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Un cartone in bocca

Diario di viaggi e approvvigionamenti nell’Lsd: esperienze intense di scioglimento identitario e senso di appartenenza alle scie delle cose. L’acido che incornicia e abbraccia le madri, il Covid, le afghane, l’Ucraina e la paura. Allucinarsi per liberarsi

Agosto 2020. Io e le mie amiche ci sciogliamo un cartone in bocca, sulla spiaggia, sotto un complicato telaio di tende che abbiamo tirato su per non avere il sole a picco sulle nostre teste. È la prima volta per tutte tranne che per Giulia. Lei l’Lsd lo assume spesso. Dice che non dà dipendenza, e che sarà un’esperienza intensa.

Le foto di quel giorno ci ritraggono nude mentre ci immergiamo nell’acqua, o avvolte in kimono che passeggiamo lungo la scogliera al tramonto. L’acido inizia a fare effetto e io piango così tanto da aver paura di sciogliermi, mentre il sole allunga gli ultimi raggi sulle nuvole screziandole di rosa e arancio. Sotto la battaglia campale del cielo il mare diventa d’acciaio e si infrange sui faraglioni, che sembrano a tratti creature demoniache o cavalli alati. Continuo a piangere sulla via del ritorno, senza una ragione specifica e con tutte le ragioni del mondo. Dopo quattro mesi chiusa in casa con mia madre, con la quale non vivevo da dieci anni, mi ero dimenticata cosa significasse essere libera. La notte non dormo, mentre accanto a me Sofia respira piano e a volte mi accarezza la spalla. Mi alzo per guardare il cielo di velluto, sono pacificamente vuota: se ora qualcuno riempisse il mio corpo di una nuova identità, non troverebbe ostacoli al mio interno.

Settembre 2020. Non ammettiamo a noi stessi che verremo rinchiusi ancora. L’estate è stata un caleidoscopio di facce radiose e sole e sale e luoghi di villeggiatura lasciati deserti dalla paura. Non voglio che finisca questa sensazione, quella di essere, io e i miei amici, bottiglie di champagne sul punto di esplodere in una festa di sguardi e abbracci, macchine polverose e acque gentili.

Prenoto per me e Lorenzo uno chalet in una radura nel Bosco delle Carline. Siamo circondati da cerri, aceri e roverelle. Di notte mormorano.

Dal sottobosco di ginepro e biancospino fanno capolino dei piccoli di cinghiale. Sulle rocce piatte che compongono il breve vialetto che dalla boscaglia conduce alla radura ci pare di scorgere facce antiche, e tra i fili d’erba piccoli brontosauri. Ricordo che da bambina in boschi simili andavamo a cercare i ciclamini senza mai raccoglierli perché mio padre diceva che era vietato. Non so se sia vero, ma tuttora non li colgo. Mentre le stelle si confondono l’una con l’altra io e Lorenzo ci diamo la mano e con un’occhiata ricacciamo indietro la consapevolezza che non ascolteremo le fronde bisbigliare per molti mesi.

Novembre 2020. Ho comprato un libro usato che sul frontespizio ospita un messaggio “Ci vediamo sempre qui! 1973”. È scritto con una penna blu, la stessa grafia allungata e un po’ infantile di mia nonna. Mentre l’acido si fa strada dalla pancia tramutandosi in un brivido mi pare che tutte le scritte del passato impresse sui libri le abbia lasciate mia nonna.

Nel 1973 viene coniata l’espressione Sindrome di Stoccolma, in seguito a un sequestro di persona durato 130 ore. È l’anno in cui Gianfranco Bertoli attenta alla vita di Mariano Rumor. I Pink Floyd pubblicano The Dark Side of the Moon, il Padrino vince l’Oscar e finisce la guerra del Vietnam. È l’anno in cui la parabola lisergica capitanata da Timothy Leary, pioniere degli allucinogeni e “uomo più pericoloso d’America” secondo Nixon, sta volgendo al termine. Mi chiedo cosa direbbe di questi anni in cui le psilocibine sono tornate ad affollare l’immaginario occidentale, vestendosi dei panni di Adelphi, insinuandosi in serie tv con Nicole Kidman, scrollandosi via, per quanto possibile, lo stigma che gli era stato apposto. Possono curare la depressione! Possono aiutare a liberarsi dalle dipendenze! Possono portare benefici alle persone affette da autismo!

