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Verrà la morte, ma tanto io sarò morta

Che diavolo di sistema è, che ti sbatti tanto e poi un giorno muori? Il problema dei soldi del Nobel che non potrò spendere, l’angoscia delle orazioni funebri con le concordanze sbagliate, la questione degli ex fidanzati imbecilli. Tanto vale vivere
di Guia Soncini
illustrazioni di Giorgio Carpinteri

La prima volta che ho pensato “non posso fare questa morte da imbecille” avevo trentaquattro anni ed ero andata a letto con un cretino. Il cretino era in media coi cretini che ognuna incontra e presto dimentica, ma aveva ben pensato di lasciarmi come ricordo una malattia venerea che la ginecologa mi aveva detto con tono non particolarmente solenne potersi trasformare in cancro. L’ipotesi d’un cancro alle innominabilità come pegno per aver intrattenuto commerci carnali con un disutile cretino mi fece parecchio innervosire, e non sapevo che era solo l’inizio.

L’anno dopo andai a vivere in una zona di Milano in cui non c’era niente. Nella spianata che circondava il mio palazzo smartellarono e trapanarono per anni, anni di rumoroso inferno e di muratori che erano gli unici a movimentare il quartiere. Poi, poco dopo il mio quarantesimo compleanno, inaugurarono, là dove cinque anni prima non c’era niente, la piazza sopraelevata che sarebbe diventata il set preferito per i cinematografari smaniosi di far capire che giravano in mezzo alla modernità. Nella piazza c’era il grattacielo non so bene più alto di cosa (del quartiere? di Milano? della via lattea?), e il mio nuovo terrore. Era ovvio che ora, se avessero voluto fare un attentato a Milano, non l’avrebbero più fatto al Duomo ma a quel grattacielo da arricchiti. E non serviva aver studiato prospettiva a bottega da Borromini per capire che il grattacielo, cadendo dritto, avrebbe investito il mio palazzo. Non sarei stata una morta al centro del notiziabile attentato della cui imminenza ero sicura, ma una vittima collaterale del crollo delle macerie. Che morte da imbecille.

A vent’anni andavo in motorino. Doveva essere l’entusiasmo di saper stare su (ci avevo pur sempre messo sette anni a imparare ad andare in bicicletta), o il fatto che Roma somiglia a Caracas: ci si sposta in motorino. Ho dei ricordi vaghi di me sull’olimpica alle cinque di mattina: a ventott’anni vivevo a Monteverde e conducevo un programma radiofonico alle sei di mattina. Possiedo ancora il piumino marrone al quale tiravo su la lampo: salivo in motorino, e affrontavo l’olimpica, una strada che adesso ho paura di fare anche in taxi. Ora, che in motorino non mi fido di fare neanche cento metri, non mi fido di salire neanche se guida qualcuno meno imbranato di me, ora che vedo la gente in motorino in posti in cui si rischia la vita a ogni sanpietrino, posti come piazza Venezia, ora li guardo e come seconda cosa penso che sono dei pazzi incoscienti e che è inspiegabile non ne muoiano a decine ogni giorno. Come prima cosa penso: che morte da imbecilli.

Vengo da una famiglia in cui fino a un certo punto sono morti solo gli uomini: fino alla generazione dei miei genitori, le vedove sopravvivevano per molti decenni. Quando mio zio si schiantò in macchina perché gli si fermò il cuore mentre guidava, neppure cinquantenne, ci fu il problema di come dirlo a mia nonna: morirà di dolore, il suo bambino. Finché qualcuno fu mandato a darle la notizia, sai, era al volante, ha avuto un infarto. E lei: eh, ma io ho un giradito che mi fa un male. Vengo da una famiglia di donne con un certo qual senso delle priorità. Quando mia cugina si ammalò di tumore al cervello, volle cambiare casa, convinta che a farglielo venire fosse stato quell’appartamento vicino all’antenna della Rai. Mia zia se ne indispettì parecchio: mica si sa se è stato quello, e poi lei nell’appartamento vicino alla Rai aveva a disposizione una stanza per gli ospiti per quando veniva in città, non era giusto trasferirsi in una casa più piccola e privarla delle sue comodità. Mia zia ha vissuto fino a ottantacinque anni mentre intorno le morivano tutti – i fratelli, le figlie, il marito, il genero – a età premature. Chissà se aveva ereditato da sua madre il giradito, chissà se ho ereditato da lei l’immortalità.

