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Voglio morire. No, morire no, non ho tempo

Se Natalia Aspesi sapesse che Guia Soncini annota brandelli delle loro conversazioni da dieci anni, la accuserebbe di accumulo da obituary. Non-intervista all’amica civetta, signora del Novecento che fa solo quel che le pare. Di chi parliamo male oggi?
di Guia Soncini
illustrazioni di Makkox

Natalia, la Review del Foglio mi ha chiesto di intervistarti. “Ah, vi state preparando l’obituary”.

L’equivoco più colossale di cui io sia oggetto da qualche anno in qua è ch’io sia in grado d’interpretare i desideri di Natalia Aspesi. Che non sarebbe mai così noiosa da dire la verità; se questo aiuta a restringere il campo – probabilmente pensa il contrario di quel che ti dice – non risolve però il mistero-Natalia. Per esempio, io sono convinta – una convinzione che non poggia su nessun elemento di realtà – che sarebbe lusingatissima da una festa a sorpresa, per il suo imminente compleanno (il 24 giugno sono 93). “Festeggi?” “Ma sei matta? Son sempre riuscita tutti i compleanni a nascondermi, non parliamo dei novanta che ci mancava poco volessero mandarmi la banda. Non c’è nulla di più orrendo del compleanno della vecchia”. Il mio telefono riceve più chiamate in cui mi si chiede d’interpretare i fondi di caffè aspesiani che chiamate in cui mi si chieda come sto (ora non prendetelo per un invito a chiedermi come sto). Uso moltissimi “mai”, e mi sacrifico a smentire convinzioni assurde; oppongo uno scoraggiante “ma lei scommetto che non l’ha firmato” a ogni “ho qui il contratto” con cui qualcuno si dice sicuro d’una prossima collaborazione aspesiana; il dettaglio più buffo è che mi attiro più antipatie di Cassandra.

“Vado a pranzo da Natalia, cosa le porto? Mi ha detto dolci no” “Un dolce va benissimo” “Ma mi ha detto che è body horror e non li mangia” “Scommettiamo che lo mangia?”.

“Vogliamo fare un documentario” “Non lo farà mai” “Ma ci ha detto di sì” “Dice di sì perché non le va di discutere, è una donna del Novecento, ci hanno insegnato a dire sì e poi a fare come ci pareva”.

“Vi vogliamo in collegamento col nostro programma una volta a settimana, tu e lei dal suo divano” “Ma secondo te” “Non mi ha mica detto di no” “Foss’in te non terrei pronto il cameraman”.

“Ha acconsentito a un libro intervista” “Non si farà mai” “Ma è entusiasta” “Tu hai creduto a ogni ‘ti amo’ detto in corso di copula, ve’?”.

No, ho mentito (la Aspesi, grande menzognera, è contagiosa): l’equivoco più colossale di cui io sia oggetto da qualche anno in qua è ch’io sia in grado di convincere Natalia a fare qualcosa. Il più poderoso indizio di non conoscenza di Natalia è l’idea che esista qualcuno al mondo in grado di convincerla a fare quel che non vuol fare.

C’è una cosa che succede con Natalia e che è precisa identica al meccanismo che abbiamo vissuto più o meno tutte, in gioventù, con certi sciupafemmine seriali. Loro non ci si filavano sempre nello stesso prevedibile e smaccato modo, e noi ci convincevamo che con noi sarebbe stato diverso, doveva esserlo, noi li avremmo redenti, noi saremmo state quelle che trasformavano il playboy in pantofolaio, il bugiardo in sestessista, Gigi Rizzi nel papà del Mulino Bianco.

Quelli che mi hanno messo il muso in questi anni a causa di Natalia non credono che io abbia scostato la tenda di Oz svelando il trucco: credono che lei non vedesse davvero l’ora di partecipare al loro documentario, varietà, pranzo di nozze, sorteggio di girone, ma che io sia la stronza che si è messa in mezzo. Anche la Review è convinta che io non abbia insistito abbastanza per convincerla a una vera intervista, che lei invero non vedeva l’ora di fare, bisognava solo corteggiarla. E forse per questa volta è vero: per i suoi novant’anni le avevo fatto una vera intervista, in effetti. Ci avevo messo solo sei mesi a convincerla. Cioè: mi aveva – come sempre – detto sì immediatamente, e poi aveva iniziato a trovare scuse. In sei mesi avevo dedicato le mie energie a somigliare al ritratto che di me tracciava mia nonna: “Tu le persone le prendi per sfinimento”. Alla fine si era pure lasciata rubare delle foto d’infanzia.

