Cerca

Val la pena vivere in questo mondo in pendenza

Ognuno di noi ha un orientamento, uno stare dentro le cose che rimane ovunque si vada e per sempre, anche quando il mondo scompare. Passeggiata nei quartieri interiori di Italo Calvino, all’incrocio di due razze taciturne e nei ruderi della memoria, con il fiatone

Milanesi, tornate a casa. Andate via. Riprendetevi le vostre borse della Rinascente, le Bmw e le orribili Jeep, i vostri corpi farciti da Peck o Spontini. Se vedo una bakery lungomare spacco tutto, al primo poke svengo. E anche voi torinesi, com’è possibile che abbiate tutti una casa al mare? E chi non ce l’ha riempie il treno della speranza delle sei e mezza di mattina: due ore di viaggio per poi zampettare su spiagge petrose e tanto strette che sembrano corridoi, sudati e brulicanti come formiche argentine.

Non so perché sono così nervoso mentre alzo gli occhi dal libro e guardo fuori dal finestrino del treno. Turisti e vacanzieri, il “popolo delle seconde case” (abbiamo smesso di essere un popolo a forza di usare quest’espressione, il popolo delle partite Iva, il popolo delle bakery) non sono una novità per me che al mare ci sono nato, sono anzi parte del paesaggio, o meglio dei cicli delle stagioni, come i monsoni o l’influenza. Al massimo mio padre che quand’ero bambino brontolava per il traffico degli invasori che durante le vacanze intasava le strade. Eppure è fastidio, quello che mi attraversa adesso mentre torno a casa anch’io, a Sanremo, forse rabbia, per «il modo turistico di godere la vita, modo milanese e provvisorio», come diceva l’incazzosissimo protagonista della Speculazione edilizia di Calvino.

«Mi chiamo Italo Calvino. Sono nato a Sanremo. Sono tanto nato a Sanremo che sono nato in America, perché una volta i sanremesi emigravano molto in America, soprattutto in America del Sud»: Calvino è nato cento anni fa, il 15 ottobre 1923 a Santiago de las Vegas a Cuba. I genitori pensavano che non avrebbero più visto il loro paese e allora per il primogenito scelsero il nome Italo, per ricordargli da dove veniva. Ma dopo nemmeno due anni tornano a casa, e quel nome «bronzeo e carducciano» a Calvino rimarrà addosso, magari un po’ impettito come una giacca ereditata. Comunque dirà e scriverà sempre «nato a Sanremo», un po’ perché nei fatti è così (vi ha vissuto fino a venticinque anni e anche dopo con frequenti andirivieni: cambia residenza solo quando muore la madre, nel 1978), e un po’ per fare prima, non dilungarsi in precisazioni o indulgere in esotismi di maniera. Forse anche per tenere il più possibile fuori la biografia dalla scrittura, almeno all’inizio. Per imporsi il primo dei tanti “passaggi obbligati” (avrebbe dovuto chiamarsi così una raccolta di scritti finalmente autobiografici progettata poco prima di morire nel 1985), delle trappole che si tendeva da solo: dire “io” il meno possibile, e fare finta che la vita non c’entrasse.

«Sono ligure, mia madre è sarda: ho la laconicità di molti liguri e il mutismo dei sardi, sono l’incrocio di due razze taciturne». Il padre, Mario Calvino, però era meno laconico – ne esistono, mi dicono. Gran personaggio, Mario: nato a Sanremo «in una villetta (Terralba) seminascosta tra gli ulivi e Phoenix Canariensis, abbellita da uno dei pochi giardini di allora con oleandri, pelargoni e ortensie, affiancata dall’immancabile vigna e dall’agrumeto»: è la moglie, Eva Mameli, a scriverne così, a parlare delle piante per introdurre l’uomo. Mazziniano, massone, socialista, a un certo punto finì anche in un mezzo scandalo internazionale: quando arrestarono un anarchico russo sospettato di voler assassinare lo zar, gli trovarono addosso il passaporto di Mario Calvino. Lui si giustifica dicendo di averlo perso in treno, o forse gliel’aveva rubato un tale che voleva offrirgli una cattedra in Russia. Non era vero, ma era vero che Mario Calvino era già uno scienziato, un agronomo di fama internazionale: introdusse la floricoltura nel Ponente, facendo di Sanremo “la città dei fiori” e trasformando l’economia e il territorio della città.