Il fatto è che la morte è inaccettabile. Lo è per tutti e da sempre, sennò gli esseri umani non si sarebbero inventati qualunque psicosi collettiva per aggirarne l’idea: vite eterne, resurrezioni, reincarnazioni, anime, paradisi, inferni, e tutto il parco giochi delle varie religioni. Che diavolo di sistema è, che ti sbatti tanto e poi un giorno muori? E cosa me ne dovrei fare delle lodi postume, degli elogi funebri, delle copie vendute le cui royalties vanno ai miei eredi? Sono morta, cosa volete che me ne freghi. Morta. Mangiata dai vermi. Morta. Senza la possibilità di spendere i proventi delle fatture che mi saranno state pagate così in ritardo che per allora sarò morta. Morta. Senza più il problema che l’ultima camicia che mi entra sia al lavasecco e non so cosa mettermi per andare a questa presentazione. Morta. Coi miei ex che raccontano puttanate su quanto mi amavano e soprattutto quanto li amavo io e io che non posso sbugiardarli. Morta. Con le cronache che pubblicano foto in cui sono cessa perché costano meno di quelle del secolo scorso in cui ho un notevole stacco di coscia. Morta. Con gli amici che sbagliano le concordanze nelle orazioni funebri. Morta. Che, se un quotidiano scrisse “Alberto Abrasino” in un necrologio, immaginiamoci con che accuratezza compileranno i miei. Ma tanto sarò morta.

Conosco una tizia che ha investito la sua più cara amica del compito di renderle giustizia, da morta. Ogni volta che litiga con qualcuno – il che le accade abbastanza spesso – la povera amica viene precettata a riscrivere l’orazione funebre enfatizzando che è stata la stronzaggine di Tizio a ucciderla (fino alla settimana prima era quella di Caio, con cui aveva appunto litigato la settimana prima). Quando lo sono venuta a sapere l’ho raccontato a tutti, certa che fosse la più esilarante stranezza mai sentita, e ho scoperto di costituire un’eccezione: a non aver dato disposizione per i funerali siamo, tra quelli che conosco, in non più di tre. La gente si sceglie le canzoni per il funerale, e i vestiti, e fa testamento perché metti che muoio non voglio che a quella cognata antipatica vada niente. Nora Ephron, che non aveva detto a nessuno d’avere il cancro, aveva però scelto quelli che dovevano parlare al suo funerale – gente come Tom Hanks e Meryl Streep – e aveva anche preparato i discorsi. Pensa la telefonata: ciao, Nora è morta, sì stava male da tempo ma non voleva si sapesse, ci teneva che parlassi al suo funerale ma non si fidava che fossi capace di preparare un discorso all’altezza quindi te l’ha scritto lei. La versione funebre del “devo fare sempre tutto io, in ’sta casa”. La gente pianifica, con lo zelo che applica ad altre circostanze assurde quali i matrimoni, tutto: chi si siede dove in chiesa, chi parla, cosa suonano. Ma sei morto, cosa te ne importa di cosa suonano? Sei morto. Defunto. Kaputt.

Molti anni fa andai ad assistere a una serata, a Londra, in cui avrebbe dovuto parlare Christopher Hitchens. Stava già malissimo – sarebbe morto cinque settimane dopo – e una complicazione del cancro all’esofago non gli aveva permesso di spostarsi da Washington ed essere presente. Parlavano i suoi amici, ed era chiaramente quello cui ogni mitomane fantastica d’assistere: il funerale da vivo. Parlava gente non proprio inattrezzata dialetticamente, come Stephen Fry e Martin Amis, Richard Dawkins e Salman Rushdie, e dicevano cose meravigliose, e tuttavia, ripensando a sua moglie e a Ian McEwan che intervenivano scrivendo messaggi dal capezzale di Hitchens, mi chiedo quanto potesse essere frustrante non poter parlare, per uno che, come disse Fry quella sera, era «il più capace oratore dai tempi di Demostene»: sì, bello il funerale da vivo e poter sentire cosa dicono gli altri di te, ma a un certo punto non vuoi intervenire e dirlo meglio?
(«Ho inscenato la mia morte per tornare a vivere» era la frase sulla copertina di uno dei libri complottisti su Jim Morrison che divoravo a quindici anni, libri tutti compattamente convinti che la morte del cantante dei Doors fosse una messinscena e che lui vivesse bello sereno a Parigi o altrove, finalmente al riparo da noialtre rompicoglioni che gli avremmo pigolato «Jim, mi canti The End?». Dopo quante stronzate che leggi sul tuo conto non ti tieni più ed esci dal tuo nascondiglio svelando che non sei morto? Ci vuole una tenuta, per vivere da morto, che neanche un morto può avere).

