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Un terribile sospetto: il potere rende più scemi

Dal Watergate in poi, ogni scandalo americano è pieno di uomini e donne che perdono la testa. Tradimenti, furore ideologico, mitomania ma soprattutto la convinzione di salvare la patria. Per fortuna ogni volta c’è una Nora Ephron che svela i dettagli

Del Watergate mi hanno sempre affascinato i dettagli. Non l’epica del giornalismo d’inchiesta e dello svelamento della sconcezza del potere, non le congetture sulle gole profonde, non il discorso con cui il presidente Richard Nixon infine si dimise, nel 1974, e in cui diceva che non era mai stato uno che lascia le cose a metà, ma meglio andare contro la propria natura che finire condannati per alto tradimento. Mi affascinano le storie parallele, i personaggi minori, la determinazione a rovinarsi pur di sedurre il potere, conquistarlo, annusarlo anche solo da un corridoio di servizio, iscriversi ai club esclusivi, incantare le donne come i presidenti, perdere la testa, fare cose molto sceme, proteggere i propri desideri convincendosi invece di stare salvando la patria.

Penso a Carl Bernstein, il giornalista del Washington Post che assieme a Bob Woodward ha svelato lo scandalo del Watergate, e vedo un signore oggi quasi ottantenne che è stato interpretato al cinema da Dustin Hoffman e Jack Nicholson, e che mentre tirava giù Nixon si innamorava di Nora Ephron, faceva con lei due figli, la tradiva con una spilungona e s’incazzava tremendamente quando lei si vendicava con quella meraviglia che è Affari di cuore, il romanzo su questo matrimonio in pezzi, il romanzo in cui Bernstein è un uomo che farebbe sesso anche con i paracarri: il romanzo sul potere e l’amore e Washington e dunque sul Watergate. Quando nel 2005 si è scoperto chi fosse la gola profonda che aveva regalato a Bernstein e Woodward la fama planetaria che conservano tuttora, l’ex direttore dell’Fbi, Mark Felt, cioè l’indiziato numero uno già dall’inizio, ma lui negava e tutti negavano e quindi si sono cercate altre gole un po’ meno noiose – ecco, quando Mark Felt ha detto: sono io, noi che guardiamo solo i dettagli abbiamo subito pensato: ma Nora Ephron lo sapeva, e infatti ha chiamato il marito traditore in Affari di cuore Mark Feldman, e Bernstein ha preteso che nell’adattamento cinematografico di quel libro che lui avrebbe bruciato il nome venisse modificato (Mark Forman).

Penso a John Dean, il consigliere di Nixon che cercò di insabbiare il Watergate, negò di essere a conoscenza delle cimici messe negli uffici della campagna per l’avversario democratico alle presidenziali George McGovern, poi decise invece di confessare infilandosi degli occhiali che non gli servivano per essere più credibile testimoniando al Congresso, e vedo sua moglie, Maureen Dean, impassibile seduta dietro di lui, il primo esempio di good wife che mi viene in mente. Oggi Dean è anche lui ultraottantenne, viene invitato in televisione ogni volta che c’è uno scandalo politico in America – durante la presidenza Trump era ovunque, sempre – dà lezioni di democrazia e di mai-vista-una-deriva-simile con una sfrontatezza che viene da credere che lui sia quello che l’ha svelato, il Watergate, non quello che lo ha fatto, ed è ancora sposato con Maureen Dean. “Mo” faceva l’hostess quando si sono incontrati, aveva due matrimoni falliti alle spalle (il primo marito in realtà era morto in un incidente stradale), ha assistito alla trasformazione del marito ferma, calma ed elegante nell’aula del Congresso e poi è diventata scrittrice, ha raccontato la versione femminile del Watergate e ha camuffato nel romanzo Washington Wives tutto quel che ha imparato sulle coppie di potere, sulle mogli dei politici, sulle torsioni che l’amore sa sopportare pur di ottenere un invito alle cene di gala della Casa Bianca. Maureen Dean non denuncia nessuna, non critica nessuna, non dà lezioni di democrazia: questa è Washington, questo è il potere, questi siete voi, noi, che quando intravediamo i marmi dei palazzi in cui vive la gente che conta diventiamo disposti a tutto per entrarci.

