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Verrà la morte e avrà occhi di bufalo e albero

Un funerale dei Toraja dura settimane: i morti sono vestiti, messi a tavola, imbalsamati da anni. Non provo niente ma ripenso a mia nonna. Assistere al rito indonesiano e chiedersi cosa c’è sotto il sasso. Forse nulla, oppure una luce

Lo sguardo lungo il sentiero ombreggiato è ostruito da un vecchio pick-up sul cui cassone languono due maiali neri con gli occhi semichiusi. “They’re still alive, for now”, dice Marcos, la nostra guida, superandoci senza badare a un cane piuttosto brutto che staziona eccitato oltre il pick-up. Abbasso lo sguardo: sullo sterrato brillano scie di sangue la cui fonte si trova al termine del sentiero, qualche decina di metri più avanti. Il cane ci segue in fibrillazione con gli occhi lucidi. Le fronde degli alberi si diradano, ci ritroviamo in una radura orlata da gazebo di legno sotto i quali si affollano gli invitati al funerale. Di fronte giacciono cadaveri di maiali circondati da grappoli di adolescenti che lanciano gridolini gioiosi mentre si contendono una fiamma ossidrica che abbrustolisce la pelle degli animali, rendendola lucida e dorata come la superficie di certe statue placcate in oro eroso dal tempo. Al centro della radura, un lembo di prato è occupato da un telo di plastica su cui uomini armati di machete macellano bufali d’acqua dentro una nuvola di mosche; ai margini del telo, un sacerdote affusolato vestito di nero parla a un microfono con voce stentorea. Appena sopra la mattanza, su una piattaforma di legno raggiungibile con una scala decorata, c’è la bara coloratissima di una donna morta due anni fa. All’ingresso del gazebo occupato dai famigliari della defunta, più ampio e lussuoso degli altri, c’è un gruppetto di bambine di circa dieci anni vestite di arancione, i capelli lucidissimi raccolti dietro la nuca e un’aria solenne sui visi perfettamente truccati.

L’aria è satura di terra, canti, fumo e sangue.

I Toraja sono un popolo indigeno del Sulawesi meridionale rimasto isolato fino agli inizi del ’900 quando i coloni olandesi, in veste di missionari, decisero di spingersi oltre le montagne che ne abbracciano le valli dolci e verdissime per convertirli al cristianesimo, onde evitare l’eccessiva espansione islamica che costituiva un rischio per le colonie. La missione non riscosse grande entusiasmo tra i locali fino agli anni ’60 quando, minacciati dai musulmani di Makassar, i Toraja si convertirono al cristianesimo.

Oggi il sincretismo torajano fa capolino dalle chiese dai colori pastello che sorgono ai margini delle risaie, accanto alle case tradizionali, le tongkonan protese verso lo stesso cielo da cui i Toraja discendono, non lontane però dalle piccole moschee sgargianti che si guadagnano il diritto di esistere non tanto grazie a una mole contenuta, quanto per la voce del muezzin che rimbomba tra i terrazzamenti e lungo i sentieri scoscesi che s’inerpicano sulle montagne. “They are like crickets”, dice Marcos riferendosi ai musulmani della zona, “very small but very loud”. In effetti qui i grilli, forse ignari delle proprie dimensioni, producono trilli penetranti, udibili a grande distanza.

In cima alla montagna che guarda Makale, il capoluogo torajano, un gigantesco Gesù Cristo che ricalca quello brasiliano benedice gli abitanti dell’area. Lo chiamano Rio, viene visitato quotidianamente da un turismo locale ilare, anche musulmano. Sebbene gli indonesiani siano molto reticenti quando si tratta di politica, viene naturale chiedersi che tipo di messaggio stia dando questo enorme Cristo costruito con fondi statali dopo anni di guerriglia religiosa.

In ogni caso questo groviglio di simboli non ha affatto scalfito l’animismo dei Toraja né quello del resto dell’Indonesia, le cui grandi religioni, islam, cristianesimo, induismo e buddismo, sono attraversate da storie legate a spiriti, antenati e misteriose figure che proteggono la popolazione da sciagure climatiche. Per esempio, leggenda narra che nel 1938, quando il maestoso tempio buddista di Borobudur – monumento stupefacente edificato nell’800 d. C. e dimenticato per mille anni, perso nella vegetazione e vivo solo in tradizioni orali di sapore magico – venne coperto dalle polveri dell’eruzione dei vulcani Merapi, Bromo e Merbaboe, gli abitanti musulmani dei villaggi adiacenti al tempio ricevettero la visita di misteriosi uomini bianchi come il riso che li avvertirono per tempo, dando loro la possibilità di mettersi in salvo.

Per i Toraja, dunque, non c’è contraddizione nell’aver abbracciato questa o quella religione, perché la priorità su ogni altro culto ce l’avrà sempre l’aluk, l’animismo politeista che loro malgrado li ha resi celebri nel mondo, e di cui fa parte l’elaborato culto dei morti al quale migliaia di turisti desiderano assistere ogni anno.

