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Bosco o mare, la questione è il confine

Quando tocca a lei, Alma parte per i posti di guerra come si va dove non si tocca. L’est è il suo punto cardinale, Trieste è la città dove torna a cercare la scatola dei ricordi. C’è tutto: il padre scanzonato, la madre che non curava solo le rose, Vili e le fosse comuni, il regime di Tito, il sangue degli altri. Il tempo perduto del passaporto rosso nel romanzo ventoso di Federica Manzon

Ci sono città così sovraccariche di aura – Odessa, Trieste, Praga, Sarajevo…

Crogiuoli, si dice, crocevia, o anche solo accozzaglie, di lingue genti e culture e storie. A volte viene voglia di tirarle giù, ad altezza d’uomo, o anche più in basso. La storiella che preferisco di Sarajevo è quella del tempo dell’assedio, e dell’angusta galleria segreta, “il tunnel”, scavato a mano sotto l’aeroporto. L’ho fatta due volte, anche uno corto come me doveva andare a testa bassa. La storiella: Zoran e Nenad, due vecchi compagni di scuola, Zoran sta uscendo dalla città assediata e bombardata, Nenad era all’estero e sta rientrando, si incontrano a metà del tunnel, ed esclamano all’unisono: «Dove cazzo vai!».

C’è anche quella storia, forse vera, della posta centrale di Sarajevo. «Un giorno, quando la guerra era scoppiata già da un anno, le persone che andarono alla posta centrale lessero sul muro la scritta: “Questa è Serbia”. Il giorno dopo sullo stesso muro qualcuno aveva cancellato la scritta e l’aveva sostituita: “Questa è Bosnia”. Il giorno dopo ancora, sul solito muro, qualcun altro aveva cancellato e scritto: “Questa è la posta, scemi!”».

Era Bosnia, s’intende. Ma era la posta. Era anche un caso della complicazione di storia e geografia. Un luogo si immagina appartenente alla geografia, o alla sua versione ravvicinata, la topografia. La storia pretende di manometterlo. L’una e l’altra rischiano di dimenticarsi che è un ufficio postale. In questo esempio, la scritta sul muro alternata, volta la carta, implicava una differenza in più, fra i caratteri latini del bosniaco e i cirillici del serbista. Io avevo fatto, a Trieste, la prima esperienza del rapporto fra la traduzione e il tradimento. Leggevo, sui muri, TRST JE NAŠ, e mia madre mi spiegava che voleva dire TRIESTE È NOSTRA. La frase che voleva dire Trieste è nostra significava che Trieste era loro – d’altri, e soprattutto non nostra. Dunque si poteva essere nemici mortali pronunciando la stessa frase. Era come con le due rivali davanti a Salomone. Qui non c’era una madre vera, come con Salomone, e Trieste e il resto furono spartite senza morirne, non del tutto. (Grazie a mia madre, io ero italianizzante, ma molto affezionato agli sloveni).

Queste son situazioni di contrabbando. Situazioni di confine. Un po’ più in qua alla gente non veniva in mente di scrivere sui muri FIRENZE È NOSTRA, o COSENZA.

Salvo le complicazioni del campanilismo. “Battipaglia ai battipagliesi”, 1969 – morti e feriti, assalto al commissariato, scontri a fuoco con le forze dell’ordine. E Trieste, la Trieste dei cantieri che allora non era di antivaccinisti ma di operai comunisti, nel 1966 era in piazza contro i portuali genovesi per la questione del Cipe, e gli uni e gli altri contro Roma…