L’umanità, al punto della conversazione in cui dici “ma da morto cosa vuoi che te ne freghi delle cerimonie attorno alla tua morte?”, non si tiene: smania per farti sapere che ricorda tutto ciò che ha letto sul sussidiario di terza elementare, e quindi ti spiega che le civiltà sono tanto più evolute quanto più praticano il culto dei morti, e i rituali sono importantissimi, e la storia la filosofia la psicanalisi la rava la fava. Sì, ma saranno importanti per i vivi: cosa me ne frega a me se tanto sono morta? E se poco dopo che sono morta trovano il principio attivo che garantisce l’immortalità? Certo, costituirebbe un problema, già la Terra è affollatissima così, pensa se smettiamo di morire, già l’Inps è in bancarotta così, pensa se invece che cent’anni ne campiamo duecento – ma io dico per me, mica per tutti. Magari trovano un medicinale che funziona, che ne so, solo su culone con malformazioni cardiache che da piccole preferissero John Taylor a Simon Le Bon e da grandi ritengano che le pizze siano tutte uguali e quelle surgelate siano indistinguibili da quelle della più rinomata pizzeria napoletana. Magari un principio attivo molto specifico può evitare il sovraffollamento del pianeta e allo stesso tempo risparmiarmi quell’affronto che è l’idea che persino io debba morire. Con qualche morte oltretutto da imbecille.

Ma poi quali sono le morti non da imbecille? Lo sappiamo tutti: morire nel sonno. Niente agonia, niente peso per chi deve sorbirsela, niente vita cui resti attaccata avidamente tra atroci sofferenze (o peggio: richiesta di accorciare quelle sofferenze non accolta abbastanza in fretta), niente tentativi di cura inutili, niente invalidità. Se mi viene un infarto e muoio sul colpo pazienza, ma se mi viene un ictus e resto incapacitata giurami che mi spari, ci diciamo tra amiche con la voluttà con cui un tempo parlavamo del tizio che forse ci voleva solo scopare e non ci amava davvero (e il fatto che la seconda ipotesi ci sembrasse più auspicabile della prima svela quanto fossimo giovani e ottuse: è vieppiù ingiusto che sia più probabile si muoia adesso, da lucide).

Morire sul colpo, lasciando i viventi a dolersi della nostra subitanea dipartita e dei loro giraditi, è comunque meglio delle malattie misteriose nell’epoca di Google. La prima volta che la ginecologa mi disse di qualcosa «non cercarlo su Google» mi chiesi se fosse matta, ma sono passati quasi vent’anni e adesso tutti cerchiamo qualunque cosa, e tutti i sintomi che troviamo corrispondono a tutti i sintomi che abbiamo. Ho letto il racconto d’un giornalista del Guardian, aveva sintomi misteriosi che nessuno prendeva sul serio, la moglie gli diceva “come va oggi col finto cancro?”, e alla fine aveva ragione lui a essere paranoico, aveva la leucemia: un uomo la cui vicenda è d’ispirazione per tutti noi che non abbiamo pianificato il funerale ma pensiamo da sempre che sulla nostra lapide ci sarà scritto “ve l’avevo detto che avevo qualcosa” (gli amici più cari mi chiamano “la mitomane dell’infarto”). È meglio morire nel sonno che passare gli ultimi mesi, invece che a scrivere La prigioniera, a googlare dove sia l’organo al quale ci hanno detto che abbiamo il cancro, e se qualcuno sia mai sopravvissuto a un cancro a quell’organo lì.