Penso a John Mitchell, il segretario alla Giustizia di Nixon e capo della campagna di rielezione del 1972, famoso per aver dato alla polizia americana quei poteri che oggi la rendono spesso violenta, ingiusta, criminale («Questo paese andrà così a destra che non lo riconoscerete più», disse a un giornalista, consegnando ai suoi necrologi, quando è morto nel 1988, titoli certi), e vedo sua moglie Martha Mitchell, popolarissima, chiacchierona, invitata in tv e amata dai giornalisti cui riservava lunghe conversazioni notturne fatte di pettegolezzi e di parole intercettate senza contesto dagli incontri di suo marito. Martha Mitchell era ben più famosa di John, la riconoscevano tutti, organizzava le feste più belle di Washington, si sentiva in diretta competizione, quanto a visibilità e potere, con la first lady Pat Nixon, e usava le sue apparizioni per dire quel che Mitchell non poteva, cioè che detestava le proteste contro il Vietnam, i comunisti e chi piagnucolava sullo strapotere delle forze dell’ordine.

Ancora oggi non si sa se furono i Mitchell a travolgere la Casa Bianca con il Watergate o se fu il Watergate a travolgere i Mitchell: la serie tv Gaslit, in cui Julia Roberts interpreta Martha e un irriconoscibile Sean Penn interpreta John, non dà una risposta, ma racconta la storia tragica di questa potentissima coppia, quel che succede quando lei è più famosa di lui e non vuole essere chiamata: la moglie di, quando il capo di lui gli ordina di contenere sua moglie e di impedirle di parlare dell’ultima cosa che ha orecchiato, l’intrusione al Watergate appunto, e lui la chiude in un albergo californiano, dice alle sue guardie del corpo di impedirle di leggere i giornali, guardare la televisione e telefonare. Martha Mitchell sopravvive a quella segregazione, si ribella, ricomincia a parlare con i giornalisti (anche con Bernstein e Woodward), di fatto costringe il marito alle dimissioni e poiché mentre gli scandali si compiono difficilmente chi sta fuori dal potere capisce quel che accade davvero, pur sentendosi informatissimo, un giornale titolò: «Mitchell lascia la politica per amore». L’amore era già stato sacrificato, Martha Mitchell divenne il bersaglio di una campagna di demonizzazione orchestrata dalla Casa Bianca che infine l’avrebbe annichilita. Nel 1977, quando il destino di questo scandalo si era ormai compiuto, Nixon disse in un’intervista a David Frost: «Sono del tutto convinto che non ci sarebbe stato il Watergate senza Martha Mitchell». Lei nel frattempo era già morta di tumore.

Penso alle cimici infilate dagli emissari della Casa Bianca nixoniana dentro alle intercapedini delle stanze occupate dal Democratic National Committee all’hotel Watergate, la violazione criminale che avrebbe portato all’impeachment del presidente, e vedo soltanto le prime informazioni che quella scandalosissima operazione era riuscita a racimolare: le telefonate della segretaria del comitato dei democratici in cui discuteva del suo taglio di capelli e del migliore parrucchiere di Washington. L’unica cimice che funzionava era in quell’inutile telefono.