Il padre di Alma aveva anche lui il suo repertorio di storie sarajevesi.
Alma, nei miei ricordi, è un nome bisiacco. Sorelle che si chiamavano Alma e Irma. Nel romanzo c’è Trieste il suo mare e il suo Carso, e ci sono quattro personaggi principali, i tre della famiglia, padre madre e figlia, Alma, e il quarto, Vili, che entra scontrosamente nella famiglia quando è un ragazzino di dieci anni. Qualcuno ha osservato che i due coetanei, Alma e Vili, si fanno da specchio, e il romanzo avrebbe potuto anche intitolarsi Vili. Mi sembra di no. Vili fa simpatia, da ragazzino rancoroso, da giovanotto con le spalle esili, da nuotatore ardito. Però è anche l’unico coi piedi piantati in un luogo d’origine, Belgrado: le appartiene tanto che alla bisogna può anche tradirla. (Si può tradire Trieste? Beograd poi è maschile, e questo fa una differenza. Non si può dire Belgrado mia, come Trieste mia). Che ci si interroghi su chi sia il personaggio principale è un buon segno, vuol dire che l’autrice ha voluto loro bene e ha dato a ciascuno il suo, ma è solo un gioco. La protagonista è Alma, e ha da subito, dalla seconda riga, quello che le occorre: «Una donna con gambe da cicogna e rughe ai lati degli occhi azzurrini come chi è cresciuto in una città ventosa, se ne va in giro sola…». Nelle prime tre righe, anzi, c’è l’isola, c’è la donna e c’è la città ventosa, tre femminili, partita chiusa.

Trieste, Alma non la chiama per nome. «La sua città a est». Lei ha un’aria di donna del nord, ma l’est è il suo punto cardinale. Lei e l’autrice ora si somigliano. Alma è andata a lavorare al giornale, nella capitale, ci sta di malavoglia.

L’isola, poi – il piccolo arcipelago – è Brioni, davanti a Pola, che dal 1949 fu la residenza estiva di Tito. Quello della prima pagina è un ritorno all’isola, che Alma aveva frequentato con suo padre, lo slavo, da bambina, e suo padre era nella cerchia di Tito, così anche la bambina l’aveva conosciuto, e aveva imparato a sentire un’aria di pericolo, e a prendere confidenza con le questioni nascoste, le armi, il denaro, il lavoro sporco. Ora la donna ha più di cinquant’anni, c’è un’altra guerra in quell’est che è il centro dell’Europa, suo padre è morto, non ha detto nemmeno dov’era nato, in qualche voivodina zingaresca, e che lingua ha ascoltato e parlato per prima. Le ha lasciato un’eredità di cose custodite in una scatola. Suo padre andava e veniva, scompariva, e anche Alma, c’era in lui qualcosa di segreto, com’è di chi ha un ideale smisurato e poi di chi l’ha perduto. Suo padre scriveva i discorsi di Tito dopo che lui li aveva pronunciati a vanvera. L’aura che aveva accompagnato il maresciallo è sepolta con lui – ma chi ha vissuto nella Sarajevo dell’assedio ha avuto una reviviscenza di rispetto per l’uomo che aveva avuto troppo potere e troppo tempo per non dilapidarsi, ma aveva fabbricato e puntellato una “unione fraterna” che, dopo di lui, era precipitata nella bancarotta fraudolenta, e un mio caro amico, uno dei più sensibili e intelligenti giovani inviati nella guerra di Bosnia, chiamò Tito suo figlio, che lo porta bene. Quanto a me, prima della guerra post jugoslava ero andato due volte in viaggio con Pertini a Belgrado (la prima volta anche a Sarajevo, la seconda per il funerale) e feci un bel colpo accostando al saluto del vecchio Pertini al vecchio Tito l’incipit vocativo del De senectute di Seneca. «O Tite, si quid ego adiuero…».

«Accadevano cose del genere…» – c’è del Musil nella prima parte del libro, sia detto a gran lode. Alma, e tutti gli altri, è raccontata in terza persona, con un’alternanza di presente e passato, imperfetto per lo più. Ogni tanto – già dalla seconda pagina – interviene un noi, senza una spiegazione. «Non esistono foto di quel giorno: pochi di noi sono stati immortalati…». Forse è una distrazione, forse la voce che narra è di chi ebbe una parte nella storia. A pagina 20 sembrerebbe di sì, ci sono i bambini che «giravano a gruppi», e subito dopo «cercavamo il mare, scendevamo tra le rocce…, rimuginavamo chissà quali pensieri». Né l’una cosa né l’altra. Noi forse è una variazione confidenziale della terza persona dell’autrice, un invito a parteciparne. “Noi” sappiamo comunque tutto. Quando il padre bacia la madre e la spinge in corridoio, fino alla camera da letto e chiude la porta, i piccoli Alma e Vili sono tenuti fuori, ma noi leggiamo che cosa si dice dietro la porta chiusa.

