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Certo potevo dormire, ma preferisco lavorare

Ottessa Moshfegh sa di essere una brava scrittrice e non te le manda a dire. Quando era depressa ha fatto un patto con sé stessa: se sua cugina fosse sopravvissuta all’11 settembre, lei avrebbe avuto fiducia. La sveglia che non è suonata, i tanti lavori e l’ironia come lusso definitivo. Conversazione sui libri già scritti e su quelli che verranno

Ottessa Moshfegh è quello che si dice in inglese “no bullshit”. Non te le manda a dire. Non ci gira intorno. Sa di essere una brava scrittrice, non lo nasconde, ma la sua dichiarata asocialità evita di farla sembrare arrogante. «Non sono misantropa, sono realista», dice sorridendo. Vive a Pasadena con il marito, uno scrittore, e tre cani. Ha un’ottima carriera. A 42 anni ha scritto cinque romanzi e una decina di racconti usciti sulla Paris Review e sul New Yorker.

Il suo romanzo Il mio anno di riposo e di oblio, la storia di una ragazza che decide di dormire per un anno intero, con la pandemia è diventato uno dei libri più amati da millennial e Gen Z. Su TikTok la copertina, con il ritratto di una donna in bianco dipinto da Jacques Louis David, è stata condivisa milioni di volte.

Il regista Yorgos Lanthimos, che ha appena fatto vincere un Oscar a Emma Stone con Poor things, sta lavorando a un adattamento cinematografico del libro. Il romanzo più recente di Moshfegh è Lapvona, storia cruenta ambientata in un feudo medievale. Feltrinelli ha appena pubblicato in Italia (traduzione di Gioia Guerzoni) il suo esordio, McGlue, la storia di un marinaio quasi perennemente ubriaco innamorato di un altro uomo nel New England di metà Ottocento.

McGlue è uscito negli Stati Uniti dieci anni fa. L’hai riletto?

Non lo leggo da anni. Ma se lo facessi probabilmente rimarrei impressionata dalla giovane Ottessa che l’ha scritto. Era piena di energia. È quasi surreale che sia stato tradotto, perché il libro è stato scritto in inglese, e in un inglese molto specifico. Tutto il libro consiste in un personaggio-narratore che ci parla. Immaginarlo in un’altra lingua è strano. Ma finora le persone l’hanno capito, quindi deve esser stato tradotto bene.

McGlue, ma anche Lapvona, sono ambientati in un tempo in cui non c’erano telefoni. Di recente Bret Easton Ellis ha detto che è riposante scrivere un libro dove non ci sono cellulari.

Non so, non ci penso più molto. C’è un periodo della mia vita in cui non potevo immaginare di scrivere della narrativa importante in un mondo contemporaneo, con cose come i cellulari e i computer. Pensavo che infilandoli in un racconto o in un romanzo fai sembrare tutto molto stupido. Ma adesso penso sia un’idea sciocca. Capisco che Bret dia valore a un mondo senza cellulari perché la sua opera, soprattutto i suoi romanzi ambientati a Los Angeles, parla di persone che sono da sole e fanno una telefonata e salgono in macchina e se non sono a casa non possono rispondere se qualcuno li chiama, quindi ha senso. E poi probabilmente si è stufato dei cellulari.

Dice che danno più dipendenza della cocaina.

Sì, ma non penso che siano necessariamente pericolosi per tutti noi. Se usassi la cocaina tanto quanto uso il mio cellulare sarei morta.

E per i cellulari non moriamo, non ancora almeno.

Magari non fisicamente, ma spiritualmente sì.

E tu non usi i social.

Se usassi i social sarei sempre arrabbiata. Ma è virtualmente impossibile non essere influenzata dai social media, e per quanto mi riguarda l’influenza che ricevo passivamente è già sufficiente.

Cos’hai letto prima di leggere McGlue?

Sono arrivata a McGlue da scrittrice di racconti. Ero molto interessata ai racconti. Ero molto interessata al linguaggio come materiale. Se mi stai chiedendo se stavo leggendo Moby Dick o Nathaniel Hawthorne la risposta è no.

Conrad?

Apocalypse Now. Come si chiama il libro?

Cuore di Tenebra.