Tra i suoi novanta e i suoi novantatré, però, i dieci minuti di strada tra casa mia e casa sua sono diventati due ore. Quanti treni posso prendere per sfinirla finché dirà sì? Già al primo capisco che non può funzionare. Al secondo le dico senti, ho pensato che scriverò qualcosa di queste nostre chiacchiere a pranzo, scrivo un tuo ritratto, mica un’intervista, un come ti vedo io, gli appunti che prendo quando parli, magari nell’articolo ci metto qualche virgolettato, te li faccio leggere prima. “Non farmi leggere niente”. Ti mando solo le tue frasi, così le approvi. “Ma io mi disapprovo”.

Quella storia lì dell’obituary è un vezzo – Natalia è la donna più civetta ch’io conosca, d’altra parte è cresciuta in anni in cui la civetteria femminile era questione seria – ma non è del tutto falsa. La prima volta che ho incrociato Natalia eravamo ospiti della stessa trasmissione, lei collegata da Milano, io in studio a Roma. Le davo ostentatamente del lei, e lei disse in quel suo modo che riesce nello stesso fiato a essere sbrigativo e cortese “Ma perché mi dai del lei?”. Avevo poco più di trent’anni, e quella fu una delle prime volte in cui mi resi conto di che età stupida è.

Qualche anno dopo dall’auditorium di Roma mi chiesero d’intervistarla sul palco. Il titolo della serata era Lezione di giornalismo. A lei faceva schifo, figuriamoci a me. Andai a trovarla in albergo per metterci d’accordo sulla conversazione, e fece quel che fa Natalia con gli estranei: sedurli, sedurmi. Come gli attori di Hollywood, ha un repertorio. In quel caso spaziava da quella volta in treno in cui si finse una passeggera ricca e i Beatles che non parlavano con la stampa con lei invece chiacchierarono, a quella volta che era al mare e quindi le toccò andare a intervistare Mina che quella sera cantava per l’ultima volta alla Bussola di Viareggio. Ma non le manca la leggenda privata. Ho un’amica che da anni dice che, ogni volta che vado a casa di Natalia, dovrei portare una telecamera. L’amica sa esattamente tutto il lessico famigliare di casa Aspesi, e sa che così avrei il documentario pronto, quando Natalia muore. Ve l’avevo detto, che quel vezzoso liquidare le richieste come obituary da mettere nel cassetto non era infondato.

Lo spreco è che nessuno pensa al presente. Certo che è interessante sentirsi raccontare di come s’intrufolò nella stanza di Gino Paoli che s’era sparato, o di come la mamma le dicesse ogni mattina “Peccato quelle gambe”, ma dove Natalia dà il meglio è sul presente. Premette vezzosa “Non è il mio tempo, non lo capisco e non lo voglio capire”, e poi ti sfodera le migliori analisi dell’oggi che mi accada d’ascoltare, anche quando finge di star parlando dell’ieri.

“Racconta questa rincorsa, che se tu non volevi ti chiavavano, ma se tu chiedevi per favore, mi fai questo piacere, perché volevi liberarti della verginità, si spaventavano. Non lo trovo”. Stiamo cercando un libro che Natalia vuole regalarmi acciocché io apprenda come funzionava quando nelle facoltà di sociologia essere lesbiche era un gesto politico. “Poi è passata, questa cosa che se non avevi avuto un rapporto con una donna non eri una vera femminista”. Il libro non lo troviamo. Ogni volta che Natalia mi dice che non abbiamo niente in comune, non tiene conto che abitiamo entrambe appartamenti in cui è impossibile ritrovare un libro. Una telefonata. “Natalia, il 17 presento il mio libro. Vieni? Lo so che non hai voglia di parlare, ma almeno a sentirmi sproloquiare”. “Ma amore, io lo sai che per te farei tutto, ma non mi reggo in piedi, per allora sarò morta, se sono viva vengo”. Riattacco, chiamo l’organizzatore della serata, invece di “Pronto” risponde “Mmm”. “Ho detto a Natalia del 17, poi vediamo se le va di parlare, intanto teniamole due posti, magari viene davvero”. “Mmm”. Ma perché ’sto cretino mugola? Guardo il display. Ho richiamato Natalia. “Oddio che rimbambita, ho richiamato te”. “Ah io stavo zitta perché volevo sentire se dicevi: quella vecchia baldracca della Aspesi”.