Non so se queste cose siano vere. Quello che so è che quando ne assumo un po’ mi pare che ogni oggetto sia incorniciato da un’aura maliziosa che me ne fa intuire la storia, e io mi ricongiungo con queste luminescenze per entrare a far parte della scia delle cose che ci sono state e che sono destinate a deteriorarsi.

Da quando siamo chiusi in casa a guardare le facce sintetiche degli altri attraverso gli schermi, il passato è un’arcadia. Il libro è di Peter Weiss, Punto di fuga. Racconta di una Svezia degli anni Quaranta gelida e desolante, di uomini di ghiaccio che non concludono niente e si muovono lungo strade di pietra battute dal vento dove riecheggiano le loro risate alcoliche. Anche la loro condizione mi sembra invidiabile.

Dicembre 2020. Ho finito gli acidi, devo andare a prenderli da Joe Pesca. Non mi piace andare da Joe Pesca perché tratta l’Lsd come una droga da rave. Non la rispetta.

Joe Pesca abita in un monolocale di trenta metri quadrati al pianterreno di un palazzo anonimo nella periferia ovest di Milano. Ha quarant’anni, portati malissimo. Quando gli ho scritto per avere dell’Lsd lui mi ha detto che sarei dovuta andare a casa sua.

“Abiti lontano”.

“Puoi farti dare uno strappo da un mio amico”. L’amico di Joe Pesca è un operaio dell’hinterland che guida una macchina molto pulita. Mi viene a prendere a Loreto. Ascolta techno hardcore e mi racconta di quando un amico di un suo amico ha avuto un bad trip con l’Lsd e pensava che dei mostri se lo stessero mangiando. I bad trip sono catene di Sant’Antonio: descritti nello stesso identico modo da chiunque, capitano sempre agli amici degli amici.

Il monolocale di Joe Pesca è un cimitero di bottiglie di birra vuote e posaceneri improvvisati. I due mi offrono da bere comunicandomi che gli acidi sono da un terzo amico che abita ancora più lontano, e dobbiamo aspettare un po’ perché non è ancora tornato a casa. Medito il suicidio.

Per ingannare l’attesa Joe Pesca ci svela che ha recitato in uno spot. Non è ancora online, ma lui ha il file sul telefono. Nello spot Joe Pesca è vestito da acaro, avvolto da una sfera grigia infeltrita da cui spuntano due polpacci esili e la faccia malinconica. Nello spot lui e un altro attore-acaro vengono spazzati via da uno swiffer da discount. Joe Pesca studia in fibrillazione le nostre espressioni.

“Bellissimo”, sentenziamo entrambi, “Sei molto bravo”.

Il viso di Joe Pesca si distende. Ce lo fa vedere molte volte, incalzato dall’entusiasmo dell’amico, e poi, con tono incerto che tradisce un velo di scaramanzia, ci confida che durante le riprese si sono complimentati per la sua voce, e che magari gli faranno fare qualche doppiaggio. È felice. Indugio sulla possibilità di cavarmi gli occhi.

In macchina verso la seconda destinazione Joe Pesca e l’amico sbagliano strada cento volte. Qualcuno chiama Joe Pesca al telefono e lui risponde nervosamente, mentendo sull’orario di arrivo: “Siamo quasi arrivati, manca pochissimo, stiamo cercando parcheggio”. Vagheggio il coma.

Entriamo dentro un compound labirintico ai margini della città. Ci fermiamo di fronte a uno dei parallelepipedi di cemento dove ci attende una Mercedes nera con un vetro spaccato. Dentro, un tizio slavo, uno di quelli che portano la cocaina ai milanesi in serata ma che in passato potrebbe tranquillamente essere stato luogotenente di Mladic´. Ha la faccia di marmo e gli occhi che gli luccicano. Joe Pesca allunga la mano con le banconote per passargliele, ma lo slavo rimane immobile. Le banconote cadono a terra, Joe Pesca si butta a raccoglierle scusandosi profusamente. Lo slavo conta i soldi e getta una bustina dal finestrino. Joe Pesca torna per terra a recuperarla mentre la Mercedes si allontana. In quel momento mi pare indossi ancora il vestito da acaro.

