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Un’unica domanda: è alcolizzata?

La prima telefonata quasi muta, l’ossessione di piacerle. Poi il vuoto, la rabbia, il desiderio indegno. L’immensità dell’adozione fuori e dentro la pancia di una donna, e la seconda volta che l’ha resa madre per sempre

In undici mesi sono diventata madre due volte. In nessuna sono stata incinta. La prima volta è stato grazie a una ragazza di nome Candace. Trentenne, caucasica, gioventù molto sbandata, già cinque figli, poche informazioni sul padre di questo nuovo bambino se non che si trattava di un uomo afroamericano: il suo caso ci fu presentato così, con una manciata di notizie che avrebbero potuto intimorire qualsiasi altra coppia, ma che non spaventarono me e mio marito, in attesa da ormai troppo tempo. La nostra unica domanda fu se era alcolizzata. Tra tutti i corsi e i seminari che io e Dan avevamo frequentato per prepararci all’adozione, quello che ci era rimasto più impresso era stato quello tenuto dalla dottoressa Melissa Goldstein, pediatra esperta in adoption medicine con una lunga esperienza in Russia, che ci aveva spiegato che la cosa più dannosa di tutte era la dipendenza da alcool, addirittura più di quella da cocaina o da oppiacei. L’altra cosa che ci aveva spiegato era che l’idea dell’adolescente di buona famiglia che rimane incinta durante le superiori e consapevolmente, con tutta la maturità e la calma di questo mondo e con alle spalle una famiglia comprensiva e presente, decide di intraprendere un’adozione – alla Juno, per capirci – era una cosa che si vedeva ormai solo nei film e che se volevamo diventare genitori avremmo dovuto ridimensionare le nostre aspettative. Io e Dan ne eravamo consapevoli: questo viaggio assurdo aveva già richiesto tanti di quegli aggiustamenti rispetto alla nostra idea di famiglia che ormai poco o nulla ci sconvolgeva. “No, Candace non beve e non si droga”, rispose l’assistente sociale.

Una delle prime cose che agenzia e assistenti sociali ti insegnano è a parlare: l’adozione ha un linguaggio tutto suo, che va rispettato. Espressioni come “dare via il bambino” non vanno mai usate, ad esempio, per non far sentire alla madre che la si sta giudicando e si sta attribuendo alla sua scelta un valore negativo. Altre frasi da non utilizzare sono “io non potrei mai farlo” o “gli hai garantito un futuro migliore”. Non si possono fare domande sulla sua famiglia, sul padre, sulla situazione economica. Non si può dire “mi dispiace”. La prima telefonata con la madre biologica è quindi un surreale campo minato. O almeno lo fu la nostra con Candace: paralizzati dal terrore di dire inconsapevolmente qualcosa di offensivo, io e Dan ci limitammo a balbettare considerazioni sciocche sul clima di Baton Rouge, dove lei viveva, e su quante e quali volte eravamo stati in Louisiana, con il tono cordialmente imbarazzato che si ha con quei parenti alla lontana che si frequentano solo ai matrimoni e ai funerali. Io, in realtà, feci quasi scena muta, lasciando gran parte della conversazione sulle spalle di Dan. Ossessionata dalle mie insicurezze, trovandomi ogni volta stupida e inadeguata, persino indegna nel mio desiderio di essere madre proprio ora, così tardi, continuavo a ripetermi che se fossi stata al posto suo, non ero così sicura che avrei scelto me come madre adottiva del mio bambino e non invece una donna più giovane, magra, bella, in forma, intelligente, ricca. “E se le dà fastidio il mio accento? Si sente chiaramente che non sono americana”, arrivai persino a chiedere a mio marito. Volevo piacerle a tutti i costi, volevo che pensasse che sarei stata la migliore delle madri, volevo che vedesse in me quello che neanche io stessa, per tanto tempo, ero riuscita a vedere. Al termine di quella prima telefonata che per me era stata un disastro, Candace ci chiese se volevamo sapere il sesso. Non facemmo in tempo a mettere insieme una risposta che lei ce lo disse: femmina. Io e Dan ci abbracciammo con le lacrime agli occhi. Dopo neanche una settimana Michelle, la persona che seguiva il nostro caso, ci comunicò che sì, voleva noi. È in quel momento che diventai madre per la prima volta. Non c’erano più insicurezze, non c’erano più dubbi su me stessa. Scegliendo noi, una donna della Louisiana che non avevo mai visto aveva fatto di me una madre.

