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Dimmi chi sei, maschio d’America

Kamala Harris non parla più di soffitto di cristallo da frantumare: la quarta ondata di femminismo è proprio finita. La campagna elettorale si gioca su una nuova mascolinità, cosa vuol dire essere uomo oggi, e pure domani. Il bigliettino di Tim Walz, la voce di Elon Musk e l’amore impossibile per J. D. Vance

Per mesi sono stata immersa nella propaganda del Partito democratico. Non so come è iniziata, magari posso provare a ricostruirlo, ma a un certo punto mi sono ritrovata ad attraversare ogni momento di veglia con analisi politiche distillate direttamente nel cranio tramite un airpod. Un solo auricolare: mi aggiravo per casa e fuori, e in qualsiasi momento di transizione da un’attività all’altra, qualcuno mi stava parlando all’orecchio: poteva essere Ezra Klein, analista politico del New York Times titolare di un podcast che è de facto un’appendice di partito, o uno dei vari Jon e Dan e Don di Pod Save America, un podcast di commento politico che va in onda tre volte a settimana, scritto e condotto da un gruppo di ex collaboratori di Obama che sono l’equivalente politico delle mean girls.

All’inizio ascoltavo, e guardavo – Cnn, canali YouTube, approfondimenti – mentre compivo azioni che non richiedevano troppo pensiero, come lavarmi i denti e stendere i panni, ma alla fine sono diventata piuttosto brava ad ascoltare mentre facevo anche cose più impegnative dal punto di vista cognitivo: leggevo (i giornali sulle elezioni americane, i libri dei protagonisti delle elezioni americane) e lavoravo. Era una familiare, minuziosa litania che potevo anche tenere accesa mentre la gente mi parlava: non ti servono entrambe le orecchie per ascoltare, e così puoi seguire tutto, ogni micromovimento, ogni sottocorrente, e capire precisamente, quando la Storia sarà fatta, come è stata fatta la Storia.

Ho sempre seguito la politica internazionale, l’attualità e le questioni sociali, soprattutto del mondo in lingua inglese. Ma non per questo cenavo guardando il Daily Show di Jon Stewart e mi svegliavo felice perché era uscita la nuova puntata di Scaramucci. Nemmeno durante la campagna elettorale del 2016 di Hillary, che sostenevo con più fervore, devozione e speranza di quanto sostenga Kamala Harris oggi, avevo raggiunto questi livelli. No, queste elezioni hanno qualcosa di particolare, e non è soltanto l’effetto deliziosamente drammaturgico dei colpi di scena che si sono susseguiti. Prima Joe Biden che si mostra a tutti nella sua degenerazione cognitiva (rincoglionito!). Poi Nancy Pelosi che con quel suo mix di ottuagenaria sapiente e politica scaltrissima sbalza il vecchio Joe dal suo posto di candidato democratico (che grande capacità di non accettare passivamente la realtà, di vedere che tutto è davvero possibile! Pelosi chiude il cerchio cantando “we love u Joe” alla convention: divina). Le settimane di pathos, la candidatura di Harris. Ma c’era qualcosa di più in queste elezioni, qualcosa che ricercavo e credo di aver capito da poco: che queste elezioni sono giocate quasi esclusivamente sui temi del genere e della famiglia. Ho cercato, ho fatto zoom in e out, e il contorno di tutta la questione è emerso in controluce: gender and family. Non c’è nient’altro.

Entrambi i temi sono da intendere in senso nuovo: gender non è tanto la scelta di votare una donna progressista o un uomo conservatore (Donald Trump non è conservatore, ma per ora diciamo così). Non è più il femminismo di Hillary, che ancora alla convention democratica di agosto si ostina a parlare di tetto di cristallo (con pernacchie delle mean girls di Obama: vuole ancora parlare di tetto di cristallo? Ok sfigata…). E per “famiglia”, non si intende, come da noi, “famiglia tradizionale” (qualsiasi cosa sia) contro l’avanzamento di altri modelli di famiglia (coppie dello stesso sesso, coppie senza figli, eccetera). A dire il vero non è nemmeno una battaglia giocata sulle questioni identitarie, quali la “teoria di genere”, i pronomi, i diritti riconosciuti o negati delle persone trans, il sesso delle pugili (che è un po’ il nuovo sesso degli angeli), i libri da mettere all’indice. Queste sono tutte cose vecchie. Cos’è, quindi? Qual è il cuore di queste elezioni? È una questione di nuovi modelli, da un lato e dall’altro, di mascolinità; tutto si gioca su nuove proposte di cosa vuol dire oggi essere un uomo, di cosa vuol dire quindi, oggi, essere “la norma”, lo standard.