Un funerale torajano può durare anche settimane e viene celebrato anni dopo la morte della persona deceduta, che viene imbalsamata, avvolta nella stoffa e tenuta nella tongkonan con la testa rivolta verso nord o verso ovest finché il suo spirito non giunge al paradiso, il Puya, situato a sud, motivo per cui sarebbe sacrilego orientare anzitempo la testa del morto in quella direzione. Solo quando tutti i riti saranno giunti a compimento e lo spirito avrà raggiunto la propria destinazione il corpo potrà essere disposto in una bara di legno, a sua volta collocata all’interno di rocce laboriosamente scavate dai famigliari, oppure in grotte naturali.

Varie ragioni giustificano la dilatazione della morte a Tana Toraja (letteralmente: popolo degli altopiani), e fanno tutte parte dell’aluk, che non è solo un culto religioso ma l’ordinamento complessivo che regola la vita dei torajani.

Una ragione è di ordine sociale e va evocata con cautela per non rischiare di cadere in un antropologismo spicciolo: sebbene la socialità sia una necessità universale della vita umana, questa consapevolezza rischierebbe di erodere la fede sulla quale poggiano i riti collettivi, come se l’unico modo per accettare un culto fondato su convinzioni che ci sembrano irrazionali sia la loro riduzione a una funzione comprensibile, socialmente utile. Mentre saliamo verso Rio, Marcos – devoto torajano cristiano – ci chiede quale sia la nostra religione. Nessuna, rispondiamo. Lui rimane un po’ in silenzio, poi borbotta che non capisce come si possa vivere senza religione. “It’s a way of processing life. How do you process it?”. Non gli rispondo, ma ci penso.

Un’altra ragione è di ordine economico: i funerali torajani sono costosi. Oltre all’organizzazione dello spazio, ai gazebo e a tutto il resto, servono i bufali d’acqua. Tana Toraja è costellata di bufali d’acqua dallo sguardo umido, con le froge attraversate da un anello che li tiene legati a pali di legno piantati in mezzo alle risaie. Il prezzo di un bufalo d’acqua va dai seimila ai trentamila euro, a seconda dei colori. I più pregiati sono i bufali albini, seguiti da quelli dal manto chiazzato di beige rosato e bianco; gli occhi azzurri sono ambitissimi. Ai funerali torajani se ne macellano anche venti o trenta, perché saranno i bufali sacrificati ad accompagnare il defunto verso il Puya, rendendo il tragitto più rapido. I bufali d’acqua non assolvono ad alcuna funzione che questa. Le famiglie risparmiano finché non riescono ad acquistarne un buon numero da sacrificare. Noi, non avendo i soldi per un bufalo d’acqua, abbiamo portato alla famiglia della defunta una stecca di sigarette Kretek, fatte di tabacco misto a chiodi di garofano, molto amate in Indonesia ed esportate anche all’estero, soprattutto in Germania e Olanda. Io le trovo disgustose.

Credevo che assistere alla mattanza di bufali e maiali mi avrebbe impressionata, dopo aver letto su alcuni blog di persone diventate vegetariane in seguito a un funerale torajano.

Invece non ho provato niente, neanche quando a un chiodo proprio di fronte a me è stato appeso il muso di un bufalo d’acqua ancora con l’anello. Quando ho postato su Instagram la foto di un uomo con il machete chino sulla testa di un bufalo qualcuno mi ha scritto per chiedermi di mettere un “trigger warning”. Non ho risposto.

Infine c’è una ragione più sottile. I parenti dei morti scivolano nel lutto come in un sogno in cui le persone care sono ancora accanto a loro, in una dimensione intermedia in cui siedono a tavola senza mangiare, si stendono senza dormire e possono essere toccati, lavati, vestiti. Soprattutto, guardati. Guardare i morti è un’usanza che abbiamo dimenticato. Ai funerali a cui ho partecipato il morto era sempre dentro la bara, il suo corpo scomparso, invisibile.

L’unico corpo che ricordo di aver visto è quello di mia nonna, amatissima, morta quando avevo quattordici anni e lei settantatré. Era una donna energica, divorziata, grande guidatrice, atea convinta, biologa (dalla Somalia aveva riportato a casa gli animali più improbabili). Il suo corpo era steso sul letto, gonfio e innaturale, con la pelle di gomma. Le mani, chissà perché, mi sembravano enormi. Anche allora mi aspettavo di rimanerne impressionata, e invece mi pareva che quel corpo non la riguardasse più e che di conseguenza non riguardasse neanche me. Qualche settimana dopo sfrecciavo lungo via Panama a Roma con la mia migliore amica dell’epoca, seduta sul sellino striminzito del suo Sky: era una sera di aprile, si iniziava a percepire nell’aria la promessa dell’aroma del rincospermum, e il vento in faccia mi faceva chiudere gli occhi.

