Il giorno più brutto della mia vita è stato il 25 aprile del 2023. Avevo cinquant’anni e sei mesi e una settimana, e due settimane dopo sarebbe uscito un mio libro su quant’ero lieta d’avere l’età che avevo: non era un libro sulla menopausa (in quel periodo ne aveva pubblicato uno Paola Barale, e mica sono scema a mettermi in competizione), ma il termine «menopausa» compariva qua e là nel testo come metonimia di molte cose. Del caldo. Della perdita di memoria. Del modo migliore per raggelare una conversazione. Insomma, era un libro nel quale davo per scontato d’essere in menopausa, come lo davo per scontato nella vita. Aggiungendo anche, nella vita, un’affermazione per la quale venivo da mesi spernacchiata da tutti i medici: il vaccino mi ha mandata in menopausa. Ma in che modo il vaccino influisce sul ciclo, mi domandava con sussurrata disperazione la mia ginecologa, e io pronta le fornivo link ad articoli americani secondo i quali era un effetto diffuso (quando ci chiediamo perché ogni genere di paranoia attecchisca, la risposta è: troppi laureati, troppi dottorandi; non c’è ipotesi bislacca che non si possa supportare dicendo «C’è uno studio che dice che»). Magari ci sei andata perché hai l’età per andarci, insisteva lei, ultimo baluardo del reale e del razionale. Non ero affezionata alla mia idea che c’entrasse il vaccino, ero disposta a concedere d’essere vegliarda: mi bastava aver smesso d’essere sempre a rischio capretto sgozzato. Non sono abbastanza coraggiosa da raccontarvi di quel negozio scicchissimo in cui non sono mai più potuta entrare dopo che ho iniziato a sanguinare tipo aborto spontaneo mentre mi provavo una qualche gonna da sera, dico solo: avere l’endometriosi nel Novecento era più temprante che fare il militare a Cuneo. Altro che caroselli di Instagram in cui cianciare di «malattie invisibilizzate» rispetto a una sindrome che ormai sta sui giornali assai più dell’impotenza (è d’altra parte vero che per l’impotenza si sono inventati medicinali e per l’endometriosi no: non capisco perché nessuno la eufemizzi con «male incurabile», considerato che tecnicamente lo è), altro che interrogazioni parlamentari: la cosa più gentile che dicevano, a noi capretti sgozzati ogni mese daccapo, a noi incarnazioni inspiegabili e precocissime di quella battuta di South Park sulle donne che sanguinano per giorni e poi non muoiono, a noi realizzazioni nella realtà del mito di Prometeo col fegato mangiato ogni giorno e che ricresceva ogni notte, la cosa più gentile che ci dicessero nel Novecento era «quante storie, le mestruazioni le hanno tutte e nessuna la fa così lunga». Ricordo un’estate in barca a vela a Malta, doveva essere l’87 o l’88, io chiusa in cabina a morire di crampi e di emorragia, e mia madre scocciatissima, «Devi sempre farti notare». Una quindicenne di oggi ci farebbe quindici video su TikTok da cui trarre quindici memoir, sulla – come la chiamano loro – invalidazione del suo dolore. Io sono piuttosto contenta d’essere cresciuta in un secolo in cui tra le opzioni educative era prevista quella «Ma non rompere i coglioni», mica sono qui per la rivalsa: sono qui per dire che dopo una vita di caprettitudine sgozzata, dopo una vita di pillola anticoncezionale come unico modo di tenere il tutto sotto controllo ma avrò cambiato venti pillole e non ce n’era una che non mi desse problemi, e soprattutto non sono mai diventata capace di ricordarmi di prenderla ogni giorno, dopo l’illusionismo d’un intervento che rimuove il macello che ti si forma tra gli organi riproduttivi e per due mesi sei una persona normale che mestrua educatamente in dosi che le permettono di entrare nei negozi sciccosi, ma l’endometriosi è meno pigra di me e in due mesi ha già riformato roba, dopo che la ginecologa romana mi aveva prospettato di dovermi rioperare ogni anno, dopo una vita così, il giorno in cui sono andata da una ginecologa non romana e quella mi ha detto «Ma mica puoi dissanguarti ogni mese» e mi ha prescritto la salvezza, cioè l’anello di silicone per l’invenzione del quale io trovo inaccettabile non sia stato conferito il Nobel per la medicina e pure quello per la pace, ecco, a quel punto, con mestruazioni finte da anticoncezionale ormonale e quindi non più destinata a essere il capretto sgozzato ogni mese, a quel punto è successo quel che Fossati ha saputo sintetizzare meglio di me. E dopo centomila ore non c’è un minuto di più.