Per i seguenti quattro mesi io e Candace ci parlammo al telefono ogni settimana, scambiandoci messaggini tra una telefonata e l’altra. Lei mi raccontava degli altri suoi figli, io, quando sapevo che aveva una visita medica, le mandavo un saluto solo per dirle che la stavo pensando. Quando fece l’ecografia tridimensionale commentammo insieme il naso schiacciato della bambina, ridendone molto. Stavamo diventando amiche? Non lo so, ma so che quella bambina che stava crescendo nella pancia di un’altra donna, stava crescendo anche dentro di me. Per scaramanzia giurai a me stessa di non comprare nulla, nessun vestitino, copertina o scarpina, ma in compenso passavo intere mezzore davanti alle vetrine dei negozi per neonati, fantasticando. Ingrassai, persino. Avevo mille domande, ma non potevo farne nessuna. A Natale mandai regali a lei e ai suoi bambini: erano i fratelli biologici di mia figlia, sentivo di amarli e già mi immaginavo i Natali futuri, una grande famiglia allargata che li avrebbe trascorsi insieme.

“Avete già scelto il nome?”, chiese Candace un giorno. Dissi di no, mentendo. Avevo paura che non le sarebbe piaciuto, che avrebbe potuto cambiare idea, che non lo ritenesse adatto a una bambina mezza bianca e mezza afroamericana. Gliene proposi tre e lei scelse proprio quello che avremmo scelto noi. Un’altra volta mi domandò se io e Dan volevamo essere presenti al parto. Rispondemmo di sì, ma solo se a lei faceva piacere. Intanto mancavano solo due settimane. Non potendo più rimandare, facemmo tutte quelle cose che per scaramanzia avevamo aspettato a fare: prenotammo l’aereo e una casa su Airbnb dove stare i primi giorni nell’attesa dei documenti per lasciare lo stato, discutemmo se comprare il car seat a New York e portarcelo dietro o acquistarlo direttamente là, parlammo con le nostre famiglie e con gli amici più cari e compilammo su Amazon una baby list. Tempo due giorni e la casa si riempì di scatoloni. Arrivò un passeggino, miriadi di giochini, prodotti di bellezza per neonati. Iniziai a immaginare il momento in cui io e Candace ci saremmo ritrovate di fronte. Su consiglio di Michelle – “portale un regalo, ma non esagerare”, mi disse – le comprai una catenina d’oro con un piccolo ciondolo a forma di cuore. Iniziai a non dormire più, nella testa le immagini dell’incontro: mi chiedevo se ci saremmo abbracciate, se mi sarei commossa, se sarei stata in grado di esprimere quanto fossi riconoscente per quello che stava facendo per me e Dan. Se c’erano parole adatte da dire alla donna che era sul punto di darti suo figlio, io di sicuro non le conoscevo.

Una settimana prima della data prevista del parto, Candace sparì. Smise di rispondere ai messaggi e alle telefonate. Sia Michelle sia la direttrice dell’agenzia ci consigliarono di lasciarle spazio, che si sarebbe rifatta viva lei. Dopo nove giorni di angoscia e preoccupazione in cui presi in considerazione ogni possibile eventualità – tranne quella più evidente –, e dopo che l’agenzia aveva chiamato l’ospedale per sapere se c’era una ricoverata con il suo nome, feci una cosa che mi ero sempre trattenuta dal fare nei mesi precedenti: cercai il suo profilo su Facebook. Trovarlo fu semplicissimo, ma non era aggiornato da più di un anno. In compenso riuscii a risalire a quello del fratello. La vidi lì, sulla sua bacheca: la foto di una neonata. La foto di mia figlia. Welcome baby girl, diceva la didascalia. Era avvolta in una copertina verde e in testa le avevano già messo una fascia per capelli color viola. Scoppiai a piangere. Piansi per giorni interi. Piansi per il dolore di aver perso una bambina che sentivo già mia. Piansi di rabbia, ma non verso Candace. Sapevo che aveva tutto il diritto di cambiare idea, e la capivo. La immaginavo stringere per la prima volta quella creatura che aveva tenuto in pancia per nove mesi e pensare che no, non ce l’avrebbe fatta a staccarsene. Dan, da uomo, faceva più fatica, ma io no, io la capivo, eccome se la capivo. Rileggevo i messaggi che ci eravamo scambiate, quelli in cui mi diceva quanto fosse felice che la crescessimo noi e la immaginavo combattuta, confusa, sola, impaurita.