Saliamo nel loft dell’amico di Joe Pesca. È un biondino con gli occhi svampiti. Mi faccio dare i miei cartoncini, rifiuto le loro cortesi offerte di cocaina, e torno a casa giurando a me stessa di trovare un altro fornitore.

Febbraio 2021. Siamo scappati a Venezia, che ingenui. La città è deserta e si rivela per quello che è: un cadavere messo a rendita. I gondolieri si aggirano famelici come i gabbiani. Il nostro airbnb è in cima a un palazzo elegante. Dalle finestre entra una luce di platino. In tv danno il festival di Sanremo. L’acido sale mentre corriamo tra le calli, inseguiti dal rumore dei nostri passi a ricordarci che siamo soli. La notte saluto un gatto tendendo la mano verso una finestra buia, finché non mi accorgo con terrore che dietro il felino c’è la faccia di una vecchia immobile nascosta nell’oscurità. Corro a perdifiato ma non vado da nessuna parte.

Marzo 2021. Da quando Chiara Ferragni ha scoperto il femminismo registrandosi con un blocco di appunti in cui spiega che è sbagliato dare della troia alle altre donne, è tutto un fiorire di sentimenti nobili. L’8 marzo fioccano marchette attiviste per i brand, critiche alle suddette marchette, video di donne che piangono. Il ddl Zan è un temporale mediocre che aleggia sulle nostre teste, Fedez lo promuove su instagram con delle dirette; Zan, immagino, ha già iniziato a scrivere in fretta e furia il suo libro. Mi trascino lungo le giornate che si inanellano identiche le une alle altre. Ho sempre sonno e non dormo mai.

Quando gli effetti dell’acido iniziano a dissiparsi chiudo gli occhi e affiora alla mia mente l’immagine di una città avvolta da una foschia asfissiante. I grattacieli neri splendono cupi alla luce dei fari degli elicotteri che li sorvolano, spiando gli abitanti.

I marciapiedi sono un groviglio umano: individui ricurvi che corrono da una parte all’altra calpestandosi, ombre liquide che si agitano nel tentativo disperato di evitare alcuni fasci di luce che provengono dall’alto, dalla nebbia: se ne fossero toccati, la loro identità verrebbe cancellata per essere sostituita da un algoritmo. Il cuore accelera, riapro le palpebre e penso “sto diventando grande”. Non so perché lo penso.

Luglio 2021. Il Cilento è minacciato dallo stesso cielo denso che opprime tutto il meridione. Io e mia madre ci dividiamo un cartone sulle sdraio che guardano il sole scomparire dietro Capri. Decidiamo di cucinare dei peperoni, i nostri occhi si inumidiscono di risate perché impieghiamo venti minuti per fare a striscioline un solo peperone. Dalle casse portatili si diffondono canzoni lente che mia madre sostiene essere degli anni sessanta anche se sono state prodotte nel 2010. Quando provo a contraddirla mi dice che allora sono delle copie. Faccio spallucce. La osservo cucinare di sottecchi, il suo corpo ancora atletico che fa capolino dalla sottoveste estiva, i capelli ricci e sottili, la pelle abbronzata, le lacrime di commozione. È bellissima.