Un lettore come me, non professionale, e nemmeno tanto assiduo ai romanzi contemporanei, si regola sulle prime pagine come McLuhan e Mariarosa Mancuso alla pagina 69, per sincerarsi almeno dello scampato pericolo. Alla prima c’è un gabbiano che si sgranchisce le ali: mi fermo un momento, e sorrido, c’è una bella disinvoltura, del gabbiano e dell’autrice. A pagina 2 c’è un’«aria sbarazzina dei paesi non allineati». Va tutto bene, dunque. (Forse, più in là, anche un piccolo maremoto lessicale – «convinta di voler surfare sulle onde dell’oceano, finiva per rimpiangere la riva barcamenandosi su una zattera mal apparecchiata e propensa al mare in tempesta»).

Alma ha avuto dei nonni materni, è cresciuta con loro, con il loro decoro borghese, l’arrotondata ironia di lui, l’illustre germanista, la mondana spregiudicatezza di lei, giocatrice per il gusto di giocare, i pomeriggi al caffè San Marco, la casa nel viale dei platani – nemmeno questo chiamato per nome, per i due nomi. (Ci sono più di 2.700 platani a Trieste, dice wikip). I nonni e l’Austriaungheria, la lingua tedesca, le poetesse russe – la madre ne era scappata via, dal suo uomo sempre provvisorio dalle spalle magre, dai dottori che avevano spalancato il manicomio, a piantarci rose e ad accompagnare le ospiti dal parrucchiere, a vivere in una casa minore sul Carso. Alma che ha già conosciuto Tito e gli ha lanciato dei petali di rosa, conosce anche il gran dottore della città dei matti, ne sarà una beniamina – si chiama Franco. È un po’ Zelig, un po’ l’itinerario fatale così a portata di mano che sarebbe uno spreco non farlo proprio: come il Porto vecchio, e il magazzino delle cose salvate e mai più ritirate degli esuli, che diventa il luogo segreto di lei e di Vili, l’una all’insaputa dell’altro, e della pagina lirica del loro amore, e poi del tradimento. (Fatale, l’autrice lo dice solo della consolazione dell’acqua). Poi, nella abietta guerra post jugoslava, lei raggiungerà Vili a Belgrado, e vedrà la gente di Arkan, e lui sarà a Srebrenica accanto a Mladic che accarezza la testa del bambino e lo fotograferà… Succede di trovarsi nel proprio piccolo nei punti in cui passa la grande storia, come quando di notte si resta fermi dietro il camion della spazzatura. A raccontarlo si rischia l’inverosimiglianza, ma abbiamo letto Dostoevskij e almeno della verosimiglianza possiamo fottercene. A pagina 70 il noi ricompare, «quando eravamo ragazzi…», ed è riferito al tempo in cui c’erano ancora gli americani e gli inglesi, dunque noi siamo di una generazione precedente. Più in là tornano contemporanei, Alma e noi, «gli scogli da cui gareggiavamo nelle clanfe… È il nostro regno… Siamo tutti magri, con muscoli leggeri. Ci abbronziamo facilmente. Selvaggi che si regolano con il calar del sole». Generazioni che passano dai bagni e vivono il loro turno di creature d’acqua. A pagina 97, la cosa si fa chiara: «Intanto noi sfiliamo accanto a loro con slancio, spicchiamo il volo nel cielo intensamente blu per poi cadere avvolti in schizzi schiumosi. Apparteniamo tutti a questa scogliera. Qui siamo stati tutti, almeno una volta, degli dèi». Noi siamo il coro, il vecchio coro della tragedia.