Ero furiosa, ma ce l’avevo con me stessa, con la mia ridicola voglia di maternità, con la mia ingenuità. Ce l’avevo anche con Michelle che, essendo la persona in più diretto contatto con lei, non aveva intuito le sue incertezze, non ci aveva protetto. Con Michelle ero proprio furibonda. La trattai male al telefono, mi chiedevo come aveva potuto farci questo. Non ero mai stata incinta, ma il dolore che provavo non si poteva spiegare in nessun altro modo se non con il dolore che prova una madre quando perde un figlio. Il punto era: ne avevo il diritto? Soffrire mi sembrava un lusso che spettava solo alla madre biologica, a Candace, non a me. Eppure, quel senso di perdita era reale. Piangevo per ore, ma sempre di nascosto, persino da Dan. Non ero neanche sicura che lui lo capisse, questo mio dolore. In lui vedevo più rabbia per essere stato ingannato, frustrazione per l’impotenza di non poter far nulla. Ma il vuoto dentro, il vuoto nello stomaco, quello era solo mio.

Al telefono con i parenti e con gli amici minimizzavo. “Ci hanno detto che può capitare”, spiegavo cercando di rendere razionale una cosa che non lo era affatto. “Siamo forti, ci amiamo, supereremo anche questa”, ci ripetevamo prima di addormentarci. Io però dormivo pochissimo. Dentro di me qualcosa si era rotto. Adottare era sempre stato il mio sogno, ma non così, non a questo prezzo. Mi feci giurare da Dan che non ci avremmo più riprovato. Affittammo un box e mettemmo lì tutti i regali, nell’attesa di darli in beneficenza a qualche ente. Nel frattempo il mondo era stato travolto dalla pandemia. A marzo 2020 Dan si era ammalato. Chiusi in casa come tutti, spaventati dall’incertezza economica, incominciammo a pensare che forse era giusto così, era destino, era addirittura un bene. Un po’ scherzando e un po’ no incominciammo a valutare l’ipotesi di prendere un secondo cane. Era il mio modo per dire che stavo entrando nella fase dell’accettazione, che non mi sarei fatta rovinare una vita bella e soddisfacente dall’unica cosa che non avevo, che non sarei diventata una di quelle donne ossessionate dalla maternità. Non facemmo in tempo a decidere tra un labrador e un bernese che il telefono squillò di nuovo. Questa volta si trattava di una bambina già nata da pochi giorni, in Florida. La madre aveva già firmato tutti i documenti e c’era bisogno di qualcuno che andasse a prenderla con urgenza. Chiedemmo del tempo per pensarci, non eravamo convinti, le informazioni erano davvero poche, il trauma ancora troppo recente. Dopo neanche un’ora ci arrivò via email una foto della neonata. Era bellissima, con occhi neri enormi e intensi e la testa già piena di riccioli. “Andiamo a prenderla”, mi disse Dan con gli occhi lucidi. Alle dieci del mattino di due giorni dopo atterravamo a Orlando. Alle quattro del pomeriggio la stringevamo tra le braccia. L’abbiamo chiamata Ella Mae.

A differenza di Candace, non ho mai parlato né incontrato la madre biologica di Ella. Ha voluto lei così. Io di lei so quello che c’è scritto nei documenti e che l’agenzia ci ha comunicato per legge: il nome di battesimo, che è afroamericana, sulla trentina, altezza e peso normali, nessuna malattia. Lei di noi sa quello che c’è nel libro che l’agenzia ci aveva fatto compilare all’inizio di tutto, due anni fa, un book di presentazione pieno zeppo di foto nostre e della nostra famiglia e di info generiche sulla nostra vita. Il certificato di battesimo originale non lo abbiamo mai avuto, ma a ottobre scorso, dopo l’udienza finale del giudice che stabiliva la finalizzazione dell’adozione, l’anagrafe di Orlando ci ha mandato quello nuovo, con il nome mio e di Dan. Da allora siamo legalmente e pienamente i suoi genitori. Quando sarà più grande Ella potrà avere accesso ai documenti originali e noi la sosterremo qualunque cosa deciderà. Sappiamo che ha un fratello biologico di un anno più grande, pensiamo che per lei sarà importante avere un rapporto almeno con lui se non con tutta la famiglia, ma sono decisioni che spetteranno a lei.