Agosto 2021. Pantelleria è preda dello scirocco, le albe sono bianche, le viti muoiono di sete. Percepisco un’atmosfera isterica che si alza come aria calda dal mare. I turisti schiamazzano fino a tardi, vogliono dire a se stessi di stare molto bene. A Siracusa il termometro segna 50 gradi. I talebani si riprendono Kabul. Loro avevano il tempo, noi degli orologi inutili. Instagram è una corsa alla diffusione di notizie sommarie, indignazione, tag ai divulgatori più attivi. Bisogna aiutare le afghane. Chi ha un cognome arabo si sente in dovere di correggere le informazioni di terzi, generando ancora più confusione. Gli afghani si attaccano agli aerei che decollano. Ogni story è solidale con le donne afghane, le bambine afghane, le povere afghane, le afghane, le afghane, le afghane, qui una raccolta fondi per le afghane, lì il video di una regista afghana, altrove una bambina afghana viene strattonata da un talebano, le ragazze afghane non potranno più andare a scuola.

Le afghane affollano le mie notti, ma non le afghane vere, le meta-afghane, le afghane raccontate da altri, la parola “afghana”, afghana afghana afghana. Lo scirocco continua a soffiare, entra la polvere negli occhi, Pantelleria non ha mai avuto così tanti turisti, pensa, siamo ottantamila sull’isola, non si trova mai posto al ristorante, è un bel problema, le afghane, dove si va a fare il bagno con questo vento, le afghane di Kandahar, non si riesce a prenotare una degustazione, le afghane di Kabul, sono finiti i motoscafi in Afghanistan. Quando l’Lsd sale prendo uno xanax per farlo scendere.

Ottobre 2021. Le voci delle afghane si sono fatte sussurri e infine sono scomparse, come le mie scorte di Lsd. Ma questa volta non andrò da Joe Pesca. Farò la signorina. Ecco un sito olandese che vende molecole purissime, lievemente diverse da quelle che si trovano nella lista delle sostanze proibite: legali, quindi. Pago con la mia carta di credito. La mia carta di credito viene bloccata. Il sito della banca mi rimanda al commissariato più vicino. Mi indigno. Chiamo la banca: signorina, la sua carta di credito è stata utilizzata in attività sospette. Non credo proprio, stavo facendo un regalo a un amico su un sito olandese. Che regalo? Un sintetizzatore pieno di cavetti colorati che terminano in delle pinze che, se inserite in un’arancia, la fanno suonare. Cioè con questo sintetizzatore si può suonare la frutta? Proprio così. Anche la pelle. Tutte le superfici che conducono elettricità. Però la sua carta rimane associata ad attività illecite. È una vergogna, è vergognoso, siete una banca vergognosa, voglio un’altra carta. La ordini sul sito e intanto se ne crei una digitale. Va bene, ma è l’ultima volta che accetto un comportamento del genere da parte vostra. Certo signorina, lo capisco. Grazie, arrivederci. Pago i cartoni con un bonifico. Mi arrivano dopo qualche settimana, insieme alla nuova carta di credito.

Novembre 2021. Il ddl Zan è stato affondato, su Instagram le persone se la prendono con Renzi, capro espiatorio perfetto, ultimo stratega in un mondo che si è dimenticato la politica in favore del consenso. Sono tutti immacolati, non si può mica star lì a patteggiare. Il libro di Zan vende duemila copie e spicci, la purezza non lo ha reso ricco.

Mi giro verso Lorenzo e tutto scompare, rimangono solo i suoi occhi che sono gemme sui tronchi nudi e gemme nei greti di fiumi scomparsi. Quando l’acido sale e i circuiti neurali costruiti in una vita intera si disgregano, io sono una donna e lui un uomo. Non ho mai compreso a fondo il concetto di identità di genere, non mi sono mai sentita femmina e non mi sono mai sentita maschio, mi sono sentita sempre Irene, ma quando sono con lui e la stanza inizia a vibrare e lo sguardo si posa su frattali in movimento io sono Eva e lui Adamo, siamo simboli che nascondono significati arcaici, siamo Didone ed Enea, Medea e Giasone, Afrodite e Vulcano.