Non ricordo che anno fosse quando la mia salvatrice mi ha svelato l’esistenza dell’oggetto che più ha cambiato la qualità della mia vita (pari merito con l’aria condizionata, ma poi ci arriviamo), perché allora non sapevo che quello in cui compravo il primo anello di silicone era un momento storico, e che finalmente avrei potuto smettere di vivere un terzo in meno perché per un terzo dei giorni avevo un’autonomia d’un quarto d’ora prima di finire nel camerino d’un negozio a espellere grumi di sangue su seta ricamata. Tra le ragioni per cui non ho segnato sul diario l’evidente miglioramento, l’oggettiva invalsa gestibilità, c’è che dopo centomila ore io avevo esaurito la pazienza: mi pareva inaccettabile anche il ciclo finto e beneducato che arrivava nella settimana di pausa dell’anello, dopo che non avevi ovulato e quindi il tuo endometrio non s’era agitato. Dopo centomila ore, che Fossati non poteva immaginarlo ma sono i più o meno trent’anni di caprettosgozzataggine per dieci giorni al mese che mi erano toccati fino alla normalizzazione, io ero in quella condizione che a Bologna si indica con l’espressione «non volerne più mezza»: non ne volevo più mezza di sanguinare anche poco e brevemente, mi sembrava un sopruso, un’ingiustizia, un promemoria della cretineria militante del femminismo di questo secolo, dove – invece di pretendere che per quella barbarie che è il ciclo mestruale si trovi una cura – quelle parlano dell’iva sugli assorbenti e di quanto è rivoluzionario farsi colare il sangue giù per le gambe (vi farei avere cicli non educati, poi vedete come vi passa la voglia). Mi pareva inaccettabile, avevo passato i quaranta, e quando ero piccola, molto prima che Angelina Jolie lo rendesse un intervento à la page, ricordo che mio padre diceva che una donna doveva farsi togliere le tette e l’utero e le ovaie, riducendo così il 90 per cento dei rischi di tumore (una statistica che chissà dove aveva preso, allora neppure c’era TikTok), e doveva farlo quando ormai i figli che doveva fare li aveva fatti: a quarant’anni. Quarant’anni erano la fine della fertilità, me l’aveva promesso il complesso di Elettra.
Ho trovato un messaggio scritto a quarantasette anni, a un tizio che mi diceva «voi persone con le mestruazioni», sentendosi assai più spiritoso che se mi avesse scritto «voi donne», e io letteralista come lo si è sulle questioni davvero sentite rispondevo «sono anni che chiedo a tutti i medici che incontro “ma io ormai non dovrei essere in menopausa”, e quelli mi rispondono “no”». Una volta la ginecologa romana, avrò avuto trent’anni e bramavo la menopausa assai più che a quaranta, essendo i trenta nel pieno di quella fase della mia vita che abbiamo stabilito di chiamare caprettosgozzataggine, la ginecologa romana una volta in cui le chiesi se fosse possibile un miracolo, conosco una che è stata male ed è andata in menopausa a trentotto, perché io no, la ginecologa quella volta mi disse che se ci fossi andata prima dei cinquanta mi avrebbe dato non so che medicine per farmela passare, l’agognata menopausa. Verranno a chiedermi perché me ne sia andata da Roma, risponderò: la ginecologa mi minacciava.
Le mie amiche non mi hanno mai capita. Forse solo Maurizio Ferrini mi avrebbe successivamente capita, quando – qualche settimana dopo la giornata più brutta della mia vita – avrebbe, travestito da signora Coriandoli, cantato nel programma di Fabio Fazio quella canzoncina in cui diceva che «la menopausa, senza offesa, è meglio della pubertà». Le mie amiche no, perché diversamente da Ferrini e da me loro non ci tengono affatto a far ridere; loro ci tengono tutte tantissimo a essere seduttive, e quindi pensano che la fine della fertilità coincida col loro essere pronte a venire buttate nell’umido. Le mie amiche non solo rifiutano l’idea della menopausa per loro stesse, ma pure per me; siamo più o meno coetanee: se smetto di sanguinare io, vuol dire che anche per loro la fine è vicina. Insomma io avevo smesso di usare l’anello a ottobre del 2022, come smettevo ogni volta che c’era da fare il vaccino, perché se sono abbastanza superstiziosa da pensare che il vaccino mi mandi in menopausa figuratevi mai se non lo sono abbastanza da pensare che un contraccettivo ormonale mi faccia, in caso di vaccino, almeno venire un embolo. Quindi niente più ciclo finto, e niente più neanche ciclo vero. Oddio, sono in menopausa. Oddio, che meraviglia. È come quando aspetti centodue anni che lui lasci la moglie e poi la lascia davvero. Scherzo, è molto meglio: non solo non sanguini, ma neanche ti ritrovi per casa in ciabatte un uomo che eri abituata a frequentare solo in momenti selezionati.