È in corso una ridefinizione della realtà condivisa, mandata in frantumi dai populismi. Nonostante le apparenze, siamo in un’epoca post populismo (state al passo per favore). Non a caso la parola più significativa dell’estate è stata weird. Una parte accusa l’altra di essere strana, di deviare dalla norma. Non a caso, nel suo discorso altrimenti molto presidenziale, l’unica concessione che Kamala Harris ha fatto alla lingua populista è stata: they’re out of their minds, sono fuori di testa, cioè non sono normali. Il tema centrale di queste elezioni è la nuova mascolinità, non donna contro uomo, non femminismo contro visione regressiva della donna, non inclusione contro razzismo. Kamala Harris sa di essere un’eccezione, e infatti non fa mai riferimento al suo essere donna, o nera-indiana. Se la questione fosse posta così, “l’America è pronta a una donna nera come presidente?”, lei sa che perderebbe. Gli altri lo fanno notare per lei, ma cautamente, perché il modo giusto di dirlo è “una persona che fra le altre cose è una donna; una persona che fra le altre cose è nera”. Che è un modo incredibilmente ipocrita di affrontare la cosa, perché quando sei una donna, o sei nera, quella è la prima cosa che il mondo vede di te. Ma il Partito democratico in queste elezioni si deve districare fra tante di quelle ipocrisie, saltare in tanti di quei cerchi infuocati (non “diritto all’aborto” ma “libertà riproduttiva”, armi a Israele ma anche un po’ cuori a Gaza), che non sappiamo neanche più chi è chi, cosa è cosa.

Il fatto che Kamala Harris non parli più di soffitto di cristallo, di essere la prima donna presidente eccetera, è comunque un segno che la quarta ondata di femminismo è giunta al termine. Alla convention democratica non è nemmeno arrivata Beyoncé, che tutti aspettavano, Beyoncé che è stata quella che ha praticamente dato il via a questa ondata di femminismo, con il suo album Lemonade, in cui aveva campionato il testo di Dovremmo essere tutti femministi, di Chimamanda Ngozi Adichie, che allora era solo un Ted Talk (oggi è un libro, piuttosto superato, ma manifesto di quegli anni). Lemonade: 2014, Hillary: 2016, per questo eravamo più entusiaste allora e adesso siamo stanche. Di femminismo hanno parlato e scritto, ora, veramente tutte, anche le più deboli e improbabili soldatesse della causa, e tutti non vediamo l’ora che questo femminismo faccia la fine della brat summer: che cada nel dimenticatoio.

La questione oggi è riportare il maschile al centro del discorso (non che l’abbia mai davvero lasciato, il centro del palco, ma insomma). Sfilano i seguenti modelli: gli uomini liberal sui quaranta dicono che negli ultimi anni si è parlato troppo di mascolinità tossica e non abbastanza di mascolinità; che c’è stata una certa ostilità verso l’essere maschio in quanto tale, che questa ostilità ha nel migliore dei casi allontanato i ragazzi e nel peggiore dei casi li ha buttati nelle braccia della man-o-sphere, e cioè di quella parte di internet che li convince che per colpa del femminismo non troveranno un lavoro, un posto all’università, una fidanzata. Quando stringi e cerchi di capire in cosa consiste questa ostilità percepita verso il maschio, una spiegazione la offre proprio Ezra Klein, il liberal del New York Times: nel 2024, Klein ancora non ha superato la maglietta con la scritta The future is female, c.ca 1972, creata per la prima libreria delle donne di New York, ripescata attorno al 2016. Era escludente, e lasciava intendere che essere maschi fosse una cosa negativa. Perché sono liberal, ma sono comunque basici (prepotenti). Il futuro è e dev’essere loro.

E allora com’è, quest’uomo del futuro?

