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Venga a prendere un caffè a Kyiv

Viaggio di fine estate in Ucraina con la morte nel cuore e il sorriso sulle labbra, tra distruzione e meraviglia. Santa voglia di vivere un giorno dopo l’altro. Non basta sapere, bisogna andare a vedere

Anna guarda un reality sui padri che devono badare alla casa e ai figli per una settimana da soli, perché la moglie non c’è. È divertente, è uno dei modi che trova per staccarsi dalle notizie di guerra, ed è un modo poco realistico, perché in Ucraina sono i padri che lasciano a casa le madri e i bambini: non per gioco, vanno al fronte.

Anna ha 23 anni, lavora al progetto di Volodymyr Zelensky per ricostruire le istituzioni della Crimea una volta che la penisola sarà liberata dai russi, si è sposata due volte nell’ultimo anno, matrimonio civile e matrimonio religioso, è andata in luna di miele nella campagna ucraina lontana dal fronte, «una sorpresa, ci stiamo riscoprendo come paese e come popolo»: suo marito, come tutti gli uomini arruolabili, non può uscire dall’Ucraina, il viaggio all’estero che sognava lo faranno

«dopo la vittoria». Mi mostra le foto del matrimonio, le chiedo se c’è la tradizione di indossare il vestito da sposa della mamma o della nonna, «no, per fortuna, quello di mia madre era bruttissimo»; ci sono pochi uomini nelle foto, c’erano pochi uomini al matrimonio,

«ma questo è mio fratello, è disabile, almeno non sarà chiamato nell’esercito». Nella foto Anna ha i capelli rossi, ora è bionda, le chiedo qual è il colore vero: «Nessuno», e ride.

Ho incontrato Anna a Kyiv in un affollato ristorante di pesce del Mar Nero con i tavoli all’aperto e un menù incomprensibile, le ho chiesto – l’ho chiesto a tutte le persone che ho incontrato in questa visita organizzata dal Pen Ukraine e dall’Ukrainian Institute: la mia prima volta a Kyiv – come fa. Come fa a vivere mentre tutto attorno è morte e violenza, come fa a convivere con il lutto quotidiano, lontano o vicinissimo, senza disperarsi, come fa a programmare il futuro, a sognare, quando anche il nostro incontro della mattina successiva può saltare perché suona la sirena dell’allarme missilistico e tutto si ferma. Anna dice che non ci si abitua, che la sopravvivenza non è sapersi adattare, non c’è rassegnazione nelle sue parole, non è la normalità che va cercando. L’obiettivo adesso è non impazzire. Bisogna proteggersi, ognuno trova il suo modo per farlo, difficilmente si giudica quello di un altro: c’è un grande rispetto per le scelte individuali, andare nel bunker quando suona la sirena o mettersi i tappi e la maschera sugli occhi per non sentire e non vedere. Nessuno convince nessuno: fai quello che non ti fa diventare pazzo.

C’è un codice collettivo che è stato assorbito senza spiegazioni, il paternalismo pedante con cui da noi vengono impartite regole di comportamento – penso al Covid, penso ai tutorial idioti per cuocere la pasta senza tenere acceso il gas – qui non esiste: non c’è bisogno di spiegare niente, gli ucraini sanno. Sanno che il domani dipende dalla loro operosa resistenza, sanno che sui social devi essere sobrio, che il selfie con il divano nuovo non lo fai e che il tramonto sul Mediterraneo non lo posti, sanno che il tempo è scandito dalla loro capacità di difendersi. Anna si protegge con il reality sui padri incapaci o con i libri che leggeva alle medie o cucinando con i suoi genitori quando riesce ad andare a trovarli, fuori città. Le routine permettono di convivere con i dolori insostenibili, ma qui non c’è routine, ogni giorno è diverso dall’altro, e c’è un’alta probabilità che possa anche essere l’ultimo. Magari non il tuo, ma l’ultimo di un tuo parente, di un tuo amico, di una persona che hai incontrato e con cui ti sei dato appuntamento «dopo la vittoria». Questo miscuglio di precarietà e di pazienza tenuto in equilibrio da un’ironia aguzza mi sconvolge e mi inebria. Anche il sorriso di Anna lo fa.

Nel viaggio verso Irpin, Bucha, Hostomel e Brodyanka – la periferia di Kyiv in cui i russi hanno capito che i tre giorni di invasione e conquista erano un delirio di onnipotenza di Vladimir Putin e furiosi hanno saccheggiato, violentato, torturato e ucciso lasciandosi dietro una scia di orrore terroristico – Amil mi mostra le foto di Starlink, il suo cane, o meglio il cane di un suo amico che ora è al fronte. Starlink ha un account Instagram (Instagram è il social su cui ci si può distrarre, Facebook non distrae), è un beagle dall’aria altezzosa che si scoccia per le sirene notturne. Non vorresti cambiargli il nome visto che Elon Musk sta mandando di traverso agli ucraini l’ardore con cui lo hanno amato e ringraziato? Amil sorride, dice che i satelliti di Starlink sono stati vitali – mi indicherà con il dito tutti quelli che incontriamo: vedi? – e che sarebbe una cattiveria cambiare il nome al cane visto che già ha cambiato padrone, pappa e casa. Non possiamo impazzire, ricordi?, nemmeno Starlink può.