Quello l’ho letto al liceo. Ma non mi sono davvero preparata a scrivere McGlue se non leggendo articoli negli archivi, giornali del New England di metà Ottocento. Mi sono un po’ ossessionata al linguaggio di questi articoli. Al sense of humor. Il giornalismo allora aveva qualcosa di ridicolo, non avevano la tv e i giornali erano davvero incisivi e pieni di intrattenimento. Negli articoli c’era sempre qualche strana battuta. Ho passato ore in biblioteca. Mi interessava molto il modo in cui gli abitanti del New England usano il linguaggio, punto. Essendo cresciuta lì so che ci sono molte modalità diverse, in base alla geografia, alla classe a cui appartengono le persone, a quanto abitano lontani tra loro. Lì ci sono molti modi di comunicare e molto diversi. Per esempio, il livello di umorismo e di sincerità varia molto tra classi sociali.

E dove vivi ora, a Los Angeles?

Non delineo la lingua inglese in California. C’è qualcosa di molto noioso nel modo in cui le persone parlano nella West Coast. Non ha alcuna personalità. È piuttosto terribile.

E non c’è una vera scena letteraria a Los Angeles, non come quella di New York almeno.

Essere uno scrittore a New York è come essere sui social. Non hai alcuna privacy e sei in costante competizione con gli altri. Questo ti rende più mediocre di quanto tu non sia. E non ti permette di godere delle tue peculiarità.

Lapvona è stato il prodotto della pandemia?

Sì, totalmente. Non avevo intenzione di scrivere un libro in quel periodo, mi stava per uscire un romanzo. Tutti in quella fase hanno avuto delle strane esperienze, e quando ci siamo resi conto che non sarebbe durata solo un paio di settimane, ma un anno, è stato duro digerirlo. E allora ho capito che avevo bisogno di scrivere un libro. Non c’erano scuse, certo, ma ne avevo anche bisogno.

In Lapvona, così come in altri tuoi lavori, come in McGlue, ci sono elementi e scene intense di crudeltà e di potere. Quest’intensità ti viene naturale?

Sì. Penso che l’intensità sia qualcosa in cui nasci. Tutti nella mia famiglia sono estremamente intensi. Io penso di esserlo meno di tutti loro. Lapvona è un libro molto teatrale, molto cinematico. Ho pensato a lungo a come ogni sezione dovesse avere la sua dinamica. Non volevo che ogni singolo istante del libro avesse quel tipo di intensità, o lo stesso tipo di effetto viscerale.

Il mio anno di riposo e oblio ha avuto un grande successo. Te lo sei goduto?

Mi sento estremamente fortunata. E non è che ogni volta che qualcuno legge un mio libro preme un bottone nel mio cervello. Sono contenta che il libro abbia raggiunto una nuova generazione di lettori durante la pandemia, durante il lockdown. Questi lettori, molti sono giovani, alle presentazioni vengono da me e mi dicono che il libro per loro è stato importante in quel periodo. E dicono anche che hanno trovato degli amici proprio per un comune apprezzamento del libro. È un vero complimento sapere che il tuo romanzo può unire le persone e creare delle amicizie e dei rapporti del genere.

Avevi pensato fin da subito di ambientarlo appena prima degli attacchi dell’11 settembre?

Quando l’ho iniziato non ero certa dell’anno in cui era ambientato. Per prima cosa è venuto il personaggio, e poi mi sono resa conto che eravamo nel 2000 quando ho iniziato a descrivere e inventarmi il tipo di opere d’arte presenti nella galleria. Il mio istinto era stato indirizzato verso riferimenti decadenti e over-the-top e allora mi sono resa conto che era esattamente quello che si trovava nelle gallerie newyorchesi all’inizio del nuovo millennio. In America sotto Clinton tutti stavano più o meno bene, e tante persone stavano molto bene. C’era un sacco di grasso in eccesso. Nell’arte si poteva essere irriverenti, al limite dell’irresponsabile. È in quel periodo che l’ironia è diventata così centrale. L’ironia è il lusso definitivo. Poi mi sono resa conto: questo libro riguarda quel periodo e non potevo certo scrivere del 2001 senza affrontare questo evento gigantesco che c’era stato a Manhattan. Una cosa davvero potente.

Eri a New York?

Sì, ero lì. Ero all’ultimo anno di college a Manhattan l’11 settembre. Su di me ha avuto un effetto straordinario, mi ha cambiato la vita. Ha cambiato le mie sensazioni su cosa sia la vita.

In che modo?

