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Tutta l’anima che il gelo ha fatto limpida

La prima vera nevicata porta con sé anche inquietudine e isolamento e l’amore più difficile per la montagna dell’inverno. La fratellanza umana con Antonia Pozzi, che ha preparato la poesia con occhi per guardare, muscoli per camminare e un cuore ferito

Nevica. Quella di oggi 8 dicembre è la prima vera neve dell’inverno. Viene giù a fiocchi spessi, fitti, che si accumulano in fretta nel cortile di casa. Sul tavolo all’aperto e sul tetto della cantina se ne saranno già posate due spanne. L’acqua nella fontana scorre ancora, anche a sette gradi sotto zero, gorgoglia nel ruscelletto che ho scavato nel prato: è un fiume in miniatura tra due sponde alte di neve e finisce nello stagno sotto il salice, un occhio nero nel bianco. Nel fiumiciattolo ho i sassi del fiume Yukon che di neve ne avranno vista tanta nella loro vita.

Io non riesco a provare solo meraviglia, quando mi sveglio in mattine come questa. Mi piacerebbe, ma a una parte di me la neve mette anche inquietudine. Sarà colpa della mia metà cittadina, o è piuttosto la metà montanara con il suo senso pratico? Perché so che resterò isolato per buona parte del giorno, e spalando intorno a casa, guardando dalla finestra, buttando legna nella stufa, imparerò di nuovo la pazienza di aspettare. Aspettare che qualcuno arrivi a pulire la strada, e che smetta di nevicare, e che il sole faccia il suo lavoro… E anche perché da adesso, per settimane, certi posti innocui della montagna diventeranno pericolosi, così ripasso uno a uno i pendii e i canaloni, e i sentieri sotto valanga. Lo stesso senso pratico mi dice che la neve porterà un buon Natale ai miei amici di qui, che in un modo o nell’altro lavorano tutti con gli sciatori. A me lo sci su pista non piace ma ho cominciato ad amare quello con le pelli di foca, nel mio caso non oserei chiamarlo scialpinismo: è un modo per gironzolare nel bosco quando c’è neve, azzardare una discesa nei pascoli, scendere a bere un caffè al bar. E soprattutto per sentirmi vicino ai miei scrittori, che lo sci lo praticavano quando piste e funivie non esistevano. Mettere le pelli per fare un giro con Hemingway o Rigoni Stern. O con Antonia Pozzi, con cui credo mi sarei trovato meglio che con tutti gli altri, almeno ad andare in montagna.

Era l’inverno del 1934 quando Antonia scriveva alla sua amica Lucia (lei la chiamava Cia), da Madonna di Campiglio:

Cia cara,

poche righe soltanto, intanto che fuori le mie montagne si spengono come grandi lampade esauste. Non ho mai passato dei giorni così belli. Non ho più né pensieri né parole. Soltanto occhi per guardare e muscoli per camminare. Alba scopre la montagna, giorno per giorno, con me: mi sembra d’essere io a svelargliela, a fargliela amare. La mia montagna…

Tutte le cose morte si struggono nel gran sole. Mi lavo le mani nella neve e me le asciuga il vento. Tutte le cose che penso sono sincere e bianche. Queste giornate me le regala Dio, come un miracolo. Oh, queste sono davvero le montagne di tutti i miracoli, Lucia!

E tu? Ti penso tanto tanto, ti sono vicina con tutta l’anima che il gelo ha fatto limpida.

Tugnin

 

Tugnin ovvero Tonino, al maschile, il soprannome con cui Lucia la chiamava. Avevano poco più di vent’anni all’epoca. Erano entrambe ragazze benestanti, e la montagna faceva parte della loro educazione come d’abitudine per la borghesia milanese. A Milano si andava al liceo e all’università, si studiavano l’arte e la musica, si ascoltavano i concerti alla Scala; ma poi questi figli e figlie venivano iscritti al Cai e spediti in montagna, perché l’alpinismo insegnasse loro altri valori. La forza d’animo, soprattutto. La resistenza alla fatica, la responsabilità di sé. Ma anche la semplicità della vita nei rifugi e il senso di fratellanza che nasce tra chi li frequenta. E, nel caso di Antonia, la bellezza – valore fondamentale per lei che scriveva poesie da quando aveva diciassette anni, lei che la bellezza inseguiva con le parole. Parole segrete, ancora mai pubblicate in un libro. Poesie che spediva agli amici e alle amiche e all’uomo di cui si era innamorata. Una che mi piace tanto è questa, dell’agosto 1933, scritta sotto il Cervino.

 

Acqua alpina

Gioia di cantare come te, torrente;

gioia di ridere

sentendo nella bocca i denti

bianchi come il tuo greto;

gioia d’esser nata

soltanto in un mattino di sole

tra le viole

di un pascolo;

d’aver scordato la notte

ed il morso dei ghiacci.