La miniserie White House Plumbers, in arrivo su Sky l’11 giugno prossimo con il titolo Infiltrati alla Casa Bianca, racconta la storia di chi ha organizzato l’intrusione dentro l’hotel Watergate ubbidendo all’ordine della Casa Bianca: per rieleggere Nixon ogni mezzo è consentito, basta che nessuno sappia mai che noi ne eravamo al corrente. Conosciamo già la fine, ma Gordon Liddy e Howard Hunt, i due plumbers incaricati di sistemare i danni fatti dalla rivelazione dei Pentagon Papers – si chiamano idraulici perché la loro missione è «fix the leaks», aggiustare le perdite, cioè le indiscrezioni – e di inventarsi trucchi per garantire nel 1972 a Nixon la vittoria su McGovern. Liddy e Hunt sono in questo momento i miei dettagli preferiti del Watergate, non solo perché ora e per sempre avranno per me i volti, la voce e la fisicità di Justin Theroux e Woody Harrelson, ma anche perché spiegano che cosa succede quando i fedelissimi perdono ogni inibizione e razionalità per far eleggere il loro re, anche quando questa fedeltà è mossa dall’opportunismo, dall’occasione, dalla contingenza. David Mandel è il regista della cinque puntate e poiché è stato un autore del Saturday Night Live, Seinfeld e Curb Your Enthusiasm, e ha prodotto Veep, costruisce una tragicommedia che tiene insieme la complicità tra due alleati per caso, il desiderio di riscattarsi dopo carriere mezze fallimentari, la convinzione di star salvando l’America dal comunismo e quindi di essere gli unici, veri, devotissimi guardiani del futuro del paese, l’ambizione di essere ringraziati da Nixon in persona ma intanto di potersi iscrivere ai quattro club più esclusivi di Washington senza essere rincorsi da gestori imbarazzati che ricordano che i conti non sono stati finora pagati. La scemenza, soprattutto, di chi essendo disposto a tutto dimentica le cose essenziali – come gli attrezzi giusti per scardinare una serratura: ci sono dovuti andare quattro volte all’hotel Watergate, questi servizievoli impiegati della rielezione, prima di compiere la missione, e l’ultima volta sono stati arrestati in flagranza di reato – e anche le proprie priorità.

Si può pensare che Mandel abbia voluto fare una caricatura di questi due improbabili idraulici del potere di Washington, ma non è così, come raccontato nel libro da cui è tratta la serie, Integrity: Good People, Bad Choices, and Life Lessons from the White House, scritto da Egil Krogh, che era l’uomo scelto dalla Casa Bianca per guidare l’unità speciale di intelligence che doveva evitare che gli affari dell’Amministrazione finissero sui giornali, il capo degli idraulici. Gordon Liddy era davvero uno che dimostrava la propria lealtà fisico-morale tenendo la mano sulla fiamma di una candela fino a bruciarsela, era davvero uno che recitava a memoria, appassionato e quasi commosso, i discorsi di Hitler, era davvero uno che avrebbe preferito morire piuttosto che tradire Nixon («Fai solo in modo che sia un colpo secco alla testa», dice). Così come Howard Hunt era davvero a Dallas il giorno in cui fu assassinato Kennedy, ha davvero convertito la sua carriera di spia in quella di scrittore (prolifico peraltro, settanta libri, di cui una trentina con pseudonimo, quasi tutti romanzi di spionaggio) e ha davvero tirato su la squadra degli infiltrati tra i cubani che, come lui, si sentirono traditi da Kennedy durante la crisi della Baia dei Porci. Il riscatto era il movente di Liddy e Hunt, salvare l’America dai comunisti era la loro missione. Nel mezzo, la scemenza ha avuto il sopravvento sull’ideologia, che poi è quel che avviene più spesso di quanto crediamo. Quando di fronte a scandali anche di piccole dimensioni pensiamo: no dai, non possono tutti essere così scemi, di solito lo sono.

