual inventiva nel comporre le indicazioni sulle ricette. Guardala com’è magra, l’autrice, sulla copertina di Prozac Nation: scrivo “depressione” sulla ricetta, e vedrai che anch’io; tecnicamente, non è neanche una balla: portare la 44 è deprimente. (Ho preso tre Prozac al giorno – la dose massima, quella per i bulimici gravi – per qualche mese: non sono mai più stata così magra, non ho mai più dormito così niente. Da cui: “E’ perché di giorno non ti stanchi”. Poi ho smesso, senza che nessuno sapesse neanche che avevo cominciato, senza soffrire particolarmente del décalage, e senza vent’anni dopo scrivere un dolente memoir sulla mia stagione da dipendente dagli psicofarmaci; ho smesso invece di morirne o di diventare una tossica irredimibile. Si cresce a caso e si muore a caso; nel mio caso, più di tutto, si vive a caso).

“Certo: sua madre prendeva il Dalmadorm”. Quelli che hanno imparato a leggere con Topolino direbbero: sbam. Quelli che hanno imparato a scrivere col Giovane Holden direbbero: stecchita. Io dico che è come se un camionista francese di nome Marcel mi avesse investita con un tir di girelle Motta. Quando il neurologo con cui sono al telefono per scrivere queste pagine mi dice quel nome che non mi sarei mai ricordata, vedo tutto: la scatola con quella grafica anni Settanta, l’aria confusa con cui mia madre firmava qualunque giustificazione “non ha studiato per motivi familiari” le infilassi nel letto al ritorno da scuola, quand’era appena sveglia, e anche il rigore della sua pianificazione. “Il Dalmadorm ha un’emivita di venti ore”, mi spiega il neurologo quando gli illustro i miei avvincentissimi traumi e la mia renitenza a prendere sonniferi, e io capisco il genio: lo prendeva a mezzanotte, dormiva dalle due all’ora di pranzo, tornava lucida giusto in tempo per andare a cena fuori. Una vita in vacanza, una vecchia che balla.

Il neurologo l’ho chiamato perché a un certo punto tutti quelli che prendevano lo Xanax hanno cominciato a prendere il Rivotril, e non riuscivo a capire perché un antiepilettico fosse diventato il sonnifero d’elezione di tutti i miei conoscenti. Ho chiesto un po’ in giro, come avevo fatto nel 2014, quando avevo deciso di scrivere un romanzo sulla consuetudine con lo Xanax. Volevo scrivere una protagonista che prendesse una tale quantità di benzodiazepine da sembrare The Wolf of Wall Street a chiunque vivesse fuori dalla cerchia dei bastioni, e normale a chiunque fosse uso alle abitudini indigene della borghesia milanese. Ma non prendevo goccine e non mi fidavo dei dosaggi riferiti dalle mie conoscenti, quindi avevo contattato qualche psichiatra per sapere quante fargliene prendere senza rendere implausibile che restasse viva; quasi nessuno aveva creduto alla mia ricerca a scopo di romanzo, quasi tutti avevano creduto stessi cercando di farmi prescrivere psicofarmaci. Otto anni dopo, domando a conoscenti di questa mania del Rivotril e si premurano: vuoi una ricetta, ho il farmacista amico, guarda io prendo il Lyrica che è pure meglio. Dice Google che anche il Lyrica è un antiepilettico. E quindi chiamo il neurologo.

Esco dalla conversazione con un sacco di appunti che dieci secondi dopo aver riattaccato già non riesco più a capire. Sta arrivando il Daridorexant, dice, che è un vero sonnifero. Non un ansiolitico, non un anticonvulsivo, non uno di quelli che prendono le mie amiche e che lui stronca senza pietà (Minias: “Uno dei farmaci peggiori in termini di tolleranza e dipendenze, ho avuto una paziente che ne prendeva tre o quattro boccette al giorno”; Tavor: “Non il farmaco ideale per dormire, ma è inutile dirlo: continuano a prenderlo per anni”).

Ma scusi, sono passati cinquantacinque anni dalla Valle delle bambole e ancora non avevamo un farmaco che, invece di addormentarti come effetto secondario, fosse pensato apposta per farti dormire? E’ lì che il professore mi sopravvaluta, e si mette a spiegarmi le zeta drugs (cioè quello Stilnox che ho preso senza dormire per un po’, in compenso ho scoperto che Courtney Love è un’attendibilissima cronista di psicofarmaci; ti vengono davvero le allucinazioni, non dormivo ma vedevo finestre che si aprivano, non dormivo e neppure ho scritto Celebrity Skin: certe insonnie sono più inutili di altre). Agiscono sul sistema GABA, mi spiega com’io fossi in grado di capire (roba di corteccia cerebrale). Invece queste nuove goccine, loro “agiscono sui recettori dell’orexina, neuromediatore della veglia” (immaginatevi me che trascrivo parole in lingue ignote), e insomma “non si crea sedazione ma si blocca il sistema della veglia”. Ah, tipo dispetto: se non riesco a farti dormire t’impedirò di tenere gli occhi aperti. Quell’effetto che a Roma si chiama “cecagna”, che danno i pranzi pesanti o i film brutti: sei sul divano e non riesci a non far cascare il mento sul petto, magari sei pure in compagnia e ti ritrovi a russare.

Sì, ma io dal professore volevo sapere delle mode cambiate tra i miei vent’anni e i miei cinquanta, ma anche tra i miei quaranta e i miei cinquanta. Com’è che negli anni Novanta volevamo risollevarci col Prozac e ora vogliamo dormire un po’ con tutto (è anche antintuitivo: non abbiamo più bisogno di tirarci su ora?); com’è che prima prendevano tutti lo Xanax e ora il Rivotril. Lui prima nega sia una questione di mode; poi dice che sì, i pazienti chiedono quello che sta prendendo l’amico; poi sbotta, si trattava solo di trovare la parola che gli facesse perdere la pazienza, e la sua è: Lyrica.

“Certo che prendono tutti il Lyrica, perché è il medicinale che si usa per la fibromialgia, che è una malattia che non esiste”. Come sarebbe non esiste, scusi, ogni giorno su Instagram c’è qualcheduno cui l’hanno diagnosticata. “Se lei ha il diabete ha la glicemia alta. Se lei ha l’ipertensione ha la pressione alta. Se ha la fibromialgia cos’ha? Che le fa male se la tocco? E’ una diagnosi da disperazione. Le pare possibile che uno su tre di quelli che vedo io abbia la fibromialgia?”.

Mi par di capire che con gli psicofarmaci valga quel che vale negli altri settori: ci vuole fortuna. La fortuna d’avere l’età in cui si seguono le mode quando le mode sono meno sceme. Vuoi mettere avere vent’anni quando va di moda la capsula che ti leva dal cervello l’infanzia infelice, e averla quando va quella che ti libera dai crampi? Che letteratura puoi mai fare, sui crampi? “Dieci, quindici anni fa andavano molto di moda gli attacchi di panico”, dice il professore, e io penso che spreco: vuoi mettere come sarebbe stata instagrammabile l’infelicità da attacchi di panico, rispetto a quella da malati immaginari senza uno straccio di commediografo all’altezza.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).