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Ti affido i segreti del mio mestiere

Walter Sirtori della storica macelleria milanese in via Paolo Sarpi ha consegnato a Hujian Zhou, della famosa Ravioleria, il futuro della sua bottega. Moulaye Nyang, senegalese, è riuscito a farsi strada tra i mastri vetrai di Murano, a Venezia. Cosa cambia in città, quando l’inclusione si crea in notti insonni a studiare spiedoni di manzo

Sono assolutamente favorevole a far scendere la tradizione a un compromesso per una buona causa, ma forse in queste situazioni la tradizione, più che compromettersi, si realizza appieno.
Jonathan Safran Foer, Se niente importa

Nel retrobottega della Macelleria Sirtori a Milano, una delle botteghe che sono meno cambiate nella via che è più cambiata della città, via Paolo Sarpi, Walter Sirtori ha compiuto da poco ottant’anni. Lui di politiche di immigrazione e strategie di integrazione non sa niente, ma potrebbe parlare per ore di allevamenti biologici e biodinamici, di come si disossa una faraona e delle idee che gli sono venute per la bottega (vetrina davanti o bancone? Interrogativo su cui si arrovella e che mi ha sviscerato in tutte le sue possibilità). Cotolette, lombatine, fuselli, non c’è carne che “il Walter” non conosca. Da lui, da sempre, vanno le signore milanesi a prendere l’ossobuco e a farsi consigliare un buon taglio per il bollito. Beviamo un tè su seggioline piccolissime nel retrobottega della macelleria che porta il suo nome. Walter alza la tazzina e sorride. Ha a che fare tutto il giorno con pezzi di carne e coltelli ed è un signore vestito con semplice eleganza, garbato, intelligente e gentile. I segreti della sua bottega se li poteva tenere per sé, invece ha deciso di condividerli con un giovane che otto anni fa gli si è parato davanti chiedendogli cosa ne pensasse della sua idea di aprire una bottega lì a fianco. Non un posto qualunque, ma una bottega di street food di qualità: ravioli. A Walter sono brillati gli occhi, perché, dice, “la gente è gente, la differenza è che tipo di gente è”.

Walter ama la qualità dei prodotti, ha una passione per il suo lavoro, va a trovare i fornitori, a conoscere i macelli dove viene lavorata la sua carne. Così ha accolto con entusiasmo l’idea di quel giovane uomo, che ha la metà degli anni di Walter, si chiama Hujian Zhou, detto Agie, è arrivato in Italia dalla Cina quando ne aveva 14 e si affacciava all’adolescenza. Agie, che quando andava alle medie parlava un italiano incerto ma poi si è laureato alla Bocconi, ha aperto la Ravioleria nel 2015 e si è affidato per la carne ai consigli di Walter. Da allora Walter e Agie sono grandi amici, discutono, progettano, si confrontano, si scambiano i libri e vanno in vacanza assieme, con le loro famiglie. Quando Walter ha deciso di andare in pensione, qualche mese fa, ha pensato subito che nessuno meglio di Agie potesse andare avanti. “E’ stata una decisione naturale cedere a lui la bottega”, dice. Mentre parla la mano di Agie stringe protettiva la spalla di Walter, che a sua volta poggia la sua mano su quella dell’amico. Sembrano padre e figlio, si assomigliano pure, hanno gli stessi modi cortesi, gli stessi occhi sorridenti e la stessa passione per il lavoro. “E’ vero – spiega Walter – Lo guardo e mi rivedo. Lui è come me. Gli racconto di quando ero ragazzo e lui mi parla di quando i suoi nonni in Cina gli spiegavano come fare i ravioli. Ho iniziato in bottega dai miei genitori, avevo 15 anni e andavo a fare le consegne, poi lavavo i pavimenti. E se non rigavo dritto i miei genitori erano molto severi”. “Esattamente ciò che accade nelle famiglie cinesi”, dice Agie ridendo. “E poi ha una grande passione per il lavoro – aggiunge Walter – per il Capodanno cinese è stato sveglio una notte intera per pensare a cosa fare di speciale. S’è inventato uno spiedone di manzo che è andato a ruba”.