La cosa incredibile di questo viaggio nell’adozione è che da quando abbiamo incominciato ci siamo resi conto di quanto sia comune, di quante famiglie ne siano toccate. Solo nella cerchia dei nostri amici, abbiamo scoperto che ben tre persone – tre donne di età compresa tra i quaranta e i cinquantasette anni – sono adottate. Tutte, a un certo punto della loro vita, hanno avuto una qualche forma di approccio con i genitori biologici, ma nessuna di loro ha mantenuto un vero rapporto. Oggi, con i social media e con i test del dna tipo Ancestry che ti ricostruiscono l’albero genealogico, i contatti sono molto più facili. Una domanda che mi sento rivolgere spesso è se tutto questo non mi spaventi, se lo spettro della madre biologica di Ella non sia una minaccia. Sinceramente no, anzi, non posso che provare amore per questa donna, riconoscenza infinita per il regalo più prezioso che abbia mai ricevuto in vita mia. Quando succederà d’incontrarla – e so che succederà – sarò pronta.

Ho sempre voluto adottare, è sempre stato un mio sogno. E il perché l’ho capito solo di recente: sono figlia unica e sono figlia del caso, di una madre rimasta incinta a diciannove anni del suo primo fidanzato. Anche se poi amata, sono quella che si dice una figlia capitata, arrivata all’improvviso, non pianificata. Ed è così che mi sono sempre sentita. Esattamente l’opposto dell’adozione, dove un figlio devi desiderarlo così tanto da superare la genetica, il fatto che non ti assomigli, la negazione della lusinga di rivedere te stessa nei suoi tratti, i tuoi occhi nei suoi. Io con Ella non avrò tutto questo, non abbiamo neanche la pelle dello stesso colore, ma ho una cosa che forse vale ancora di più: la ferma, assoluta, incrollabile, lucida volontà di amarla e crescerla. Ho sempre pensato all’adozione come a un atto follemente razionale, magico e meraviglioso, un uragano d’amore che spazza via ragione e sangue, un’ondata che invece di sottrarre moltiplica l’affetto, lo rimescola, lo sposta in luoghi prima impensabili, in dinamiche imprevedibili, in realtà nuove, dove il risultato finale è molto più della semplice somma dei singoli, dove il concetto di famiglia ha contorni soffici e dilatati, morbidi, accoglienti. Ma sono consapevole, l’ho vissuto sulla mia pelle, che adozione significa anche dolore, abbandono, lacerazione. Ogni tre mesi Dan e io carichiamo su un portale gestito dall’agenzia una lettera e delle foto di Ella a cui i genitori biologici, se vogliono, possono accedere. A oggi non l’hanno mai fatto. Magari lo faranno più avanti, magari hanno bisogno di tempo. Come spiegarlo eventualmente a Ella sarà compito nostro, un compito non facile, che stiamo già affrontando con l’aiuto di una terapeuta specializzata in adozione transrazziale. Il suo consiglio, da subito, è stato di cominciare a parlare di adozione prima possibile, e di parlarne come se fosse la cosa più naturale del mondo, come uno dei modi in cui si crea una famiglia, perché in effetti questo è. Ella ha solo sedici mesi, e in lei vedo e sento già tutto, la gioia ma anche la sofferenza, la luce ma anche l’ombra, il pieno dell’amore acquisito e il vuoto di quello perduto, un vuoto che per forza di cose si porterà sempre dentro e che io posso solo sperare di gestire, attenuare, rendere accettabile. Quando guardo i suoi occhioni neri, quando le pettino i capelli afro e mi chiedo se sarò in grado di curarli nel modo giusto, quando la prendo in braccio e lei mi stringe con quelle adorabili manine, quando mangia, piange, dorme, balla, mi sorride. Quando cade e si rialza, quando è testarda, quando abbraccia il nostro cane Ugo, quando ai giardini mi fanno i complimenti per quanto è bella e magnetica. È in questi e in mille altri momenti che la sento mia in tutto e per tutto. Mia figlia Ella Mae. Una bambina nata da un’altra donna oggi si aggrappa a me e mi chiama mamma. Neanche per un istante mi sfugge l’immensità di questa tragedia, e la profondità del privilegio che tra tutte lei abbia scelto me, abbia reso madre me.

Simona Siri (Milano, 1969), giornalista e scrittrice, vive e lavora a New York. Il suo ultimo libro è “Mai Stati così Uniti” (Tea Libri, 2020).