Se sapesse che sono dieci anni che ogni volta che esco da casa sua annoto freneticamente brandelli di conversazione, mi accuserebbe di accumulo da obituary. È cominciata quand’è morto Lucio Dalla. Non ero mai stata a un suo concerto. Ho iniziato a pensare che poi la gente preziosa muore. Peggio: che chi fa parte del paesaggio che dai per scontato muore. Anche se nel sottoscala della ragione sono convinta che la Aspesi sia immortale.

Quando Natalia mi dice che sta per morire io mi rilasso: sono così convinta che menta come respira che penso che ogni dichiarazione di morte imminente significhi che ci seppellirà tutti. Le dico: non puoi morire, non sono preparata psicologicamente. “Eh, vabbè, comincia a mangiare meno e preparati”. Mi torna in mente la poetessa Alessandra Carnaroli, intervistata da Teresa Ciabatti, che racconta: “Mamma diceva: vai a chiamare la nonna per pranzo. Io andavo, e lei rispondeva: non posso venire, oggi muoio”.

Stiamo parlando del Danno, il film in cui Juliette Binoche tradisce il fidanzato col padre di lui, Jeremy Irons. Natalia interrompe un’osservazione sulla bellezza d’un appartamento del film, per fare uno di quei sospiri lamentosi che le vengono benissimo: “Voglio morire. No, morire no perché non ho tempo”.

La sera è una delle pochissime sere in cui esco io e non lei, che ha sempre qualche impegno mondano che ti annuncia dodici secondi dopo averti detto che non si regge in piedi e ha intenzione di non prendere mai più impegni. Lei per una sera sta a casa, e io ho una cena nel palazzo della Borsa. “L’ha fatto il bisnonno di mia nipote, architettura fascista”. Natalia è a un grado di separazione da tutto e tutti, ho capito negli anni. Chiunque io nomini lei lo conosce, è stata a cena a casa sua la settimana prima, ebbe un flirt di gioventù col suo bisnonno, si sono visti alla Scala ieri, sa che scappa dai creditori quando ancora il resto della città lo crede ricco, lo aspetta a pranzo ma le hanno detto che è vegano e “non so cosa mangino, credo dei semi”.

Cito un tizio che conosco da quando ero alle elementari. Ovviamente è un suo amico. È anche uno dei quattro italiani che si rifiutano di commentare la guerra in tv. “Non si può parlare della guerra. Solo gli scemi ne parlano. Poi si stupiscono delle atrocità: ma credevano la guerra fosse una cosa che uno chiede scusi signorina, le spiace se la stupro?”.

La caratteristica aspesiana che preferisco è lo spirito pratico. Tutti si lamentano della stazione dell’alta velocità di Bologna, quella sotterranea dalla quale nessuno, neanche il progettista, ha capito come si esca (né come si arrivi dall’ingresso ai binari). Lei ha risolto: “Non prendo il treno ad alta velocità. Tanto, se ci metti due ore a uscire dalla stazione, tanto vale arrivare piano. Poi fatta come se a Bologna servisse il Beaubourg”.

Stiamo parlando di quando i giornali avevano i soldi. Ho ritrovato una ricevuta di sette vite fa, un ristorante di Los Angeles, quelle ricevute di carta di credito su cui dovevi annotare il venti per cento di mancia. La mancia aggiunta era di 90 dollari: adesso poco ci manca te li diano per un articolo. “Ma l’avevi aggiunta da ubriaca, non vale. Però ci mandavano in prima classe. Adesso a piedi”.

