Finita l’università, Scienze biologiche, col voto che era riuscita a ottenere considerando tutto il resto – il lavoro a casa, costante, come unica figlia femmina, la voglia di rendersi economicamente indipendente (quindi la fretta di finire), l’ansia che l’ha sempre mangiata, infatti ancora oggi è magrissima – mia madre avrebbe voluto fare la ricercatrice. Le è capitata però la possibilità di una supplenza in una scuola media. Non aveva neanche ventidue anni quando l’ha colta al volo per guadagnarsi dei soldi suoi, e di quel sogno di fare ricerca nessuno ha saputo più niente, mai più. Si è perso nei libri di testo delle scienze matematiche alle scuole medie, sui gradini che ogni volta, con l’ansia di non essere all’altezza, mia madre saliva per entrare a scuola, nei becchi spuntati degli aeroplanini di carta che i ragazzi le tiravano contro. Mia madre tornava a casa senza voce, felice di essere tornata o demoralizzata per qualche scherzo cattivo degli alunni, non si è mai truccata, non si è mai tinta i capelli, a trent’anni era già una donna sale e pepe, quando sono nata io, alla fine degli anni Settanta. Mia madre, per andare a scuola, in un’epoca di donne con le gonne, i tailleur, i pantaloni eleganti, i tacchi, gli orecchini pendenti – mia madre non si è mai fatta i buchi alle orecchie –, la messa in piega ogni settimana dalla parrucchiera, il trucco, il rossetto e lo smalto, mia madre per andare a scuola si metteva i jeans.
Il preside non lo tollerava: professoressa Urbano, le diceva, si vesta come si deve.
Ogni mattina, la sgridava.
Il decoro, diceva, l’immagine, la forma.
Anche mio padre a insegnare a scuola ci andava in jeans. Non credo che nessuno abbia mai avuto da ridire su come si vestiva lui; non credo che nessuno l’abbia mai perfino guardato davvero. I jeans di mia madre, a pranzo, a casa, al ritorno da scuola, ripiegati sul letto perché non si sporcassero, diventavano il nostro – mio e di mia sorella – spauracchio, il nostro spaventapasseri, e i passeri eravamo noi, io e mia sorella, che non volevamo andare in camera da letto a guardare quell’oggetto della discordia, e non volevamo nemmeno stare in cucina, dove mia madre raccontava cos’era successo, perché ci dispiaceva. A mia madre i prèsidi hanno sempre fatto paura. In genere, gli uomini. Il preside la sgridava perché non si tingeva i capelli, perché si metteva i jeans, e mia madre diventava paonazza – a scuola, e a casa quando lo raccontava – e si disperava. Però i capelli non li tingeva lo stesso. Il trucco non lo metteva. Aveva due paia di jeans. Li lavava, e se li rimetteva.
Anche gli alunni, alle medie, a scuola, a vederla così diversa dalle altre prof., a vederla così diversa dalle loro madri, spesso la prendevano in giro. Mia madre era una prof. bassa, magrissima, femmina, e insegnava la meno calda delle materie. Io me la vedevo lì, in classe, piccola e persa, le addizioni, le sottrazioni e le divisioni che aveva scritto col gesso sulla lavagna crollate a terra, a una a una, come quando le cose prendono vita nei cartoni animati. E lei lì, per terra, a raccoglierle e rimetterle su.
A casa, però, la spesa la faceva mio padre. Cucinava mio padre, che è sempre stato un ottimo cuoco – anche se mia madre non mangiava niente. Mia madre ha sempre guidato la macchina, cosa che molte madri delle mie amiche non facevano. Quando i miei amici romani pensano a una madre del sud, dicono chissà che manicaretti ti fa. Posto che esistano le madri del sud, cosa di cui dubito, io non ne ho mai avuta una. Mia madre poco tempo fa mi ha scritto su Whatsapp «sai che sono una mamma chioccia» e invece non è vero. Mia madre ci ha cresciute indipendenti, libere, piene di sogni, e non ha mai preteso che facessimo cose da femmine. Io non so cucinare. Non so prendermi cura della casa. Mio padre e mia madre si dividevano i compiti, si può dire, senza aver nemmeno mai sfiorato le controculture degli anni Settanta, perché venivano da famiglie antiquate a cui non avevano mai pensato di né voluto ribellarsi. Mio padre e mia madre sono cresciuti dividendosi i compiti così, naturalmente, come si mangia o si beve.