Assieme alla serie dei plumbers è stato prodotto anche un podcast di interviste agli attori, agli autori e di contestualizzazione dei fatti storici condotto da Oliva Nuzzi, brillante reporter del New York Magazine, tra le più grandi e informate giornaliste che si occupano degli scemi di oggi: i trumpiani. Il collegamento con l’attualità è piuttosto immediato, Mandel dice che ha scelto Gordon Liddy e Howard Hunt proprio per raccontare che cosa succede quando il fervore ideologico incontra l’urgenza di riscatto personale, quando il potere esercita il suo irresistibile fascino e distrugge il pur minimo istinto di sopravvivenza, quando si sacrifica ogni residuo di razionalità per sconfiggere un nemico immaginario. E quando di fronte a tutta questa incredibile, comica, tragica scemenza resta intatta la convinzione di star facendo la cosa giusta per il proprio paese. Mentre guardavo i plumbers inventarsi modi scombiccherati per intrufolarsi nell’hotel dei democratici – nella squadra c’era anche Jim McCord, un ex agente della Cia, ex responsabile della sicurezza di Nixon poi assunto dalla campagna di rielezione per garantirne la sicurezza, cioè per controllare che non si sapesse nulla delle operazioni segrete e proibite: quanto scemi bisogna essere per mandare fisicamente in una missione illegale un uomo così vicino a Nixon col rischio, avveratosi, che venga arrestato in flagrante? – mi sono venute in mente le dichiarazioni di alcuni degli assalitori del Campidoglio, il 6 gennaio del 2021. Dicevano: siamo qui per proteggere la democrazia dai brogli dei democratici, per dare al nostro paese il suo legittimo presidente, Trump. Questi rivoltosi con le corna e le tute mimetiche, le fascette per legare i polsi agli ostaggi e le bandiere confederate, erano convinti di essere i custodi della democrazia nel momento stesso in cui incendiavano il palazzo in cui la democrazia americana si esprime. E per quanto mi sembri spaventoso quel che è accaduto il 6 gennaio a Washington, non riesco a levarmi dalla testa l’idea che anche in questo caso si sia dimostrata più temibile la scemenza del solo fervore ideologico. Ne ho quasi la certezza quando penso a Rudy Giuliani, l’ex sindaco di New York della sicurezza e del cordoglio post 11 settembre, uno di quei repubblicani atipici da cui i liberal newyorchesi amano, per ragioni perverse, farsi governare, libertino, mondano, bullo, ambizioso, finito a sancire sopra un angolo di cemento di fronte al “Four Seasons di Philadelphia” la fine della presidenza Trump e l’inizio dell’azione eversiva contro “il furto” dei democratici e contro “l’imbroglione” Joe Biden. Sempre Olivia Nuzzi, che è la Giulianologa più brava che c’è (a luglio sarà disponibile su Apple tv il documusical Rudy! presentato al Tribeca lo scorso anno, al quale la Nuzzi ha partecipato in quanto informatissima dei fatti), ha fatto

«la ricostruzione più completa possibile» di quel che è accaduto il 7 novembre del 2020, quattro giorni dopo le presidenziali, quando la sconfitta di Trump era acclarata ma comunque inaccettabile per lui e per i suoi sodali – come lo è tuttora – e quando l’avvocato del presidente Rudy Giuliani convocò una conferenza stampa per dettagliare i brogli elettorali al Four Seasons di Philadelphia, ritrovandosi poi a parlare ai (tanti) giornalisti sul cemento di fronte a una palazzina dell’azienda di giardinaggio Four Seasons, piazzata in mezzo a un sexy shop e a un crematorio (due settimane dopo, ci sarebbe stato l’altro grande momento della gestione di Giuliani del post voto, quando cominciò a colargli sul viso sudore color tinta dei capelli). Nel momento più importante del piano di un golpe democratico studiato, come abbiamo capito in seguito, nei dettagli, lo staff dell’avvocato di Trump più noto, più estroso, più determinato, più fedele sbaglia numero di telefono, chiama un’azienda di giardinaggio che si chiama Four Seasons, che è di proprietà di una famiglia trumpiana e che quindi accetta orgogliosa di ospitare una conferenza stampa che cambierà, questo sì, il post trumpismo, quindi tutta la politica del Partito repubblicano. È un po’ Veep che incontra i plumbers, la sintesi del potere della scemenza e della necessità di idraulici che sappiano fare il loro mestiere.

Non è un’esclusiva dei repubblicani, come racconta, facendo molto ridere, il saggio The Big Break: The Gamblers, Party Animals, and True Believers Trying to Win in Washington While America Loses Its Mind. È scritto da Ben Terris, autore del Washington Post, è in uscita a inizio giugno negli Stati Uniti e racconta le storie di consiglieri, addetti alla comunicazione e giornalisti che, per ambizione e visibilità, combinano guai a esponenti del Partito democratico e a sé stessi. Scemenza, potere, qualche funghetto allucinogeno e una canna fumata alla scrivania di un senatore, fervore ideologico: c’è tutta Washington, idraulici, mogli, amici, corridoi secondari e la determinazione di proteggere l’America, anche a costo di perdere la testa.

Gordon Liddy e Howard Hunt hanno passato del tempo in prigione assieme, hanno preso poi strade diverse rispetto al Watergate e alla strategia scelta per la loro riabilitazione. Non si sono mai più parlati.

Paola Peduzzi (Milano, 1976), vicedirettrice del Foglio.