Nel 1917 Mario Calvino accetta un incarico in Messico, poi a Cuba. Nel 20 torna in Italia, si prende una licenza di quattro mesi, ha molte faccende da sbrigare: «Avevo annotato sul mio notes ogni cosa: comprare corde per chitarre, prendere moglie, ecc». Così si presenta a Pavia dove viveva con la madre una botanica che Mario non aveva mai conosciuto dal vivo, forse si erano scambiati solo qualche articolo scientifico, ma sapeva che condivideva i suoi interessi di ricerca. Era così sicuro che Eva Mameli avrebbe accettato che aveva già fatto il biglietto di ritorno per due. Ecco, se il padre è un personaggio, la madre lo è ancora di più. Prima donna laureata in Scienze naturali, prima donna a ottenere la libera docenza in botanica, medaglia d’argento della Croce rossa per la cura dei feriti della Prima guerra mondiale. Quando si sposa regala al marito la raccolta di scritti Eva Mameli 1906-1920.

Quando esco dalla stazione di Sanremo e vado a casa, l’incazzatura verso i turisti è sfumata, resta solo la leggera vergogna per averla provata. «E se siete riusciti a diplomarvi / senza aver mai scritto ‘Uomo vs Natura’ / su un margine, forse ora / è il momento di fare un passo avanti», ha scritto una volta Billy Collins, il poeta americano. Non so perché mia madre ha tirato fuori la mia antologia del liceo, non le chiedo perché l’ha fatto. Ho paura di quello che potrebbe dire, dei ricordi che potrebbe smuovere. L’ha appoggiata a un tavolino, vicino al terrazzo, forse voleva leggere qualche passo per distrarsi, scacciare la malinconia di questi mesi guardando il mare. La sfoglio: non c’è niente che invecchia peggio delle antologie scolastiche. Comunque per curiosità cerco le pagine su Calvino: a fianco di un brano dal Midollo del leone avevo scritto «natura e cultura». Non so cosa voglia dire, ritrovarlo adesso. Forse un segno, più probabilmente no, anche se sono venuto con l’idea di fare un viaggio calviniano dentro la città.

«Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com’era situata casa nostra, nella regione un tempo detta “punta di Francia”, a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera tra due continenti». Il pomeriggio parto da Villa Meridiana, «casa nostra»: all’epoca a metà costa tra la città e la campagna, era stata comprata dai coniugi Calvino per farne abitazione e sede della Stazione sperimentale di floricoltura. Adesso è totalmente incistata nella città proliferata dagli anni Cinquanta in poi, quella della Speculazione appunto, gli edifici che la circondano sono «costruzioni quadrate e malamente intonacate che contengono box, serrande di garage impolverate, verdi o grigie, improbabili grondaie variopinte, muretti di cemento scrostati, scritte sui muri, canali di scolo», come scrive Laura Guglielmi in Italo Calvino e Sanremo. Alla ricerca di una città scomparsa (il Canneto Editore).