Sorseggiamo il tè cinese seduti sulle seggioline che venivano usate dalle nipoti di Walter quando stavano in bottega. Sopra di noi svolazza una signora bionda sorridente che assomiglia a Virna Lisi, ma con il camice da lavoro e i capelli raccolti. Pare indaffarata e indifferente ai nostri discorsi, ma in realtà – è chiaro – è lei che tiene le redini e supervisiona quello che accade. È la moglie di Walter, Silvia, che lavora con lui e “ha dato una direzione alla mia vita, da lei ho imparato tantissimo”, dice Walter. Agie annuisce. Anche se Walter Sirtori ha ceduto la sua attività ad Agie, lui e la moglie Silvia resteranno in bottega e il negozio continuerà a chiamarsi Macelleria Walter Sirtori. “Ma non avrò più incombenze fiscali, amministrative e burocratiche”, spiega Walter. Agie è ben contento di avere Walter a fianco. “Perché mi ha insegnato tanto, gli devo molto”, dice, “e anche Silvia, è fondamentale la sua presenza”.

A Milano lo conoscono tutti, il Walter, la sua macelleria è rimasta la sola bottega storica della carne in via Paolo Sarpi. “Negli anni Settanta a Milano c’erano 1.200 macellai, oggi siamo meno di 120. Quando siamo arrivati qui in Paolo Sarpi nella via c’erano dieci botteghe che vendevano carne, ora ci sono soltanto io”, racconta Walter: “Tutti vanno dalla grande distribuzione. Il fatto che Agie voglia continuare questo mestiere con passione è una gioia per me. Ho ricevuto molte offerte, ma avevo il terrore che la mia bottega diventasse un supermarket o che finisse nelle mani di una catena di ristoranti. Invece so che lui porterà avanti il mio lavoro, cambiando le cose come è giusto, perché solo chi è morto è fermo, ma con rispetto”. Quando “il Walter” ha iniziato a lavorare, via Paolo Sarpi era attraversata da bus e auto ed era piena di botteghe, tutte italiane. Oggi è un’area pedonale attraversata da un’umanità varia, sulla quale si affacciano negozi e ristoranti cinesi, dove non si può sfuggire al profumo del cibo asiatico cucinato ovunque. In una città dove il piatto tipico è oramai il ramen – anche perché per mangiare la cotoletta al ristorante bisogna accendere un mutuo: il cibo asiatico si impone anche perché è più economico – ciò che accade in via Paolo Sarpi rappresenta una naturale evoluzione della tradizione. “Mio padre Ambrogio – racconta Walter – aveva aperto una bottega nel 1931 in via Meda, dal 1951 la macelleria è passata qui e da lì non si è più spostata. A un certo punto i cinesi hanno preso il sopravvento, sembrava il tracollo, con l’intero quartiere in rivolta. Noi invece non ci siamo mai spaventati, siamo sempre aperti ai cambiamenti, crediamo nel futuro”. Il quartiere è cambiato ma la macelleria è rimasta uguale, con qualche modifica che Walter apprezza perché Agie lo coinvolge, chiede il suo parere, lo rispetta e lo ascolta. Litigano, discutono, poi decidono.

Il passaggio generazionale fra Walter e Agie dice tanto di come si possa trasformare il tessuto sociale di una grande città quando al posto dei ghetti si crea inclusione. “Siamo uguali – dice Walter – noi siamo la classica famiglia milanese che ha sposato il negozio: io e mia moglie Silvia viviamo qui dentro, qui è cresciuta nostra figlia e i nostri nipoti. E di là, in Ravioleria, è la stessa cosa: lavorano Agie e le sue zie. A pranzo mangiamo tutti insieme, condividiamo spazi e valori. Non potevo fare scelta migliore anche perché così posso rimanere a lavorare finché non sono stanco, fino a che Agie mi vuole”. Sirtori sorride, Agie gli stringe il ginocchio affettuoso. E i clienti? “Per lo più sono contenti. Solo pochi hanno fatto commenti negativi. Una signora, che poi non è proprio una cliente, è una milanese imbruttita, ha commentato che ora vendiamo anche noi ai cinesi. Ma non è così, Agie è milanese”, protesta Walter. Il nuovo titolare della Macelleria Sirtori sente il peso della responsabilità. “Questa bottega – dice Agie – ha un valore enorme per la zona, e io ho tutto da imparare. Walter mi sta insegnando tantissimo sulla carne, andiamo insieme a visitare i produttori. Qui le persone sono abituate a ricevere non solo carne ottima ma anche consigli su come cucinarla, io intendo portare avanti questo approccio studiando il più possibile. E poi abbiamo molti progetti. Vorremmo aprire la vetrina della macelleria su strada, in modo da poter vendere i prodotti della gastronomia direttamente sul marciapiede. Abbiamo una zona gastronomia, stiamo studiando i cambiamenti da fare, spero di aggiungere all’offerta classica italiana una scelta cinese, mantenendo però ben distinte le due tradizioni”.