Però alla fine, a pensarci, niente è mai davvero naturale. Mia madre ci teneva tantissimo al diritto all’aborto, al diritto al divorzio, poi però se quando io e mia sorella eravamo adolescenti in tv passava la pubblicità dei preservativi mia madre diceva cambiate canale, cosa sono queste schifezze.
Mia madre i jeans li mette anche ora che ha settantaquattro anni, conto facilissimo anche per me che ho fatto lo scientifico ma non so fare due più due, perché io e lei abbiamo esattamente trent’anni di differenza. Da poco, a volte si mette le gonne. Da poco, a volte si mette le collane e gli anelli. Credo di non averla mai vista con un bracciale, ma forse mi sbaglio. Mia madre ancora oggi non si trucca e ha i capelli bianchissimi che luccicano e finalmente le stanno benissimo.
Se leggesse questo pezzo, mi direbbe che non è vero che non faceva le cose che facevano le altre professoresse, e le altre donne, per andare contro la cultura maschilista che ci ha sempre voluto delle donne perbene. Fatte e finite proprio come vogliono gli uomini. Io non sono una donna per bene, e lo devo anche a lei, anche se sono sicura che se leggesse questo pezzo non sarebbe felice di sentirmi dire una cosa del genere.
Pure io, del resto, non volevo parlare di mia madre e neppure dei jeans, non volevo parlare di quanto questo essere diversa addolorasse mia madre, eppure, tra tutti i momenti che ognuna di noi vive, ha vissuto, e purtroppo vivrà, tutti i momenti in cui uno o più uomini, intesi come persone singole, o uomini intesi come sesso maschile ci hanno fatto, ci faranno e ci faranno del male, la prima immagine che mi è venuta in mente sono questi jeans. Piccoli piccoli, con la vita strettissima per contenere l’ansia che si è sempre mangiata mia madre, questi jeans che entravano in casa, al ritorno da scuola, prima di lei (di nuovo, è come qualcosa che diventa vivo in un cartone animato), entravano mogi mogi e poi si abbandonavano ripiegati perfettamente sul letto mentre lei aiutava mio padre a cucinare cibi che non avrebbe mangiato – Natalino metto l’acqua a bollire?, Sì, Natalino scolo la pasta?, Sì – e raccontava le angherie della mattina.
Tutti, credo, quando eravamo piccoli avremmo voluto dei genitori canonici, perché la normalità, la ripetitività quando sei piccolo è rassicurante. Ricordo mamme delle mie amiche in carne, coi seni grandi, le scollature, che preparavano la lasagna e patate riso e cozze e ti facevano mettere le pattine quando entravi in casa per non sporcare il pavimento, e sui divani c’erano dei lenzuoli per tenerli integri e intonsi per i veri ospiti, e si stringevano le figlie al cuore tanto che a volte queste strette erano troppo strette, e le figlie non potevano respirare. Penso che alla fine è cambiato poco, che si dice che è tutto diverso, ma che noi donne, da piccole, da adolescenti, da adulte, da vecchie, molto spesso siamo ancora boccheggianti in abbracci troppo stretti e nei corsetti delle dame dell’Ottocento, e agitiamo i ventagli e tratteniamo il fiato fino a diventare blu e decidiamo di, o siamo costrette a, non respirare. Troppo spesso, ancora, come in un bellissimo racconto di Virginia Woolf, La presentazione, in cui una giovane donna va a una festa in casa della signora Dalloway, ci rendiamo conto all’improvviso che tutto – «chiese e parlamenti, palazzi, persino i cavi del telefono» – è costruito dagli uomini. Anche quando non è materialmente vero. Perché, poi, il materiale che cos’è.
