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Un groviglio inestricabile di buio e di luce

Non si scrive mai da soli, diceva Marguerite Duras. Così frequento le autrici della mia vita, rileggo Ingeborg Bachmann in una disordinata immersione: non si può scrivere senza conoscere la Storia, tutte le connessioni e le violenze che hanno portato al nostro presente

Negli ultimi mesi, in mezzo alle letture per così dire “correnti”, mi sono messa a rileggere Ingeborg Bachmann. È una scrittrice che rileggo spesso, come ciascuno degli autori della mia vita, se posso usare una simile espressione, ma in questo caso dipendeva dall’anniversario della sua morte, avvenuta nel 1973 a Roma, la città in cui l’autrice austriaca aveva scelto di vivere, anzi dove affermava di aver «imparato» a vivere.

Ho aperto un libro dopo l’altro, a volte saltando le pagine, a volte sottolineando da capo, trascrivendo frasi, ho disperso i volumi per casa, dimenticandoli sul comodino, accanto al divano, sul tavolo del mio studio; solo dopo ho capito che a guidarmi in questa ennesima, disordinata immersione, era il tentativo di capire che cosa di Bachmann era stato importante per me in quanto scrittrice. È impudico confessarlo, un po’ mi fa vergognare, ma – come diceva Duras – non si scrive mai da soli.

Nel mio amore per Bachmann c’è, in primo luogo, il tema della lingua. «La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé», spiegò in una delle sue conferenze all’Università di Francoforte (radunate in Letteratura come utopia). Le opere importanti non nascono dalla volontà di sperimentare nuovi stili o di essere moderni, ma dalle domande nuove ed eterne «sul perché e sul fine ultimo delle cose». C’è sempre insomma una tensione etica, che si scontra con il fallimento inevitabile della lingua stessa. Raccogliendo la lezione di Wittgenstein sui limiti del linguaggio, Bachmann definisce la lingua il «castigo» – e tuttavia è lo strumento fondamentale dello scrittore, che deve distruggere le frasi brutte, sterili, della comunicazione diffusa e tentare ostinatamente di avvicinarsi a esprimere l’indicibile, cioè la condizione oscura, enigmatica, dell’esistenza umana.

In secondo luogo, c’è la Storia. «Per lo scrittore la Storia è qualcosa di indispensabile. Non si può scrivere, se non si vedono tutte le connessioni storico-sociali che ci hanno portato al nostro presente. Per me è inconcepibile», disse Bachmann pochi mesi prima di morire, in un’intervista contenuta nella raccolta In cerca di frasi vere. La Storia è per Bachmann un susseguirsi di violenze; la guerra persiste anche in tempo di pace, tanto che nessuno di noi muore, siamo tutti assassinati: dalla società. Per raccontarlo, lei aveva in mente un ciclo di romanzi, Todesarten, cioè cause, circostanze di morte, modi di morire. Nel capitolo onirico di Malina, l’unico romanzo compiuto, dove un padre incestuoso rappresenta da un lato la colpa storica dell’Austria nazista, dall’altro i crimini del patriarcato, il mondo diventa un’immensa camera a gas in cui l’Io protagonista e voce narrante è solo: «Non ci si difende dal gas».

La visione bachmanniana del mondo è pessimista, come la mia: la morte è l’unico rimedio a «quell’atroce offesa che è la vita», si legge ne Il trentesimo anno. Eppure, la sensualità con cui lei racconta l’Italia, nei reportage o nelle interviste, tradisce un certo gusto della vita stessa, che pure mi appartiene. Le sue liriche sono un intreccio indissolubile di disperazione e speranza. Mi ricordano la «gaia disperazione» di Duras – e chiedo scusa se la cito ancora, ma è la scrittrice che più mi fa sentire a casa, e insieme scomoda: la leggo anno dopo anno da quando ne avevo quindici. La nostra esperienza sulla terra è un groviglio indistricabile di buio e di luce, e l’unico modo onesto di fare letteratura è cercare una forma per restituirlo, quel groviglio, senza ideologie. Così, ora che ho messo a posto i libri di Bachmann, ho ripreso quelli di Duras, e li ho già sparsi ovunque.

Rosella Postorino (Reggio Calabria, 1978), scrittrice e editor. Ha pubblicato i romanzi “La stanza di sopra” (Neri Pozza, 2007, Premio Rapallo Opera Prima), “L’estate che perdemmo Dio” (Einaudi, 2009, Premio Benedetto Croce), “Il corpo docile” (Einaudi, 2013, Premio Penne), e il reportage “Il mare in salita” (Laterza, 2011). Il suo romanzo “Le assaggiatrici” (Feltrinelli, 2018), tradotto in 33 lingue, ha vinto il Premio Campiello. Ha scritto il libro per bambini “Tutti giù per aria” (Salani, 2019).