A Venezia, un’altra tradizione che da sempre passa di padre in figlio per sopravvivere si è dovuta aprire anche agli italiani di origine straniera: le perle di vetro soffiate di Murano. Moulaye Niang è il primo immigrato senegalese diventato perliere a Venezia. Arrivato in Italia da Dakar più di vent’anni fa, proviene da una famiglia agiata, per metà lavoranti di oro, argento e tessuti e per l’altra metà musicisti. Ma la povertà a un certo punto ha travolto anche la famiglia Niang e così Moulaye ha deciso di trasferirsi in laguna. Invece di intraprendere uno dei tanti lavori che fanno i senegalesi in Italia ha scommesso su un mestiere in via di estinzione, un mestiere tipico, diventato patrimonio dell’immaginario della città. La folgorazione è arrivata quando è passato davanti alla bottega di un famoso mastro vetraio, Vittorio Costantini, in Calle del Fumo. Da quel momento decide di imparare, ma non è facile perché i maestri vetrai sono gelosi dei loro segreti e perché lui effettivamente non ha alcuna conoscenza del mondo del vetro né di questo tipo di artigianato. Chiede a varie botteghe di poter fare l’apprendista, ma non lo vuole nessuno. Qui non c’è un Walter Sirtori che lo prende sotto la sua protezione, nessuno lo aiuta. Ma passione e caparbietà sono forti. Continua a ricevere porte in faccia o gentili rifiuti fino a quando conosce una giovane artigiana delle perle di vetro che lo aiuta a imparare i primi rudimenti del mestiere. “Nel frattempo – dice Moulaye – lavoravo facendo le pulizie in un bagno pubblico e poi il facchino in un hotel. In questo modo mi sono pagato la scuola a Murano e finalmente sono riuscito a diventare un artista del vetro”.

Ora è un maestro vetraio di Murano e ha una sua bottega in Salizada del Pignater, un’area storica tra le calli della zona Castello, a nord di San Marco e dietro Campo della Bragora. Entrare a far parte dei Muraner, gli artigiani del vetro di Murano, non era una impresa scontata. Moulaye ha affrontato uno degli ambienti più chiusi d’Italia. Ma in laguna gli artigiani di un tempo, vetrai e perlieri, sono in via di estinzione: negli anni Novanta, Murano contava intorno ai cinquemila operai; oggi ce ne sono poco meno di mille, un calo di circa l’ottanta per cento in vent’anni.

Nella sua bottega Moulaye traffica con sabbia, cannucce e fuoco che, come in una strana alchimia, gli restituiscono delle bellissime perle di vetro. Seduto su uno scagno, la sedia tipica dei mastri vetrai, fonde il vetro su una fiamma arancione e blu per poi soffiarlo attraverso una cana da vero creando una piccola sfera colorata, portando un po’ di Africa tra le calli di Venezia. Perché le perle di Moulaye sono tipiche veneziane, rispettano la tradizione e i colori di Venezia, ma a volte lui si ispira anche ai colori dell’Africa. Una storia piena di coincidenze, considerato anche che in epoca coloniale l’Europa comprava beni e schiavi, molti dei quali africani, da vendere nelle Americhe pagandoli spesso proprio in perle di vetro di Venezia. Quelle stesse perle che oggi Moulaye realizza e vende nella sua bottega di uomo libero veneziano.

Valentina Furlanetto (Montebelluna, 1972), giornalista di Radio 24 il Sole 24 Ore dal 2002, cura e conduce la trasmissione “I figli di Enea, storie di italiani di origine straniera”. Il suo ultimo libro è “Noi schiavisti” (Laterza, 2021).