Cerca

Vivo in autostop

Le ragazze Gilmore e le sorelle Bellocchio. Di chi è la colpa? Piperno e The Guilty. La sera tardi io alzo il pollice e parto

Come confessava Truman Capote: ho la cultura dell’autostoppista. Prendo, leggo, guardo più quello che incontro per uno sguardo o un odore che misteriosamente mi convince che per un percorso che ha a che fare con una qualche mappa, una moda. Inevitabilmente arrivo spesso in ritardo o in anticipo rispetto a quello di cui si parla quando si va a cena con persone con cui sarebbe bello parlare di quello che si prende, si legge, si guarda. Dove invece il più delle volte rimango in silenzio e ascolto. Per dire, quando alle medie i miei compagni di classe avevano la maglietta dei Nirvana, io ascoltavo Albano e Luigi Tenco.

Così, in questo periodo, quando mia figlia si addormenta, se è stata una giornata dove è stata troppo sveglia quand’era sveglia, e la testa continua a girarmi da sola, tendo a guardare su Netflix una puntata di Una mamma per amica, sono arrivata alla terza stagione, e può succedere che non capisca nemmeno tutte le battute. Sono perversioni che dovrebbero rimanere segrete, me ne rendo conto: invece vi invito a non perdere il rispetto per le ragazze Gilmore o se, come me fino a pochi mesi fa, in ventun anni che sono in circolazione non ve le siete mai filate, rispettatele a prescindere.

Ci sono giornate poi dove mia figlia s’addormenta e mi ritrovo io troppo sveglia: allora alzo il pollice in cerca di un passaggio che mi porti lontanissima fino ad arrivare, magari, dentro a tutto quello che mi fa male, mi fa bene, ancora non ho capito sulla vita e sull’amore, o devo accettare di non riuscire a capire. Mi è successo con Scene da un matrimonio, soprattutto con il quarto episodio, quando la bocca di lui si apre e si chiude per non dire niente e si sente la voce di lei, ma lei ha la bocca chiusa, tutti e due si parlano addosso, nessuno ascolta – succede così quando non si riesce più a tenersi, ma nemmeno a lasciarsi. E mi è successo con The Guilty, il film di Antoine Fuqua, remake del thriller danese, con un infinito Jake Gyllenhaal che regge da solo quasi un’ora e mezza di primi piani dove lotta, da poliziotto, per difendere una donna che è stata rapita dal suo ex psicopatico, mentre crolla come uomo, come marito e come padre nell’irreparabilità dei suoi errori e fruga in tutti i nostri, soprattutto quando ci convinciamo di poter rimanere la persona che siamo anche se, con un comportamento, abbiamo tradito quella persona. Di chi è la colpa. Nostra o di nessuno, nostra e di nessuno, povero poliziotto-padre-marito, poveri noi, terribile poliziotto-padre-marito, terribili noi. Il bellissimo libro di Alessandro Piperno, che pure mi ha fatto tanta compagnia negli ultimi mesi, ci ricorda quanto “è difficile accettare il pensiero di essere i soli protagonisti della propria vita”. Pensiero di cui purtroppo Camillo Bellocchio non può più permettersi il peso, ma nemmeno la catarsi: allora è il fratello Marco che fa sua e trasforma in quello che per me è il film più commovente e ispirato e potente che ho visto quest’anno, Marx può aspettare, la domanda. Se un ragazzo di vent’anni si toglie la vita, di chi è la colpa? Se è sempre nostra e di nessuno, nostra o di nessuno, la famiglia di quel ragazzo, mentre lui portava la colpa di essere la persona che siamo alla più disperata conseguenza, che faceva?

Ho amato uno per uno le sorelle e i fratelli Bellocchio, li ho odiati tutti,

tranne Camillo, uscita dal cinema riuscivo solo a pensare che, per legge, si dovrebbe prendere la patente per metterla su, una famiglia. O chiedere a Gavin Francis, un medico scozzese pieno di visioni e di grazia, come si fa a trasformare i nostri figli “in ancore, vele e zavorre”. Per poi partire, “innamorati dell’idea che su un lembo di terra circondato dal mare su di noi possa calare un’insolita chiarezza mentale”, alla ricerca di Isole: si intitola così il suo libro, che adesso ho sul comodino, la cartografia di un sogno di cui prima di spegnere la luce, comunque sia andata la giornata, leggo almeno un capitolo, faccio quello che in assoluto da due anni mi manca di più, mi metto in viaggio.

Quello di Gavin Francis comincia dalle isole Shetland. In autostop.

Chiara Gamberale (Roma, 1977), scrittrice. Il suo primo libro, “Una vita sottile”, è uscito nel 1999. Ha ideato e condotto programmi televisivi e radiofonici, è direttrice artistica del Festival Procida Racconta. Nel 2020 è uscito il suo podcast per Chora, “Gli slegati”. E’ adesso in libreria con il suo nuovo romanzo, “Il grembo paterno” (Feltrinelli, 2021).