L’inverno 2023, con la certezza della menopausa, era stato stupendo. Avevo scritto il mio libro sui cinquant’anni, Cristina Fogazzi mi aveva mandato un vagone di magliette con la scritta «menopausa», di quelle in omaggio per le sue clienti, ero felice. Come nelle commedie romantiche, doveva arrivare la batosta: senza secondo atto non si va da nessuna parte. E quindi eccoci al giorno più brutto della mia vita. Non brutto quanto quello di Brooke Logan in quella puntata di Beautiful in cui, dopo tre decenni a scoparsi tutti i Forrester, dopo figli e nipoti, è convinta d’essere infine in menopausa, e il medico le dice che è incinta – ma quasi. È il 25 aprile, e Antonello Venditti aveva sempre avuto ragione: e la chiamano liberazione, questa giornata in cui ricomincio a sanguinare. La ginecologa è di turno la notte al pronto soccorso e, essendo io stata convincentissima nel dichiararmi in menopausa, mi fa andare a farmi visitare: sarà successo qualcosa, sarà esplosa una cisti, sarà – le sei parole più brutte del mondo non le pronuncia un uomo con una valigia sul pianerottolo, «l’ho lasciata, mi trasferisco da te»; le sei parole più brutte del mondo le pronuncia una dottoressa che ti sta facendo un’ecografia: «A me non sembri in menopausa». Come cazzo è possibile, ho anche la maglietta. (La indosserò alla prima presentazione di quel libro sui cinquant’anni, tre settimane dopo, e la crudele presentatrice – crudele ma soprattutto terrorizzata di smettere di sanguinare, lei che sanguina in modica e socialmente presentabile quantità – la indicherà dicendo al pubblico «Non è vero». Sbugiardata oltre che non esentata dall’incubo mensile: datemi anche due schiaffi).
Il giorno della non liberazione, la dottoressa mi consiglia di rimettermi l’anello, «che è anche protettivo rispetto ai tumori», ma prima di farlo devo andare la mattina dopo a fare le analisi, acciocché un laboratorio confermi che sono proprio mitomane e non sono mica mai stata in menopausa. Quando arrivano dei numeri incomprensibili glieli giro, sono contraddittori, non capisco, e lei mi risponde che non sono contraddittori: è la premenopausa.
Ora, a questo punto si apre un problema lessicale. Ci sono cose che fino a cinque anni fa non esistevano. Le neurodivergenze. Il cortisolo. La premenopausa. Adesso, ogni volta che apro Instagram c’è qualche derelitta la cui vita guardo attraverso la telecamera del telefono che si accende addosso (lei la accende invece di trovarsi un lavoro vero, io la guardo invece di leggere Musil) che mi dice che credeva d’essere disordinata, pigra, ottusa, con un brutto carattere, ma no: ha il disturbo dell’attenzione. Ma quindi noi disordinate e pigre e con un carattere di merda non esistiamo più? Siamo solo mancate diagnosi? Non lo so, perché nel frattempo, sempre su Instagram, stanno passando quindici pubblicità che mi dicono che se non somiglio a Cindy Crawford è perché ho il cortisolo sballato, e se solo mi accatto l’integratore che vogliono vendermi perderò quarantotto chili in dodici giorni.