Le chiedo se quarant’anni fa saremmo diventate amiche, se io fossi stata adulta allora. “Non ho nessuna ragione di volerti bene, non ti vedo mai, non abbiamo niente in comune”. Ma se sono qui, esclamo desolata. Facciamo un coro di lamenti sul declino della civiltà della conversazione, mi dice che a una cena si è trovata seduta “tra due vecchi, molto più giovani di me, uno non diceva niente e l’altro parlava di Pirandello. E il cibo era pieno di schifosa besciamella”. Se dovessi stilare una classifica dei temi ricorrenti di Natalia, il disgusto per la besciamella sarebbe al primo posto, dopo la dichiarata mancanza d’invidia. “Ho sempre ammirato quelli bravi. Perché ero abbastanza intelligente, ma non istruita. Mi veniva giusto un po’ di nervoso se leggendo sconosciute capivo che eran molto brave. Che poi allora c’era molta più gente brava”. Scivoliamo nei grandi classici. Mi racconta di quando lavorava in un’azienda che importava macchine per fare i formaggi, e si ribellava alle richieste del capo: “Io i pacchi non li faccio, io sono segretaria. Odiavo talmente quel lavoro che passavo le ore al cesso a strizzarmi i foruncoli”. Chiedo come mai adesso vogliano tutti fare i giornalisti. “Ma se non c’è il giornalismo”. Eh però io incontro solo gente che, qualunque mestiere faccia, chiede di farla scrivere su qualche giornale, come fosse una partecipazione a miss Italia. “Perché credono sia facile. Ragazzi di vent’anni che scrivono: si apre il sipario sulla guerra. Guarda che il sipario non c’è. Non glielo dice nessuno”.

Mentre mangiamo il risotto le faccio vedere un video del consiglio comunale di Bologna. Un giovanotto delle Sardine, qualunque cosa siano, fa un accorato discorso su un altro consigliere che vive in campagna e al quale un cane ha ammazzato due oche. La dolenza per le oche è più fotogenica della spazzatura, o di altre cose più utili di cui potrebbe occuparsi un consiglio comunale. Parliamo dell’esibizionismo perpetuo, a lei piace Draghi perché si sottrae, io mi chiedo se l’elettorato di questo secolo sappia cosa farsene, di uno che non si fa gli autoscatti e non mette i cancelletti. “Uno come Draghi nel mondo di oggi non lo vuole nessuno. La ragione del successo di Salvini è stata che andava a mangiare i panini con la gente. Draghi ha una civiltà d’immagine antica, non si mette a piangere per le oche. Né la gente né i politici lo vogliono: è un corpo estraneo”.

Non prendo neanche un appunto mentre mi fa il resoconto del suo tentativo di parlare con l’amministrazione del giornale, perché sono impegnata a contorcermi dal ridere. “Chiami il centralino. Risponde una gentile signorina. Lei chi è? Natalia Aspesi. Come?! Enne come Napoli, a come Ancona. Vorrei parlare con Tizio. Perché?! Ho bisogno di parlargli. Ah ma se non mi dice perché io non glielo passo. La prossima volta dico: signorina, non lo dica a nessuno, ma io sono l’amante, e dovrei parlarci perché temo di essere incinta”. La prossima volta che qualcuno osa pagarmi in ritardo, attuo il metodo Aspesi del terrorismo psicologico. Non sono mica troppo vecchia per una gravidanza isterica.

Sto pensando che mi sa che le sue citazioni non gliele faccio disapprovare, le leggerà in edicola, sennò finisce che mi sgrida per le frasi fatte. Lei intanto sta mentendo con compiaciuta dolenza: “Io non voglio parlare più con nessuno, dico troppe stupidaggini, voglio solo ascoltare”. Sbuffa perché due tizie che la vogliono conoscere andranno a pranzo lì il giorno dopo (se sbuffa, vuol dire che le fa piacere). “La gente la vedi che pensa: mi sacrifico, vado a far compagnia alla povera vecchia. Non sanno che io sto tanto bene da sola”. Vorrei essere invisibile per origliare e sapere se le sconosciute verranno accolte dall’incipit conversazionale che Natalia preferisce: “Di chi possiamo parlar male oggi?”. Una sua amica. “Mi ha tenuta un’ora al telefono a raccontarmi tutte le colpe di chi ha voluto la guerra. Io do sempre ragione a tutti, posso mica mettermi a discutere”. Un ex direttore di giornale. Dico che il suo problema è che non conta più niente e non si rassegna. “Beh, ma anch’io avevo le tette che stavan su”. Se dovessi prepararmi un obituary di Natalia che le potesse piacere, dovrei trovare il modo di parlarne malissimo. Le piaceva la besciamella, era invidiosissima e molto sincera, ed era assai facile convincerla a fare quel che non aveva voglia di fare.

Guia Soncini (Bologna, 1972), scrittrice. Ha pubblicato, tra gli altri, «I mariti delle altre» (Rizzoli, 2013, Premio Forte dei Marmi), «L’era della suscettibilità» (Marsilio, 2021) e «L’economia del sé» (Marsilio, 2022). Il suo ultimo libro è «Questi sono i 50» (Marsilio, 2023).