Attorno a noi è tutto enorme, ordinato, pulito: non so come ci sia venuto in mente di definire “villaggi” i quartieri periferici della capitale e di considerare “rurale” tutto ciò che non è il centro città. Qui gli affitti costano meno e ci sono le case col giardino, i parchi giochi, i campi da calcio, le piazze grandi e le aiuole, nel tempo sono arrivati le famiglie con i bambini e i giovani. Gran parte dello scempio russo è stato cancellato, ma non tutto: mi raccontano che si discute molto di cosa lasciare delle distruzioni dei russi – il ponte di Irpin crollato, per esempio – e di cosa invece va ricostruito subito. Parlano di palazzi – case, scuole, ospedali, negozi, giardini – ma intendono le persone: sono loro che scelgono cosa rimettere in piedi e cosa no.

«Hard choices», scelte difficili, tutti i giorni, ogni momento: le ferite che vuoi lasciare visibili perché la resistenza si nutre di memoria e le ferite che devi curare perché la resistenza si nutre della determinazione con cui gli ucraini vogliono vivere. È Tetyana a dirmi più volte «hard choices, you know?», mentre organizza l’ennesimo funerale – «sono diventata veloce», dice senza staccare gli occhi dallo smartphone e si prende il tempo e il coraggio di spiegarmi il confine sottile che c’è tra la necessità di difendersi dal dolore e l’urgenza di testimoniare, di far sapere che i russi vogliono spazzare via dalla mappa, con ferocia disumana, il popolo ucraino.

La migliore amica di Tetyana è stata uccisa in un attacco russo, lei ha organizzato il suo funerale, poi si è chiusa in casa per dieci giorni, non riusciva a sentire e vedere nessuno, non le importava delle sirene, della resistenza che si sfilaccia senza l’impegno di ciascuno, dell’obbligo innaturale di essere costantemente decisi e forti. Era tutto troppo: un anno e mezzo di bombe, orrori, insulti, scetticismo, non ce la farete contro i russi, il funerale della tua migliore amica, la disperazione assoluta. Poi Tetyana ha capito che in quel silenzio sarebbe impazzita ed è riemersa. Ora è di fronte a me, testimone e narratrice, ad accompagnarmi nel luogo più straziante che io abbia mai visto. Mi dice di prepararmi, con la cura che hanno tutti qui, una cura struggente perché vorrei essere io a rassicurare e consolare, a dire che ce la faranno, ce la faremo, e invece è il contrario: gli ucraini sanno cos’è l’orrore, noi per quanto abbiamo visto, letto, scritto e ascoltato non ne abbiamo ancora idea. Lo sanno a tal punto che quando chiedo se hanno visto al cinema il film 20 giorni a Mariupol – il racconto degli unici giornalisti che sono rimasti dentro la città sotto assedio del sud ucraino, bombardata e affamata, per venti giorni in più rispetto agli altri che sono riusciti a scappare – soltanto Maksym mi risponde di sì. Gli altri non si sentono pronti o non hanno bisogno di andare al cinema per riconoscere ancora una volta la crudeltà russa o hanno raggiunto il limite del dolore che possono sopportare. Anche andare al cinema è una scelta difficile, devi sapere che cosa ti tiene su e che cosa ti abbatte. Maksym ha un altro modo per proteggersi: la rabbia – la rabbia per non perdersi d’animo, per non dimenticare, per non rassegnarsi, il combustibile per andare avanti. Ho incontrato Maksym per cinque giorni di fila e ogni mattina indossava una maglietta patriottica o contro Vladimir Putin: siamo entrati insieme all’Accademia della diplomazia di Kyiv, e mi è sembrato del tutto normale che pure in un’occasione formale lui avesse scritto sulla maglietta sotto la giacca: «La Russia è uno stato terrorista».