Dicembre 2021. I Beatles sono in uno studio spoglio illuminato da luci colorate che si riverberano sulle pareti. Yoko Ono è l’ombra di John Lennon, qualche volta si mette al microfono ed emette dei vocalizzi inquietanti. Guardiamo McCartney comporre Let it be. Scruto gli idoli di mio padre giovane esistere, esistere davvero, non come simulacro della sua infanzia, non come voci indistinte che affollano la memoria di una Volvo Station Wagon diretta verso la spiaggia. No, i Beatles sono proprio davanti a me e stanno componendo Get Back. Anche io vorrei tornare indietro, si può? Andiamo in sala dove le finestre sono state colonizzate dal bonus facciata che ha allontanato i rami del grande platano che sfiorava il nostro balcone, sostituendoli con tubi di metallo rossi. Vorremmo avere il potere di distruggere le impalcature con un solo sguardo per toccare il nostro albero, che in primavera si accende di verde smeraldo, ricordandoci che esiste una natura oltre la città, di nuovo chiusa, affollata di persone che stazionano in file disordinate davanti     alle farmacie straripanti per tamponarsi maniacalmente e non uccidere, per sbaglio, il proprio anziano padre sotto Natale.

Distogliamo lo sguardo dalla vetrata, l’acido sale e con lui le note allegre e nostalgiche di Wouldn’t It Be Nice. Wouldn’t it be nice if we were older? Then we wouldn’t have to wait so long / And wouldn’t it be nice to live together / In the kind of world where we belong? Sarebbe splendido, sarebbe un sogno.

Marzo 2022. Sulle cime dei rami spogli a qualche metro dall’ultima finestra del civico 26 di Boulevard de Port-Royal alcune gazze complottano scambiandosi delle cianfrusaglie per abbellire i rispettivi nidi. Putin ha invaso l’Ucraina e di conseguenza il mio internet. Informazioni sull’Ucraina ovunque: com’è fatta l’Ucraina, dov’è l’Ucraina, quanti russi ci sono in Ucraina, il Colosseo ha i colori dell’Ucraina, Putin è come la Nato, No a Putin e No alla Nato, Sì la pace, No la pace per la pace, è ingiusto che ci occupiamo dell’Ucraina e non della Nigeria.

Questa volta sarà diverso. Non cederò all’infodemia come ho fatto con la scorsa guerra. Non mi informerò, non ne voglio sapere niente. Elena Ferrante sostiene che lei i giornali non li legge, tanto le informazioni importanti la raggiungono per osmosi. Sarò come Ferrante. Eccomi dieci minuti dopo aver intrapreso il mio cammino verso l’ascetismo litigare via chat con un’amica che vota Potere al Popolo e che sostiene che per risolvere il conflitto basti usare un po’ di sana diplomazia. La insulto. Mi scuso. Esco di casa, Parigi è abbagliante. Mi fermo a bere del vino in un posto dove se parlo in francese mi rispondono in inglese e viceversa. Mentre l’acido sale cerco di spiare di sottecchi il telefono di Lorenzo per captare aggiornamenti sulla guerra. L’acido è salito e io sono al Bingo Drag, dove degli uomini vestiti da donna mi spronano ad apporre chicchi di caffè sulle schedine. Non vinco niente e ho mal di testa. Scendiamo nella metro per tornare a casa e mentre il vagone sobbalza e con lui l’illuminazione della carrozza: mi pare di vedere per un attimo tutti gli astanti imbacuccati, con i gatti in braccio, i bambini avvolti nelle coperte, le sirene che urlano. Le luci si riaccendono, tutto bene, è stata una defaillance momentanea. Eccomi a casa, le gazze sui rami che si dicono i loro fatti, il cielo che sfuma dall’oro all’indaco. Eccomi sul divano che spio nei salotti privi di tende dei parigini le cene di quelle persone che a distanza mi sembrano fatte di cera. Eccomi mentre mi pare che quella cera si stia sciogliendo, così come i palazzi, i muri, le scale, perfino i marciapiedi si stanno sciogliendo. Eccomi che mi butto sul letto e chiudo gli occhi e giuro che non sto pensando a niente quando mi chiedo se la vita a cui sono abituata finirà anche per me un giorno non troppo distante.

Irene Graziosi (Roma, 1991), direttrice dei contenuti e autrice del canale YouTube “VENTI”, ideato nel 2019 con Sofia Viscardi. Il suo primo romanzo è “Il profilo dell’altra” (edizioni e/o, 2022).