La notte, il morso dei ghiacci: immagini dell’amore impossibile per l’uomo che era stato il suo professore di liceo, ma forse anche immagini d’altro – di una malattia dell’anima che l’avrebbe portata al suicidio ad appena ventisei anni. Per Antonia, la medicina di quella malattia fu la montagna, almeno per un po’. Prima la Grigna, la montagna “ripida e ferrigna” dei milanesi, la Valsassina contadina dove suo padre aveva comprato una villa per l’estate. Poi le nobili Dolomiti dove imparò ad arrampicare con una guida d’eccezione, Emilio Comici. Poi ancora, il Cervino. In anni così diversi dai nostri, quando Cervinia non esisteva e al suo posto c’era solo una conca acquitrinosa ai piedi del ghiacciaio: il Breil. Lì Antonia partecipò a un attendamento del Cai con l’amica Elvira.

 

Mia cara Elvira,

un po’ in ritardo, mi ha preso la malattia del Cervino: e popolo di creste, di spigoli, di pareti la sonnolenza borghese di queste montagne. Sabato notte, con una luna che inondava tutta la valle, sono salita sulla Grigna, ed ero lassù prima dell’alba, sola sulla vetta, sotto il sorriso gelido delle ultime stelle. A poco a poco, rompendo con gli occhi intenti la nebbia, ho visto il nostro Cervino sorgere dalla notte e chiamare a sé i primi raggi del sole e indorarsene. Allora ho pensato che voglio camminare molto e imparare a non stancarmi e preparami con tutte le mie forze, per poter andare almeno fino alla Capanna, e vedere di lassù un tramonto ed un’alba. E mentre ero lì, immobile, sull’erba madida di guazza, rosata dal primissimo sole, e non mi giungeva altro suono che quello delle campane, sospinto, verso l’alto, a ondate, pensavo alle nostre sere di Breil, alla voce del tuo strumento che parlava lentamente coi lumi dei pastori sulla montagna, con le stelle che si levavano dal nevaio e si coricavano sulle rocce.

Sono lettere che preparano la poesia come pagine di taccuino. Delle poesie ritrovo le parole, il giro di certe frasi che diventeranno versi. Alle amiche, Antonia scrisse che le sue poesie erano piene di “montagne, bambini, acqua, fiori”. Non ebbe voglia di aggiungere che erano piene anche di tombe e cimiteri, e più raramente di uomini. Gli uomini certe volte erano quelli che la portavano in montagna, come il Joseph Pellissier che compare in questa dell’agosto 1934. C’è un rifugio, anzi a ben vedere è un bivacco non custodito, ai piedi delle Grandes Murailles in Valle d’Aosta. Non so se nella poesia italiana, fino a quel momento, fossero mai comparsi un bivacco a 3000 metri d’altezza, e una guida alpina.

 

Rifugio

Nebbie. E il tonfo dei sassi

dentro i canali. Voci d’acqua

giù dai nevai nella notte.

Tu stendi una coperta per me

sul pagliericcio:

con le tue mani dure

me l’avvolgi alle spalle, lievemente,

che non mi prenda

il freddo.

Io penso

al grande mistero che vive

in te, oltre il tuo piano

gesto; al senso

di questa nostra fratellanza umana

al di là della nebbia.

 

Quest’uomo, la cui immagine aveva sognato, non lo trovò mai nella vita vera. Non se ne diede il tempo: decise di andarsene così presto! Ma Antonia fece in tempo a scrivere quella che, secondo me, è la più bella poesia italiana sulla montagna d’inverno, e sulla neve. Credo di riuscire a capirla perché anch’io ho scoperto com’è andare lassù con gli sci e le pelli di foca, nei luoghi che conosco così bene d’estate. Anch’io ho amato per prima la montagna dell’estate, e soltanto dopo, faticosamente, ho cominciato a imparare la montagna dell’inverno. È un amore molto più difficile. La montagna, che d’estate accoglie, in inverno respinge, minaccia, fa paura. Per volerle bene, bisogna ricordarsi quello che la neve nasconde: come un cuore ferito, in apparenza spento, nasconde il suo pulsare. E qui ritrovo la neve che oggi cade sul mio rifugio, sulla fontana, sul ruscello, sullo stagno – e una ragazza della mia città, che mentre fuori nevica mi fa compagnia.

 

Nevai

Io fui nel giorno alto che vive

oltre gli abeti,

io camminai su campi e monti

di luce –

Traversai laghi morti – ed un segreto

canto mi sussurravano le onde

prigioniere –

passai su bianche rive, chiamando

a nome le genziane

sopite –

Io sognai nella neve di un’immensa

città di fiori

sepolta –

io fui sui monti

come un irto fiore –

e guardavo le rocce,

gli alti scogli

per i mari del vento –

e cantavo fra me di una remota

estate, che coi suoi amari

rododendri

m’avvampava nel sangue –

 

(Il contributo di Paolo Cognetti è pubblicato in accordo con MalaTesta Lit. Ag., Milano)

Paolo Cognetti (Milano, 1978), scrittore. Tra i suoi libri, “Sofia si veste sempre di nero” (minimum fax, 2012), “Le otto montagne” (Einaudi, 2016), vincitore del Premio Strega 2017. Nel 2018 è uscito “Senza mai arrivare in cima, viaggio in Himalaya” (Einaudi). Nel 2021 il film documentario e il podcast “Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord”. Sempre nel 2021 ha curato “L’Antonia, Poesie, lettere e fotografie di Antonia Pozzi” (Ponte alle Grazie) e pubblicato “La felicità del lupo” (Einaudi).