Improvvisamente, quando mi sono resa conto che mia nonna non avrebbe più sentito quelle stesse sensazioni, ho avvertito come un ago sottile tra le costole e ho dovuto respirare senza riempire i polmoni, per evitare di sfiorarlo. Qualche volta ci penso ancora. Mentre assisto al funerale, alcune persone in un gazebo mi offrono un pezzo di maiale bruciato con la fiamma ossidrica, che non posso rifiutare. Uno di loro è un vecchio. Mi chiedo se, in una società in cui la morte è così partecipata e dilazionata, l’idea di morire faccia meno paura. Qualche anno fa ero a cena da amici di mio padre a Pantelleria, in un dammuso incastonato nella valle di Gadir. A tavola il nostro ospite, un accademico in pensione, uomo elegante il cui fascino traspare ancora dalle movenze compassate e dalle lunghe pause che si concede prima di parlare, a un certo punto chiese ai commensali perché, malgrado l’età avanzata di molti dei presenti, non si parlasse mai di morte. “Io ci penso sempre, mi sento ancora pieno di energia e allo stesso tempo così stanco, e mi fa paura”. La comoda e stupida nozione che mi ero tacitamente costruita, secondo cui da anziani la morte è un concetto a cui si finisce per abituarsi, si è sgretolata in un secondo. Avrei voluto fargli delle domande, ma la moglie lo aveva sgridato: “A tavola certi discorsi non si fanno”.

Nella prima raccolta di Alice Munro pubblicata nel 1968, La danza delle ombre felici, c’è un racconto che si intitola La pace di Utrecht. Racconta in poche pagine dell’essere figlie, dell’essere anziane e del senso di colpa. Scrive Munro: “Mentre osservo le mie simpatiche vecchie zie mi chiedo se gli anziani mettano in scena per noi rappresentazioni di sé così convenzionali e semplificate perché temono che qualsiasi versione più onesta possa spazientirci; e se lo facciano solo per delicatezza – per riempire il tempo trascorso in compagnia – quando in realtà si sentono così lontani da escludere ogni forma di comunicazione con gli altri”.

Ho pensato a mia nonna e a quanto di lei mi fosse precluso, e poi all’ospite di Pantelleria, e a come la sua frase fosse rimasta sospesa sopra il passito ambrato, facendosi spessa e fredda, prima di essere scacciata via da un gesto della mano della moglie, come si scaccia un insetto.

A Tana Toraja ho portato con me una raccolta di conferenze di Frazer, un antropologo vissuto fra Diciannovesimo e Ventesimo secolo, dal titolo La paura della morte nelle religioni primitive. Sorvolando su alcune considerazioni prevedibilmente razziste e colonialiste, l’idea di fondo è che la varietà di riti funebri elencati sia attribuibile alla paura dei morti e dei loro spiriti. Alcuni riti sono meravigliosi: in una provincia dell’India centrale una casta di coltivatori credeva che quando un uomo veniva ucciso da una tigre fosse di vitale importanza ricondurre il suo spirito a casa. Un sacerdote teneva allora sospeso un anello di rame sopra un barile mentre tutt’attorno i presenti intonavano canti sacri e pregavano lo spirito di tornare finché l’anello non cadeva nel barile, che veniva poi sigillato e bruciato o conservato. Cosa sarebbe successo se non si fosse eseguito il rituale? Lo spirito del morto avrebbe fatto comunella con la tigre, attirando il viandante con la promessa di tabacco da fumare per farlo divorare.

A parte sorprendermi di questi elaborati riti che coinvolgono uova, galline, fuoco, pesci, manici di scopa e via dicendo, non ho trovato quel che stavo cercando, sebbene io per prima non sapevo esattamente cosa stessi cercando. Ora credo di saperlo. Avrei voluto comprendere qualcosa di più sulla morte, come se il nucleo di quest’ultima si nasconda sotto un sasso liscio poggiato sul terreno a coprire una cavità che racchiude un qualche significato più profondo, a me ancora inaccessibile per via della mia ignoranza. Temo però che la morte non consista in nulla più di ciò che immaginiamo, in nulla più delle lettere che ne compongono la parola: sotto il sasso non c’è nulla. E perfino Tana Toraja, dove ho la sensazione che la morte venga celebrata con un vigore teso ad annullarla, lei è sempre lì, nascosta dai colori, dal sole, dai bufali, dal legno, dal sangue, dai canti.

L’ultimo giorno Marcos ci conduce attraverso le risaie, fino a uno spiazzo erboso occupato da tre tongkonan. Da lì scendiamo delle scale di pietra ricoperte di muschio che terminano di fronte a un albero, sul cui tronco si vedono porticine sigillate con foglie di palma. Le porticine custodiscono i bambini morti prematuramente, a due o tre mesi, quando non esiste morale e si è ancora più prossimi all’energia potenziale che alla durezza della vita. I corpi teneri dei neonati si fondono con il legno fino a diventare parte dell’albero, e continuano a vivere al suo interno. Quando l’albero muore, si scava la corteccia e si innestano le parti che contenevano i bambini in un nuovo albero.

Di fronte a quell’albero mi è sembrato di intravedere qualcosa di più grande e luminoso, ma neanche di questo sono sicura, sebbene non riesca a smettere di pensarci.

Irene Graziosi (Roma, 1991), direttrice dei contenuti e autrice del canale YouTube “VENTI”, ideato nel 2019 con Sofia Viscardi. Il suo primo romanzo è “Il profilo dell’altra” (edizioni e/o, 2022).