Durante le feste scorse, appena si è sparsa la voce che ero positivo sono stato inondato dai post ironici (non sono un devoto di sua maestà ironia, io sono per l’allegria) di chi giocava con la mia Penso Positivo e il Covid. Non che non me lo aspettassi, già due anni fa quando sentivo parlare di positivi e negativi il mio pensiero andava a quella mia canzone che amo tanto e fissavo la data della fine di questa storiaccia globale in quel punto del futuro in cui potrò rifarla dal vivo riappropriandomi del senso positivo della parola positivo. Del resto io misuro tutto con le canzoni, soprattutto le mie. Forse per questo, mi domando, sono due anni che non riesco ad ascoltare canzoni a forma di canzone (progressioni armoniche e liriche strutturate in: strofa ritornello inciso strofa ritornello bridge ritornello fine) tranne quelle che ho scritto in questi mesi. Temo che sia perché la canzone è una forma chiusa, che “risolve” (anche nel linguaggio musicale si usa questo termine). La canzone è fatta di cerchi, si allontana dal suo centro e poi risolve, ricade, riatterra alla base. Il successo enorme della forma pop della canzone deriva in gran parte dalla capacità che ha quella forma, quando espressa bene, di rassicurare. Anche quando suona ribelle, alla fine lei risolve. Anche la canzone, come tutte le forme narrative, diviene universale quanto più riesce a stare sulle tracce de L’eroe dai mille volti e delle sue leggi così ben descritte da Joseph Campbell.
In questi due anni passati io invece niente, provavo disagio ad ascoltare “canzoni”, riuscivo a sentire solo roba aperta, che non risolve mai, e ne ho ascoltata a sfinimento. Accordi SUS (sospesi, appunto) come se piovesse. Alla fine dell’anno l’algoritmo di Spotify (che ci conosce meglio di come noi ci descriviamo a noi stessi) mi ha detto che la musica che ho ascoltato di più è stata quella dell’Orchestra Baobab, una band storica senegalese specializzata da molti decenni in generi aperti, forme musicali fluide. Genere più ascoltato: Desert blues, che è una definizione posticcia di cose varie e meravigliose che si producono nell’area del Sahel (l’etichetta Sahel Sounds ne pubblica un catalogo coi fiocchi). È una musica che assomiglia molto a un paesaggio semidesertico e nomade, aperto anche quando è urbano e distorto. In un tempo in cui ci si chiude non si può che ascoltare musica aperta, per me è stato così.
Stessa cosa mi è successa con i libri, ne ho letti un kilometraggio ampio, e tutta roba che mi parlava di strade polverose, mari in burrasca, latitudini estreme, navigatori, pazzi, viaggiatori, esploratori, avventurieri, sperimentatori di stati di coscienza aperti, detective selvaggi. Rileggere I detective selvaggi di Bolaño è stato bellissimo, ogni cinque righe mi capitava di alzare gli occhi dalla pagina per immaginarmi lì con quei ragazzi e quelle ragazze eternamente selvaggi alla ricerca della poesia dove non era previsto ci fosse. Di poesia ne leggo molta, e anche in questo caso dopo una grande cotta per le forme chiuse, il sonetto soprattutto (dagli stilnovisti a Michele Mari) in questo periodo no, l’attenzione si fermava solo quando sfogliando una raccolta incappavo in una pagina in cui i versi prima ancora di leggerli avessero forma di nuvola, di vento, di pozzanghera o di perline gettate a caso. Cortazar, Ezra Pound, Cappello, Nicanor Parra, Kazantzakis, Benedetti, Alvaro Mutis, soprattutto i miei amati latino americani, da quella terra abituata all’incertezza, alla natura che non si addomestica, ai sincretismi di ogni tipo, alla nostalgia, alla speranza mal riposta ma pur sempre speranza.
Quando poi è arrivata la positività, e mi sono dovuto chiudere nella stanza degli ospiti proprio come un ospite, senza libri di carta a disposizione mi sono dedicato agli audiolibri, finalmente rompendo un pregiudizio che avevo rispetto a questo formato. Credo che l’audiolibro sia perfetto per rileggere un libro che abbiamo amato. Il Colosso di Marussi di Henry Miller, uno dei miei più idolatrati e regalati, e poi Le voci di Marrakech di Elias Canetti nell’app di Radio 3 (fatta molto bene) letto magistralmente da Toni Servillo, wow! Alla fine del viaggio a Marrakech ho iniziato ad ascoltare l’audiolibro dei Diari di Etty Hillesum e alla terza puntata ne ho ordinata una copia per mia figlia, che è una lettrice fortissima, perché penso che sia un testo fondamentale da portarsi nella vita. Saluto i lettori di Review con una sua frase: “Sappilo, Dio: farò del mio meglio. Non mi sottrarrò a questa vita. Continuerò ad agire e a tentare di sviluppare tutti i doni che ho, se li ho. Non saboterò nulla. Di tanto in tanto, però, dammi un segno. E fa’ in modo che esca da me un po’ di musica, fa’ in modo che trovi una forma ciò che è in me, che lo desidera così tanto”.