Forse è come Tim Walz, il candidato vice di Kamala Harris. Walz, 60 anni, lo sanno anche i muri ormai, è un ex coach di football, ma anche un ex insegnante. Un ex soldato (nella National Guard per 24 anni), un cacciatore, ma anche sensibile al tema del controllo delle armi. Ha messo gli assorbenti nei bagni delle scuole (anche nei bagni dei maschi, particolare non da poco), ma non era mai stato a San Francisco (cioè non è un liberal-radicale, né un Bernie Sanders). In sintesi, è comunque un duro, perché viene dal Minnesota, che è uno stato popolato da molti discendenti degli scandinavi: molta neve, zero cazzate. Da lì vengono i fratelli Cohen, e un po’ l’estetica di Fargo (che però è in North Dakota). Ma è un duro che ha integrato nella propria visione del mondo la liberazione delle donne e la loro partecipazione attiva nella vita civile e politica. Mi ha colpito, fra tutte le mille ore di filmati analizzati, un attimo in cui ha preso un album da una bambina nella folla, ha fatto fermare Harris, e gliel’ha fatto firmare (lei ha scritto una lunga dedica). È un gesto da perfetto aiutante, da spalla, e infatti il New York magazine dice che questi uomini sono «happily deferential, unapologetically supportive». Cammina sempre un passo indietro, come sta attento a non prendere la scena. Forse per questo ha scelto Walz, il governatore del Minnesota. Uno stato in bilico, ma non quanto la Pennsylvania, che aveva Josh Shapiro, 51 anni, anche lui pronto a essere vicepresidente ma forse non altrettanto deferente (e più problematico sulla questione mediorientale). C’era anche in lizza un astronauta (Mark Kelly), che comunque è una cosa piuttosto maschia. Però era il modo giusto di essere maschio? È questo che dobbiamo domandarci oggi. I democratici vogliono tornare a parlare “alla gente”. E per gente intendono: gli uomini che si sono sentiti offesi o lasciati indietro, cioè tutti. Perché quelli che nel 2016 erano gli hillbilly (il termine si riferisce a una zona precisa, ma ha un po’ l’accezione di “buzzurri”), e i vari uomini non laureati che faticano nel lavoro, che sono stati i primi trumpiani, e che davvero sembravano pochi deplorables (definizione infelice di Hillary Clinton dei seguaci di Trump), ora si sono trascinati dietro anche i maschi neri 18-34, tra cui Trump va molto forte, e i discretamente-istruiti, che potrebbero comunque rivedersi in J. D. Vance, il candidato vice repubblicano.

Su J. D. Vance si dovrebbe fare un discorso a parte: è un mio coscritto (1984), abbiamo dei traumi in comune, sento per lui una pericolosa simpatia, e dire che lui vede in quelle come me tutto ciò che c’è di sbagliato nel mondo: giornalista femminista senza figli che non ce l’ha davvero fatta e proietta sugli altri le sue frustrazioni. Che amore impossibile, J. D. Ma io non sono élite, non vengo da un contesto liberal, i miei genitori non fanno gli intellettuali, ho fatto un sacco di scelte sbagliate perché, come lui, non vedevo nemmeno l’orizzonte di quello che era o non era possibile. La mia Statale di Milano come la sua Ohio State University (poi lui è andato a Yale, io a Cambridge, entrambi senza capitale sociale). Ha scritto un memoir sulla sua infanzia di bianco povero tra Kentucky e Ohio, tra mamma tossicodipendente e giostra di fidanzati della mamma che andavano e venivano, con la nonna come unico punto di riferimento. Una nonna rude che parlava in modo rude, cioè in un modo per me più familiare di quelle che sono gentili con i propri familiari (assurdo!) o che impastano torte di mele. Il libro è uscito, fortunatamente per lui, nel 2016, e lui da “never-Trumper”, come si era definito, ha capito che non si poteva fare carriera da repubblicano senza Trump. Ma si è anche radicalizzato in modo strano: è come se gli incel fossero cresciuti, si fossero laureati a Yale e sposati, e dai margini della società, da quella che era a tutti gli effetti una sottocultura, ora reclamano il loro posto nel discorso mainstream. Così J. D., ora convertito al cattolicesimo, dà la colpa di tutto all’instabilità della famiglia, alla mancanza di comunità (anche nel libro indirettamente lodava i mormoni dello Utah, stato che gode di una grande mobilità sociale). Ossessionato dalla natalità e dalle crisi demografica. Il Project 2025, questo librone scritto da un ente conservatore andato un po’ fuori di testa, cita l’aborto in ogni capitolo come il male assoluto, ma anche vuole abolire il divorzio facile, mettere limiti alla fecondazione assistita e alla contraccezione. Per la prima volta ho visto in strada una dimostrazione pro-spirale, con una grande spirale gonfiabile. Siamo davvero tornati a difendere il diritto alla contraccezione? Così pare.