La premenopausa non esiste, non è mai esistita, nessuno ne ha mai parlato, fino a tre quarti d’ora fa. Adesso, tutti i sintomi che il mondo aveva sempre attribuito alla menopausa, dalle caldane in giù, sono improvvisamente segni che sei in premenopausa, qualunque cosa sia. E tutte le pubblicità, se non vogliono vendermi integratori di cortisolo o app per combattere il deficit dell’attenzione, vogliono vendermi un inquadramento nella premenopausa di qualunque cosa io abbia. Sei insonne? Premenopausa (ma non era il cortisolo?). Sei isterica? Premenopausa (ma non era il disturbo dell’attenzione?). Sei grassa? Premenopausa (tranne una pubblicità che mi giura che il grasso sia emotività trattenuta e mi propone una roba dal suggestivo nome di «yoga somatico» che mi libererà i fianchi dalle emozioni, un po’ come quando quella partoriva il mostro in Visitors).
Quando dico che la premenopausa non esiste, le mie amiche giurano che non è possibile: anche loro come me hanno iniziato ad avere caldo (dopo decenni a sopportare che chiedessero di spegnere l’aria condizionata), è chiaramente la premenopausa. Non saprei, io ho caldo da almeno tre decenni. Ho installato per la prima volta l’aria condizionata a casa nel 2003, e mi chiedo come facessi a sopravvivere prima di allora. L’ultima volta che ho avuto freddo andavo a scuola, poi una vita di caldane. Non ricordo niente di nessun fidanzato, ma ricordo un tizio con cui copulai una volta nell’estate del 1994, in un appartamento in quei vicoli di Roma in cui l’aria è immobile e altro che ponentino, si moriva di caldo e io bevevo litri d’acqua per la disperazione, e lui a un certo punto disse «è l’acqua che ti fa venire caldo, se non bevessi non avresti caldo», e lo disse con la sicumera dei ventenni, col piglio di chi non sa niente ed è certo di tutto, e io ero giovane e impressionabile e non ho praticamente più bevuto acqua, anche adesso che ogni volta che ci ripenso mi dico «ma pensa te che stronzate dice la gente» comunque nel sottoscala della ragione m’è rimasto il dubbio che questo bicchiere d’acqua mi farà venire caldo.
Ho sanguinato per l’ultima volta su un palcoscenico, era un festival estivo, si moriva di caldo ma pioveva, si moriva di caldo e avevo dei capelli schifosi, ma non era importante perché sanguinavo garbatamente, era il ciclo finto dell’ultimo anello. La ginecologa mi aveva detto di smetterlo dopo un anno e, dopo un paio di mesi senza, rifare le analisi: vediamo se il prelievo mi svela ancora una volta mitomane, ancora una volta insoddisfatta, ancora una volta incapace di raggiungere l’agognato obiettivo. E invece. Il giorno più bello della mia vita è stato il 9 settembre del 2024, quando sono arrivati i risultati, che stavolta non erano contraddittori, ma per sicurezza li ho mandati comunque alla ginecologa, e poi ho fissato lo schermo finché non è arrivato il messaggio più atteso, che non è quello che ti dice che hai vinto il Nobel per la letteratura, non è quello in cui il tizio con la valigia sul pianerottolo ti dice che ha cambiato idea e torna dalla moglie, non è neanche quello che ti dice che c’è un inedito di Tom Wolfe in cui ti nomina sua erede spirituale (ecco, ora penso a Tom Wolfe che con aria schifata legge sei pagine su una che sanguina ma, beato lui, a quel punto non gli viene automatico controllare se non si sia macchiato il completo bianco).
Il messaggio più bello del mondo è quello con cui la ginecologa ti puntesclamativa i nuovi numeri: «Sei in menopausa!». Non so a chi comunicare la mia gioia, nessuna amica è abbastanza in pace con lo scorrere del tempo da capire quanto sia bello smettere di sanguinare. Mi viene in mente mia madre quarantenne, che alla piscina del circolo del tennis guarda quelle con pochi anni più di lei che ci tengono a dire che quel giorno non possono fare il bagno perché hanno le loro cose (com’è successo che «le mie cose» sia divenuto il modo più garbato di dire che sanguini? Non era meglio «il marchese»?), le guarda da lontano e sibila: «Queste vecchie sempre a cavallo di un pannolino». Per fortuna ho un’amica novantacinquenne, lei non sentirà messa in discussione la sua fertilità se le annuncio la lieta novella. Le scrivo che sono finalmente in menopausa e dobbiamo festeggiare. Natalia risponde: «Però attenta ai baffi!». Sono pronta, in cambio di questa liberazione, a diventare gemella di Hercule Poirot, e attendo con calma e voluttà che Instagram mi pubblicizzi un integratore, un corso di pilates, una app che mi liberino magicamente dall’irsutismo.