È stata una specie di sveglia. Ero stata una persona molto, molto depressa. Avevo vari problemi, ero arrabbiata, intollerante, impaziente. Era come se ogni cosa si muovesse troppo velocemente o troppo lentamente. Provavo tutto quello che prova un’adolescente depressa e intelligente: non hai la maturità per capire che la vita è lunga e auspicabilmente se ti prendi il tuo tempo e ti concentri su una cosa sola e ti prendi cura di te e ti circondi di persone a cui vuoi bene e che trovi interessanti e che ti ispirano starai meglio. Ecco, non lo sapevo fare. Ero autodistruttiva. Quando l’11 settembre mi sono svegliata ho sentito la notizia sulla radiosveglia e ho pensato: ho una cugina che lavorava sulle Torri gemelle. L’unica volta, qualche anno prima, che ero andata sulle Torri era stato per vedere il suo ufficio ed era tipo al piano 110. Era terrificante. Mi ricordo che camminavo nel suo ufficio, tutto finestre, ed era come essere in cielo, e ho pensato: non dovremmo costruire posti del genere. Quindi, quando quella mattina ho sentito la notizia ho provato questo orrore incredibile e ho pensato: che coincidenza che mia cugina lavora lì. E i telefoni non funzionavano, né i cellulari né i fissi, e non potevo chiamare la mia famiglia, non potevo chiamare nessuno. Era molto bizzarro. E quindi ho fatto questa specie di patto con Dio, e a quel punto non avevo praticamente alcuna fede. Stavo testando la realtà: andrà tutto bene nella mia vita? Ho imboccato la strada dell’inferno o c’è qualche possibilità di redenzione? E così ho fatto questo patto, che verso la me ventenne era piuttosto manipolativo e ingiusto. Il patto era: se mia cugina è morta in questo incidente, non c’è alcun Dio, e niente ha senso, e la realtà è un incubo surreale e a vivere non ci proverò nemmeno. Non che necessariamente stessi pensando ad ammazzarmi, più a lasciar perdere tutto. Ma se lei invece sta bene lo prenderò come un segnale e farò tutto il possibile per provare a vivere. E poi è venuto fuori che mia cugina quella mattina si era svegliata tardi. Sono storie comuni sulla mattina dell’11 settembre: ho perso l’autobus, sono sceso alla fermata sbagliata, ho portato mio figlio dal dottore.

Quindi dopo questo patto hai iniziato a scrivere?

Stavo già scrivendo. Quello che ho fatto in pratica è stato permettere a me stessa di avere dei sentimenti. E facendolo qualche mese dopo ho capito che potevo vivere con più determinazione, e che avevo un sacco di tristezza di cui dovevo liberarmi. Facevo delle cose strane, avevo spinto il letto contro il muro e avevo iniziato a dormire sul pavimento perché avevo bisogno di sentirmi con i piedi per terra, tornavo a casa da lezione e mi sdraiavo a terra e piangevo per tipo un’ora. In realtà è stato un periodo davvero speciale.

Non lo fai più?

Adesso sono meno coinvolta nella mia vita emotiva e non posso concedermi di prendermi cura di me stessa nello stesso modo.

Ti manca quella connessione che in quel periodo avevi con le tue emozioni?

Sì. Ma era doloroso. Posso accedere a quelle sensazioni molto facilmente, posso tornare all’orrore. Ma per continuare con la vita quotidiana non posso sempre concentrarmi su quello, altrimenti poi non riesco a fare nulla.

Questo cambio di prospettiva sulla vita ti ha aiutata con la scrittura?

Sì, decisamente.

E quando hai iniziato a scrivere in modo più professionale?

Mi sono resa conto che ero una scrittrice a circa 13 anni, ed è lì che ho iniziato a scrivere seriamente. Sono passati quasi trent’anni. Ma professionalmente non mi sono mai vista davvero come una persona che poteva avere una carriera in quell’ambito. Non avevo alcun modello. Ma ho scritto McGlue all’università e quando ho finito l’università mi sono resa conto che se volevo essere felice, o qualcosa di simile, dovevo trovare il modo di guadagnarmi da vivere scrivendo quello che volevo, perché fino ad allora non era stato così. Prima di allora non pensavo che fosse positivo mettere pressione alla propria arte, e che l’arte e i soldi non si dovessero mai mescolare. Poi quando mi sono trovata in una situazione difficile, con le spalle al muro, ho capito che avevo due opzioni: o sprecare tutto il mio tempo lavorando per gli altri, oppure potevo sperimentare e compromettere la mia purezza di artista e vedere se potevo tirarne fuori qualcosa che mi sostenesse anche economicamente. E ho capito che potevo farcela.

In Il mio anno di riposo e oblio a un certo punto la protagonista quando viene licenziata dice: «Mi dispiace perché ho sprecato un sacco di tempo lavorando quando invece avrei potuto dormire». In qualche modo anticipa, all’estremo, il mantra anticapitalista di millennial e Gen Z: la vita è ben più del lavoro, godiamocela.