Proprio dal libro di Guglielmi scopro la storia di una delle tante ville della Belle Époque, una delle più grandi e belle della Riviera e della Costa Azzurra, quasi un castello con torri merlate davanti al mare, dietro corso Imperatrice. Fu demolita dopo la Seconda guerra per fare ancora più spazio e luce ai grandi alberghi. Il Comune la smontò pezzo a pezzo, catalogando marmi e colonne con l’idea di ricostruirla da qualche parte e intanto conservare il materiale in un magazzino. Ovviamente ladri e incuria, col tempo, fecero sparire tutti i pezzi e del palazzo non resta nemmeno una maniglia. Lascio Villa Meridiana ed entro nella Pigna, la città vecchia tutta chiusa e avvoltolata sulla collina dove domina il santuario della Madonna della Costa (quello che avrete visto in ogni cartolina o spot del Festival). I carruggi stretti dove il sole arriva solo verticale, come infilandosi da una intercapedine, i palazzi tenuti in piedi da contrafforti quasi a evitare che crollino l’uno sull’altro, un dedalo di viuzze e scalinate ripidissime, incubo di qualsiasi tiktoker americana se mai passasse di qua. Ma anche mio, lo ammetto: quando arrivo in cima ho il fiatone, devo sedermi. Poco prima del santuario sulla cima, c’è una piccola terrazza, poco più di una ringhiera, da dove si vede benissimo la città in discesa, sembra quasi che le case stesse stiano correndo a rotta di collo verso il mare: «In giù cominciava la città coi marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e Piazza Colombo lì a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla porta di cucina nel beudo che passava dietro casa a monte (sapete i beudi, che derivano le acque dei torrenti per irrigare i terreni della costa: un canaletto a ridosso d’un muro, fiancheggiato da uno stretto marciapiede di lastre di pietra, tutto in piano) e subito si era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra muri a secco e pali di vigne e il verde». Sono righe dalla Strada di San Giovanni, un ricordo – meraviglioso – del padre, di quando lo costringeva a svegliarsi presto per aiutarlo in campagna, nella direzione opposta quindi a dove il giovane Italo voleva andare, verso la città, le luci, il cinema, la curiosità, il mondo, il molteplice umano.

Cosa ci lega ai luoghi? Ci dev’essere una parola segreta che permette alla luce di una certa ora, all’ombra di una collina, alla forma delle strade di una città, di aprire una breccia dentro di noi e prendere possesso dei quartieri interiori. Di farci bene o di spronarci ad andarcene, che ci fa addormentare o inietta astratti furori. Sospetto che siano quartieri senza nome ma del nucleo più interno, più inscalfibile di ognuno di noi, territori piccolissimi della nostra anima in cui c’hanno accompagnato da bambini, nomi che abbiamo ereditato da padri laconici mentre ci portavano a fare un giro sulla moto, stretti alle loro spalle.

«Se allora mi avessero domandato che forma ha il mondo avrei detto che è in pendenza, con dislivelli irregolari, con sporgenze e rientranze, per cui mi trovo sempre in qualche modo come su un balcone, affacciato a una balaustra, e vedo ciò che il mondo contiene disporsi alla destra e alla sinistra a diverse distanze»: se c’è una cosa sola da capire di Calvino, della Liguria, di Sanremo, è questa descritta in Dall’opaco. Che c’è sempre un orientamento, uno stare dentro le cose che sentirai per sempre, ovunque te ne andrai: le montagne, il nord, alle spalle, il Levante, l’alba a sinistra, il tramonto a destra e il mare davanti, un orizzonte che altrove non si può capire perché qui il mare non è una strisciolina azzurra all’orizzonte, ma un muro verticale che riempie lo sguardo di chi l’osserva da un po’ in alto. E poi una parte della vallata illuminata dal sole, l’abrigu, e una in ombra, l’ubagu, l’opaco. «D’int’ubagu, dal fondo dell’opaco io scrivo, ricostruendo la mappa d’un aprico che è solo un inverificabile assioma per i calcoli della memoria, il luogo geometrico dell’io, di un me stesso di cui il me stesso ha bisogno per sapersi me stesso, l’io che scrive solo perché il mondo riceve continuamente notizie dell’esistenza del mondo, un congegno di cui il mondo dispone per sapere se c’è».