Il padre conosce la guerra al suo inizio, nella macelleria infame di Vukovar. Vili non vuole ascoltarlo. Prova a dubitare dei suoi racconti, sa che è una partita persa. Rivendica per sé una specie di destino cui non ci si sottrae. «Se gli altri minacciano i tuoi, bisogna combattere». Non ti rendi conto di quello che dici. «Sì, ma io sono uno di loro, e tu non…». Tu non sei nessuno, sei un ragazzino che non sa niente. «Hai ragione. Io non so niente, non ero lì come te. Ma quello è il mio paese». E il pomeriggio stesso se ne va. Quando tocca a lei, Alma parte per i posti di guerra come si va dove non si tocca. A Sarajevo vanno già tutti. Bisogna andare «nella parte più difficile da capire», come la definirà il nonno. Ha visto sui giornali le fotografie di Vili dal fronte, dalla sua parte, dei serbisti, i cattivi. Lei vuole chiedersi ancora da che parte sta Vili, ma lo sa. Lo trova a Belgrado, si ritrovano, anime e corpi. Dopo, lei spera che lui le racconti, le spieghi. Ora tocca a lui urlare contro le sue «stronzate occidentali», dirle che «non sapete un cazzo», che la gente come Mladic o Arkan e Miloševic che, dice lei, non c’entra niente con lui, «invece sì, è la mia gente… Puoi stare qui qualche giorno, poi sparisci, la guerra non è posto per femmine».

Ci resta dei mesi. Lui va in giro, non le dice del suo lavoro. Lo vede entrare nell’edificio che ospita i caporioni. Un giorno – questa non è una recensione, e va su pagine quasi riservate, si può accennare a come va a finire – trova le fotografie di Vili, i roghi, gli stupri, le fosse comuni, i torturati. Li ha nascosti, quegli scatti, «per assicurarsi che lei non li vedesse, pensa». Questo “pensa” mette sull’avviso il lettore, può darsi che non sia così, benché tutto sembri dire che è così. Poi, per molto tempo, non saprà più di lui, non lo vedrà più, se non in un telegiornale, accanto al generale macellaio, davanti alla selezione per il mattatoio di Srebrenica. Scrive, «a ovest», da una Roma che per lei somiglia alla Roma dei film, della terrazza, l’ultimo pezzo sulla guerra, e lo illustra con le foto raccapriccianti e ambigue di Vili. Un altro passato da scrollarsi di dosso. Riveniamo al tempo della prima pagina, lei ha 53 anni, trent’anni di più, a Trieste, per quell’incombenza dell’eredità paterna affidata a Vili. In tempo per incontrare di nuovo il medico dei matti, quasi ottantenne – una licenza. E per sentirsi dire qualcosa di sua madre, che non curava solo le rose, che caricava in auto un matto e lo portava a fare un giro in città dicendogli che era Beirut. (Se volete scegliervi un altro personaggio preferito, provate con sua madre). Ora le resta di ritrovare Vili e la scatola dei ricordi.

C’è tutto. Il taccuino di suo padre, l’uomo dal passo leggero, il beniamino scanzonato delle signore, che aveva angosciosamente annotato il tramonto del regime e l’avvento dell’apparato che avrebbe disseppellito le antiche ossa per saziarsi di sangue. La raccolta degli articoli di Alma. E la documentazione su Vili, testimone all’Aia del genocidio e dei crimini contro l’umanità della gente cui si era arrischiatamente mescolato. Un colpo di scena, forse: non tanto. Si può immaginare che l’autrice abbia esitato e riflettuto molto prima di decidere per questo esito. Forse ha pensato che un romanzo serva a tenere accesa almeno una luce. Ha dato al suo personaggio la possibilità di sfuggire al richiamo dell’appartenenza, quella che lui stesso aveva ostinatamente rivendicato. Almeno lui. Salvato, a sua volta, da un lascito paterno, una lettera, dei libri.

Da Belgrado, agli inizi della fabbricazione nazionalsocialista, degli scontri sugli spalti degli stadi e poi dello scatenamento della furia armata, molti erano andati via, giovani soprattutto – è successo di nuovo dalla Russia nel 2022. La furia aveva vinto. Faceva piuttosto impressione l’adesione, ostentata e riccamente ripagata, di chi, dalla parte opposta, non obbediva all’appartenenza, di chi godeva del privilegio della scelta – il sarajevese Kusturica, per fare un nome indimenticabile. Appartenenza, sradicamento, sono temi cari all’autrice di Alma – ad Alma. Qualcuno, tradito da un titolo, ha associato al romanzo “il richiamo del sangue”, che è il contrario di quello che dice, e l’autrice non fa che chiarirlo. Il sangue che ha richiamato tanti e così bestialmente non è quello degli antenati, è quello altrui, del massacro cercato e goduto, quello per il quale si raccomanda che agli animali domestici sia impedito di provarne il gusto. Con gli animali umani è ancora più difficile, una volta che ci abbiano affondato i denti. Più affabilmente, ho simpatia per il desiderio, esaudito, dell’autrice, che è nata a Pordenone, di essere triestina e di farsene un mito. A me piace Pordenone, quel pezzo che somiglia a Venezia, all’asciutto. Non trascuro un’influenza, e niente di più, del luogo in cui si è nati. Diceva Mauro Rostagno: «Io sono più siciliano di voi, perché ho scelto di esserlo».