Quando ho iniziato questo pezzo, dicevo, non avevo nessuna intenzione di parlare dei jeans. Volevo parlare di Anna Karenina di Lev Tolstoj. L’ho letto in un inverno natalizio che però era come fosse estate, a Cuba, c’è scritto sulla prima pagina perché prima usavo i libri che leggevo come fossero diari. Scrivevo a matita dove li leggevo, quando, cosa stavo facendo in quel periodo. Così, pensavo, recuperando in seguito tutti i libri letti avrei potuto ricostruire la mia vita. Sulla prima pagina degli ET Classici Einaudi della mia copia di Anna Karenina, con la prefazione di Natalia Ginzburg e la traduzione di Leone Ginzburg, c’è scritto: «Cuba, dicembre 2016, editing terzo romanzo, non voglio tornare più a casa». Mentre leggevo, come faccio sempre, ho sottolineato dei passi che adesso so più o meno a memoria – l’incipit, il ballo di Anna e Vronskij, il parto di Kitty, i litigi di Anna con Vronskij dopo che lei è andata via di casa per stare con lui, il suicidio di Anna. Brani qua e là, di cui parlo molto spesso. Il libro per intero, però, colpevolmente non l’ho più riletto. Per cui potrei essere imprecisa, sbagliare dei dettagli. Ho deciso che non andrò a recuperare la versione reale di Anna Karenina, ma il libro che è nato dentro di me. Perché è l’Anna Karenina germogliato in me che mi ha parlato di quei jeans così osteggiati. Sul finire del romanzo, Anna ha lasciato suo marito Karenin con molto dolore, e vive con Vronskij. Ma quella che doveva essere gioia, è strazio. La società civile non riconosce più l’esistenza di Anna, adultera, e lei rimane tutto il giorno chiusa in casa senza nessuno che voglia vederla, mentre Vronskij se ne va felice per il mondo. Anna, imprigionata in quattro mura, è divorata dalla solitudine e dalla gelosia, e più si dice che esplicitare quella gelosia, litigare e lagnarsi con Vronskij lo farà allontanare da lei, più si promette che non litigherà mai più, più litiga, si lamenta, la prendono attacchi di folle tormento che, lei sa, sfiniscono il suo uomo. Non ce la fa più. Va in stazione – là dove è iniziato tutto, là dove ha conosciuto Vronskij – e decide di buttarsi sotto un treno, in preda alla disperazione. Sta per lasciarsi andare sotto un carrozzone, quando «inorridì di quel che faceva. ‘Dove sono? che faccio? perché?’. Voleva sollevarsi, piegarsi indietro, ma qualcosa di enorme, d’inesorabile le dette una spinta nel capo e la trascinò per schiena. ‘Signore, perdonami tutto!’ ella proferì, sentendo l’impossibilità della lotta. Un muzicjòk, dicendo intanto qualcosa, lavorava su del ferro. E la candela con la quale ella leggeva il libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, s’infiammò d’una luce più vivida che non mai, le illuminò tutto quello che prima era nelle tenebre, scoppiettò, cominciò a oscurarsi e si spense per sempre». Qualcosa di enorme, d’inesorabile ha spento per sempre la candela-Anna, la sua vividissima luce, e ha buttato tutto nelle tenebre, per sempre. Quel qualcosa di enorme, d’inesorabile, me lo sono sempre immaginato come una mano nera, gigantesca, che sbuffa e si sfalda come fumo e che ronza come un nugolo di mosche, una mano tutta terrena, però, che spinge la testa di Anna e non le permette di salvarsi, di cambiare idea. Ho sempre pensato che a uccidere Anna non sia lei stessa, ma gli uomini. Non tanto Vronskij e la sua leggerezza, quanto il mondo maschile (e femminile) che non perdona a una donna la decisione di fare le proprie scelte, il mondo morale a cui una donna si deve sempre uniformare, il mondo che nemmeno esige, ma dà per scontato che una donna stia al suo posto, zitta e sorridente. L’ha uccisa la violenza che ogni donna sperimenta, consapevole o meno, perché a volte ce ne dimentichiamo anche noi, non ci facciamo caso neanche noi tanto è consueta, tanto è quotidiana, la violenza latente che giudica la donna, può piegarla o non piegarla, ma che, quando esplode, ti può uccidere, o ti può annientare. Però, è vero, puoi spegnere una fiamma. Ma se cadendo questa fiamma incendia un’altra candela che andava spegnendosi, da quella lingua rossa si può generare un fuoco enorme, inestinguibile. Sarebbe bello un fuoco gigantesco di tutte le donne che, impazzite, e a cui non importa niente di essere impazzite, illumina tutto quello che ora è nelle tenebre, non rispetta nessuna regola o precetto; rivela i pregiudizi e le brutalità che, si sa, come i vampiri alla luce s’inceneriscono, e muoiono.
Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito più di ottanta scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. Ognuna con la propria voce e la propria esperienza.
L’iniziativa è nata grazie a un appello di Giulia Caminito e Annalisa Camilli
#unite
un’azione letteraria collettiva