Solo che non è mica così semplice: per auspicare una morte nel sonno bisogna che sia tutto in ordine, e non so le vostre vite ma la mia non lo è mai abbastanza. Se muoio nel sonno oggi mi trovano tra i cartoni della pizza che non ho buttato, e il bagno di servizio pieno di lavatrici da fare, per non parlare della quantità di bicchieri sporchi che c’è in cucina. Se muoio nel sonno oggi non ho ripulito i vecchi hard disk da tutte le lettere di disamore scritte in gioventù, poi finisce che qualcuno le pubblica e percaritadiddio, e comunque non ho lasciato disposizioni perché il bambino che limonò la nostra compagna di classe dopo avermi fatto chiedere se ci mettevamo insieme salga sul pulpito del funerale a dirsi pentitissimo. Se muoio nel sonno oggi non ho scritto il Grande Memoir Bolognese cui ha diritto la storia della letteratura, e senza il quale verrò ricordata come un’analfabeta velleitaria che scriveva di punto croce e belletti, invece che come la profondissima autrice dolente per la quale urge un Nobel postumo (no, il Nobel no, il Nobel sono soldi veri, se vinco il Nobel da morta e non li posso spendere è un tale spreco che per il nervoso risorgo: facciamo uno Strega).

Quest’inverno, mentre scrivevo un libro, mi sono cominciati a venire dei dolori misteriosi. Ho fatto qualunque tipo di esame, visto qualunque medico, ascoltato qualunque ipotesi diagnostica (anche quelle: non è niente, è ipocondriaca – che ogni volta mi fanno venire in mente il cancro al cervello di mia cugina annunciato da mesi di mal di testa liquidati come “signora, è tutto psicosomatico”; più mi dicono che non è niente, più mi convinco di stare morendo uccisa dalla sottovalutazione della medicina).

A chiunque mi visitasse dicevo: dovete garantirmi che non muoio ora che l’editore è in possesso d’una stesura che non mi piace, dovete garantirmi che non morirò prima di metterla a posto, è molto importante, capite che incubo se la versione che va in stampa non è quella alla quale ho aggiustato ogni virgola ogni corsivo ogni inciso, vi rendete conto che magari qualche zelante redattore da morta mi sistema gli anacoluti e ogni anacoluto è bello a morta sua, è uno scenario che è compito della scienza scongiurare. Il cardiologo mi ha guardato con l’interesse con cui io guardo l’umanità in generale e mi ha detto: ah, lei quindi scrive libri (il fatto che il mio cardiologo ogni volta mi guardi come se mi vedesse per la prima volta e non avesse la più pallida idea di chi sono è un’ottima ragione per non dimagrire: se fossi una 42 dovrei ogni volta convincerlo daccapo che rischio la vita, invece così si vede subito). Poi, con l’aria di chi va incontro all’interlocutore che si occupa di cose proprio marginali ma non è bello farglielo notare, ha buttato lì un’anomalia famigliare: mia moglie legge. Forse dovrei essere in cura da sua moglie. Sua moglie capirebbe l’inaccettabilità della mia morte. Sua moglie saprebbe quant’è importante tenermi in vita nonostante non uno dei valori delle mie analisi sia giusto.

Comunque poi il libro l’ho finito, era pronto per andare in stampa, potevo per la prima notte da mesi dormire senza temere un decesso notturno che lasciasse di me una prosa insoddisfacente. E mi sono messa lì con tutta la rilassatezza di chi non sta più rischiando una morte inopportuna e ho riletto le bozze, e qualche giorno prima avevo chiesto di cambiare un “messaggi” in “sms”, e al redattore che aveva inserito la nuova parola era sfuggito l’articolo determinativo, e quindi il confine tra la vita e la morte è quel momento quasi casuale in cui ti accorgi – tardi ma non troppo tardi – che nel libro che sta andando in stampa c’è scritto “i sms”, e a quel punto non sai più bene da che parte prenderla: devi essere sollevata perché non sei crepata nel sonno prima d’accorgertene, lasciando certezza ai posteri del tuo analfabetismo e facendo la morte più da imbecilli che si possa immaginare? O devi pensare che, se non ti si è dissezionata l’aorta vedendo che stava andando in stampa un tuo rigo con scritto “i sms”, vuol proprio dire che dalla zia hai preso l’immortalità?

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).