Manzon ha scritto altri libri, io ne ho letto solo un altro, sulla scia di Alma, si intitola Il bosco del confine, è del 2020. È una filigrana di Alma. C’è una ragazza, suo padre, camminano nei boschi, «verso est o verso nordest», chissà perché, c’è il Carso, un mondo di adulti e di segreti, il «di là», oltre confine, un vero fratello, e uno di adozione, Luka, a Sarajevo. Luka rannicchia il collo tra le scapole, come Vili. C’è la fotografia nascosta in una custodia di dischi, come quelle di Vili. C’è l’isola, non è Brioni, è Goli Otok, Tito ci ha mandato a morire il padre di Luka. Anche lì un rischio Zelig, l’incontro con Radovan Karadžic, il cattivo psichiatra, il poeta frustrato, il boia. Non dispiaccia all’autrice, ho letto il romanzo del bosco come una sinopia di Alma, un allenamento. Alma ne è come la stesura compiuta (non amo le parole “realizzato, risolto”, erano il mio solo dissenso da Claudio Magris). E soprattutto, è il trasloco, la discesa, dalle montagne, dal Carso, dal bosco, alla città di mare, ai corpi nudi, ai tuffi e alle nuotate – alla consolazione fatale dell’acqua. Questo vuol dire forse che l’autrice ha in serbo un romanzo erede ancora più compiuto? Non credo, Alma basta a se stessa e, nella proliferazione di prove letterarie ispirate alla ex Jugoslavia, il racconto di Manzon è dei più belli e convincenti – maturo. La prossima volta, est o no, dovrà guardare parecchio più in là. La stessa Ucraina aspetta “la pace”, quando chi c’era se ne va, e chi non c’era torna, e arrivano gli scrittori – le scrittrici. Vuol dire questo Ucraina: terra di confine. Cose belle vengono già da lì, dalla frontiera bielorussa-polacca, Agneiszka Holland, Kasia Smutniak.

Bosco o mare, la questione è il confine. E Alma è anche la storia della perdita di un tempo in cui un passaporto rosso permetteva di attraversarli tutti sicuramente, come passeggeri invisibili. L’autrice è della generazione, la metà della mia, più o meno l’età di Schengen, che non ha conosciuto la trepidazione del passaggio del confine, il prototipo del senso di colpa dell’innocente. Tuttavia, per restare nei nostri paraggi, dallo scorso ottobre l’Italia ha ripristinato i controlli ai valichi di confine con la Slovenia. Lì l’innocente che viene da lontano, in ciabatte, e cerca di attraversare col cuore pesante perché non tornerà indietro, è dichiarato colpevole ipso facto, e Trieste ne ha ricavato un’ennesima incarnazione del suo destino di città di confine. A suo tempo, fu anche la culla del “fascismo di confine”, il peggiore.

Dei migliori, c’è il confine sul quale era nato Alexander Langer. Uno degli abitanti di Sterzing che, dal 1918, avevano dovuto imparare di abitare a Vipiteno.

«Ho vissuto in parecchie città diverse, per periodi più o meno lunghi. Nessuna la sento mia al punto da considerarmi suo cittadino (in questo senso solo Vipiteno è la “mia città”: però l’ho praticamente abbandonata da tanti anni), ma in molte mi capita di sentirmi a casa. E non potrò fare a meno di ritornarvi di tanto in tanto, in un giro che via via si allarga e che sento di poter ancora allargare».

Adriano Sofri (Trieste, 1942), scrittore.