Il luogo più straziante che io abbia mai visto è la scuola di Yahidne, centoquaranta chilometri a nord di Kyiv, nella regione di Chernihiv. L’ultimo censimento risale all’inizio degli anni Duemila: dice 318 persone. Da allora il paesino si è allargato, non di molto ma un po’ sì, visto che il 3 marzo del 2022 i soldati russi hanno chiuso dentro la cantina della scuola 368 persone. Molte le avevano già uccise. Le hanno tenute lì per ventisette giorni, mentre occupavano le loro case, le saccheggiavano, quelle che non utilizzavano le riempivano di mine: non doveva rimanere nulla di Yahidne. Sul retro della scuola, dove c’è l’ingresso del sotterraneo, c’è un muro: il posto delle esecuzioni. C’è un piccolo edificio quadrato in mezzo al prato, con la caldaia: era l’obitorio, quando i soldati russi avevano voglia di buttarci dentro i cadaveri e non li lasciavano all’aperto. Di fianco c’è un altro edificio con il bagno: i prigionieri potevano andarci una volta al giorno, ma non tutti e non sempre, decidevano i russi, che cambiano le regole quando pare a loro. Il prato e la ghiaia attorno al bagno erano minati, per evitare che qualcuno scappasse: un prigioniero è rimasto ferito così. Undici sono morti sotto, nel sotterraneo senza luce, senza aria, con uno spazio vitale a testa di mezzo metro, l’acqua e i liquami della fogna che sgocciolavano dal soffitto. Ivan, un nonno che era fra i prigionieri, oggi accompagna politici, attivisti e giornalisti nella visita dell’orrore: dice che non si è ancora abituato a ripetere la storia, ogni volta che scende le scale della cantina rivive quei ventisette giorni, risente la certezza che nessuno, nemmeno i suoi nipoti che erano lì con lui, nessuno si sarebbe salvato. Poi sono arrivati i soldati ucraini a liberare Yahidne e in quel momento del racconto mi è sembrato di toccare la meraviglia di Ivan, l’istante in cui ha capito che era salvo, che poteva ancora vivere. Mentre mi abbracciava andando via, consolandomi, non ho realizzato che il calore che ho sentito, l’umanità semplice tra sconosciuti, non era data dalla condivisione di un’atrocità, ma dall’immensa forza di essere vivi. L’ho capito dopo, quando ero già distante: ho visto in quella cantina l’orrore, non l’avevo mai visto così vicino né tanto ravvicinato nel tempo, ma ciò che mi è rimasto appiccicato addosso è la determinazione di chi voleva vivere, e così da vicino nemmeno questa l’avevo vista mai.

Sul treno che mi riportava in Polonia, un wagon-lit con gli scompartimenti, quattro cuccette ciascuno, il tè da acquistare dal capotreno, undici ore per percorrere 560 chilometri, mi sono resa conto che nessuno mi ha mai parlato della paura. Non so se è stato il pudore a trattenermi dal chiedere, o forse più la banalità: certo che c’è la paura. Amil me ne ha parlato, in realtà: non della sua ma di quella per i suoi genitori. Amil è un tataro, la popolazione musulmana della Crimea che è stata deportata da Stalin – lui è nato in Uzbekistan – che poi è tornata nella penisola e che ora è di nuovo un obiettivo dell’oppressione russa nella Crimea e illegalmente annessa nel 2014. Oggi Amil vive a Kyiv, si batte per i diritti della sua comunità e per la liberazione della Crimea, è attivissimo ed esposto: i suoi genitori vivono ancora nella penisola, e poiché Amil nella capitale è più protetto, è sui suoi genitori che la vendetta russa potrebbe sfogarsi. Amil racconta che bisogna stare molto attenti con le comunicazioni, si usano Signal e Whatsapp che sono i mezzi più sicuri e si parla del tempo o di argomenti innocui. Lui è tranquillo ora perché sua madre è appena stata a Kyiv a trovarlo: l’ha vista, le ha parlato, si è rassicurato. Mi racconta il viaggio attorno all’Ucraina che la madre ha dovuto fare perché dalla penisola – che è ucraina per tutto il mondo tranne che per Putin e i suoi alleati – non può andare verso nord, cioè in Ucraina. Deve andare a est, in Russia: da lì è scesa in Turchia e ha risalito l’Europa, prendendo infine da Varsavia il mio stesso treno per Kyiv. Non che la Crimea sia vicina alla capitale, sono comunque millesettecento chilometri, e non è certo il lungo viaggio il problema principale dell’annessione russa, ma il giro che è necessario fare per raggiungere la capitale del tuo paese rende ancora di più l’idea di quanto sia innaturale, ostile, violenta la conquista pretestuosa del territorio ucraino. Amil ogni tanto teme la rappresaglia sui suoi genitori – le notizie che arrivano dalla Crimea, poche e a singhiozzo, segnalano un indurimento della repressione russa – ma non ha bisogno di convincere sua madre della necessità del suo attivismo. La sospensione della paura è un’altra delle conseguenze dell’aggressione russa, Amil la affronta con fatalismo, e ripete: non dobbiamo impazzire, per questo ci aiutiamo e ci facciamo aiutare a tenere salda la mente.

Un giorno a pranzo, in un ristorante vicino a Bucha, abbiamo parlato della moda a Kyiv dei caffè “strani”: il caffè con la spremuta d’arancia per esempio piace moltissimo. Amil adora il caffè con il latte alla banana: faccio una smorfia, ride, dice che devo provarlo e cambierò idea, mi dà appuntamento per “dopo la vittoria”. Non avrei mai creduto che mi sarei ritrovata a discutere della sacralità del caffè espresso in mezzo alle cicatrici lasciate dai russi in Ucraina, ma prima avevo parecchie convinzioni che ora non ho più. Pensavo di trovare, in questo viaggio, stanchezza, disperazione e morte e invece ho scoperto, tra una scelta drammatica e l’altra, la determinazione a vivere, a esistere, a sperimentare, a costruire il futuro – un’energia che non si consuma, invincibile.

Paola Peduzzi (Milano, 1976), vicedirettrice del Foglio.