Io però non mi sento così. Non ho gran rispetto per quell’idea. Adoro lavorare. Lavorare probabilmente è l’unica cosa che mi godo [ride]. Forse quel discorso riguarda il modo in cui le persone definiscono il lavoro, perché fanno cose che non gli piacciono. È per questo che non vogliono lavorare, perché vogliono divertirsi in qualche modo. Si dice sempre: trova una professione che ti piace… Dopotutto sono stata cresciuta da due musicisti classici, e non diventi un artista se vuoi essere ricco.

E non hai mai pensato a fare altri lavori?

Sempre, e ho avuto molti lavori diversi. E tutti questi lavori in qualche modo mi hanno insegnato qualcosa, e quando hanno smesso di insegnarmi qualcosa ho cambiato lavoro. Quindi niente è durato molto a lungo. Ho capito che probabilmente sarei stata molto, molto povera [ride].

Il tuo processo di scrittura è cambiato da quando hai scritto McGlue?

Cambia con ogni progetto. Quando scrivevo racconti il mio processo era: so che se passo una quantità sufficiente di tempo con qualcosa troverò la strada giusta. Con i romanzi non ho la stessa pazienza, perché quando scrivi un racconto puoi cambiare l’intera cosa in tre ore. Un romanzo è talmente un impegno… quindi più o meno capisco cosa sto facendo fin dall’inizio. La prima stesura è sempre la più esaltante perché inventi e trovi cose e scopri la storia e impari a conoscere i tuoi personaggi. È anche la parte più difficile, perché stai estraendo sangue dall’aria. Quindi quando scrivo un romanzo mi organizzo prima, penso e pianifico di più, non posso essere impulsiva perché potrebbe scombussolare tutto.

Stai lavorando a un nuovo romanzo?

C’è un romanzo su cui devo tornare, perché è stato un po’ messo da parte per via dei film. Sto lavorando a diverse sceneggiature. È una scrittura diversa, le sceneggiature non sono proprio casa mia. Ma sono sempre stata ossessionata dai film, dal cinema, e preferisco parlare di film che parlare di libri. E poi mi piace molto il fatto che scrivere sceneggiature sia un lavoro collaborativo, e sto imparando un sacco.

Leggi mentre scrivi?

No, perché se leggo mentre scrivo di solito si tratta di materiale di ricerca. Cerco di stare lontana da altra narrativa. Ma in generale, non leggo molta narrativa.

Cosa leggi?

Di narrativa contemporanea leggo i libri che scrivono i miei amici.

Perché devi o perché ti fa piacere?

Di solito mi fa piacere. Ma soprattutto perché mi interessano, e voglio essere incoraggiante.

Di cosa parlerà il tuo nuovo romanzo?

Da quando ho scritto Lapvona mi interessa parecchio la terza persona. È molto liberatoria, in un modo che non mi sarei aspettata. Quindi sarà un altro romanzo in terza persona, e sarà ambientato negli anni 90 – vedi, niente cellulari! – così come Lapvona potrebbe essere ambientato nell’Europa dell’est, questo potrebbe essere ambientato in Inghilterra. Si chiama Only children. A maggio torno in Inghilterra per scrivere. Parla di un ragazzo, molto giovane, che per via di un’ingiunzione deve stare lontano da suo padre per un anno, e quindi il libro parla di quello che fa in questo periodo e dei suoi genitori e del suo assistente sociale. È un libro sulle persone e sui loro sentimenti e di come orbitino l’uno intorno all’altro.

E ci saranno molti riferimenti culturali degli anni 90?

Nemmeno uno. Zero. Voglio che sia torbido e non identificabile. È proprio la cosa bella dell’inventare un mondo. Da americana che usa un inglese non americano, che non è proprio british ma una specie di nuovo inglese, è divertente fare un collage e creare un nuovo modo di scrivere. È davvero divertente.

Quando finisci un romanzo cosa fai?

Quando il libro è finito finito di solito mi sento molto a disagio. In qualche modo mi tengo lontana da queste sensazioni. Ma pensi che tutto sarà come quando corri e raggiungi un punto in cui ti senti sballato per via dell’endorfina, ti aspetti che ci sarà questa sensazione di estasi. Ma in realtà appena finisco il mio lavoro mi sento vuota. Quindi il libro è finito, bene, cosa c’è per cena? Che ore sono? Di colpo il mondo sembra più ordinario, e mi deprimo un po’.

Giulio Silvano (Lerici, 1989)  è  redattore di Nuovi Argomenti, ha  tradotto  alcuni libri (tra cui Bernard Malamud e Anne Carson), collabora con il Foglio.