Come tutti gli scrittori del Novecento, Calvino ha lavorato in un mondo in cui le cose stavano sparendo, in cui il passato torna per lampi sfuggenti, improvvisi, frammenti di una realtà irrecuperabile. «Le cose stanno sparendo», dice nel 1985 uno dei protagonisti di Atlante occidentale di Daniele Del Giudice, un autore molto calviniano e da Calvino scoperto (scrisse anche la quarta di copertina del suo primo libro, Lo stadio di Wimbledon). Mi pare che oggi viviamo in un mondo in cui le cose sono sparite completamente. Restano le parole ma appese al nulla, o solo ad altre parole, resta il linguaggio, resta la luce – dei laser, degli impulsi elettrici nelle dorsali oceaniche, dei computer. Per Calvino è anche la città che scompare. Negli anni Cinquanta le promesse mancate della Liberazione si sono trasformate nel turismo di massa, costruzione di palazzi, colate di cemento che hanno spazzato via uno degli ambienti naturali più belli d’Italia. Condomini, seconde case, palazzotti di dieci piani hanno riempito le valli della città come detriti di una frana, come se tutta la montagna fosse venuta giù lasciando dietro di sé una distesa di condomini di dieci piani.

Arrivo alla Madonna della Costa e proseguo lungo una mulattiera che disegna il dorso della collina. Non c’ero mai stato: il sole basso dietro le alture a occidente colora tutto d’arancione e silenzio. Cerco Terralba, la casa dei nonni di Italo, passata poi allo zio e ancora oggi proprietà degli eredi. Cammino per un po’, sono stanco e penso che poi dovrò fare lo stesso percorso all’indietro. Qualcosa che possa assomigliare al palazzo di Cosimo o alla casata del Visconte dimezzato non la trovo, forse l’ho superata senza accorgermene, possibile? Sto per rinunciare quando dietro a una curva la strada passa in mezzo a una tenuta d’ulivi e vigne. Una grande casa, quasi un piccolo palazzo dalle mura giallorosa tipiche liguri, e la città tutta in basso. Nel retro proseguono gli ulivi – a giudicare dalle dimensioni erano sicuramente presenti già ai tempi di Calvino – che poi si mescoleranno con il bosco dei monti, dove piano piano le case finiscono, restano le fasce, qualche coltivazione, e poi ancora su, verso le Alpi e il confine con la Francia, più niente, solo rami, alberi, ombra, creature fantastiche, fiabe, streghe, cavalieri, baroni fuggitivi. C’è un tale silenzio che il rumore delle foto che scatto fa alzare in volo gli uccelli, abbaiare un cane. Il profumo degli ulivi e dei fiori della tarda estate, o forse solo la stanchezza, mi fa per un attimo desiderare di fermarmi qui, sedermi, addormentarmi all’ombra di un albero.

Ma si sta facendo tardi, a casa mi aspettano. Torno indietro, mentre osservo la città in basso, il santuario da dietro, da una prospettiva che non avevo mai visto, noto che a sinistra, sull’altra collina, adesso sono all’altezza dell’ospedale cittadino dove mio padre è morto quattro mesi fa. La memoria è un magazzino dove abbiamo lasciato i ruderi di un palazzo, ma nel frattempo sono entrati i ladri e hanno portato via tutto.

Torno sul mare, in città. La gente, i turisti, i milanesi e i torinesi in cerca di un aperitivo, ma per una volta non mi danno fastidio, anzi mi viene da confondermi con loro, sedermi a un tavolino su corso Imperatrice. E poi ormai torinese lo sono anch’io, dopo tutti questi anni mi sono deciso e ho cambiato residenza. Poco lontano da dove sono seduto c’è la panchina di una famosa foto, quella dove i ragazzi del Liceo Cassini si ritrovavano a discutere del mondo, della politica, di Dio. Tra loro, Calvino ed Eugenio Scalfari (fece le scuole in città, al seguito del padre direttore del Casinò): è l’inizio di un’amicizia che tra alti e bassi durerà tutta la vita. Il 16 giugno 1943, a poco più di mese dalla caduta di Mussolini, Italo scrive a Eugenio: «Viviamo in tempi grossi, siamo senza dubbio a una “svolta” e ci brucia l’ansia di sapere quel che ci sarà al di là, l’ansia di potercelo costruire noi questo aldilà. Val la pena vivere».

Francesco Guglieri (Sanremo, 1976), scrittore ed editor per Einaudi. Ha pubblicato “Leggere tra la terra e il cielo” (Laterza, 2020).