Per i democratici, è finita l’epoca dello schieramento di vip, distaccati dalla realtà. L’archetipo di uomo “padre” (qualsiasi cosa voglia dire) rappresentato da Tim Walz ha avuto molto successo sui media. Ma anche Pete Buttigieg ne ha. Buttigieg, 1982, ex ufficiale della marina militare (con missione in Afghanistan), gay, già candidato alle primarie 2020, sa anche parlare al nemico (appare spesso su Fox News). Ha l’autorevolezza data dall’esercito e dalla provenienza dalla rust belt (è dell’Indiana) ma anche grande pacatezza e generale likability. J. D. Vance l’aveva annoverato fra la gente senza figli che non ha a cuore il destino del paese, ma poi ha adottato, insieme al marito, due gemelli.

Anche nei più profondi momenti della dipendenza da notizie, mi rendevo conto che la maggior parte di quello che era disponibile da ascoltare e guardare era propaganda. Nel senso che entrambe le parti sono propaganda, l’America vive in due realtà diverse che non si commentano neanche i reciproci post, nemmeno più si insultano. Me l’ha fatto notare un politologo: se andate sotto i post di Meloni, è pieno di contestatori. Così come i post di Repubblica, pieni di altri contestatori. Sui media americani, no. Chi guarda Fox News non va a insultare il profilo di Kamala, vive in un mondo del tutto parallelo. Del resto, chi guarda la Cnn non si bagna nemmeno un alluce nel mondo Maga. Pensano che sia una setta, un mondo a parte. Eppure tutti hanno un familiare Maga. A volte dicono cose come “ho perso un familiare nella setta di Donald Trump”, e lo dicono compassati e seri. Non dico con questo che le parti si equivalgono e che mentano allo stesso modo. I repubblicani mentono molto di più, in modo più selvaggio, senza freni. La loro propaganda è particolarmente aggressiva, ma alla base anche i repubblicani stanno rispondendo al bisogno del presente di una nuova mascolinità. Se alla convention democratica mancava Beyoncé, a quella repubblicana c’è Hulk Hogan (il wrestler coi baffoni): una mascolinità camp, cioè esagerata, rococò, che fa tutto il giro dell’orologio e diventa un po’ effeminata. E così Trump che dice di essere “better looking” di Kamala, di avere le folle più grandi di Kamala, e tutte quelle cose che dice quando perde il controllo della narrazione. Trump era bravo e disciplinato quando pensava di vincere facile, ma sotto pressione, Trump will be Trump. Eppure, quando ho lasciato la propaganda democratica e mi sono parzialmente immersa nel discorso Maga (ho iniziato da Fox News per prepararmi a Steve Bannon, peccato che ora è in galera e il suo podcast lo fanno i suoi discepoli), non sono rimasta del tutto disgustata. Cioè non mi sono afferrata la collana di perle sussurrando “oh mio Dio” mentre ascoltavo la lunga intervista-conversazione fra Trump ed Elon Musk in diretta su X. Tutt’altro. Pensavo: ma guarda che bella voce che ha Musk. Dalle cazzate che grida su X non si direbbe. Si facevano un sacco di complimenti a vicenda, e questo li faceva apparire stranamente più moderati. Anche mentre si congratulavano su come erano bravi a licenziare la gente che scioperava: come lo fai bene tu, ìlon, nessuno mai. E Musk rincarava la dose: sono un ambientalista, mi considero perfino un po’ liberal. Insomma, il fatto che Musk sia un personaggio assurdo, anormale, lo crediamo solo noi che stiamo dentro alla propaganda dell’altro lato. Quando si fa un saltello di là, suona perfettamente ragionevole (più o meno: voglio dire che è un’altra norma). Quell’intervista, che i media liberal bollavano come «disastro comunicativo» per Trump, secondo me invece gli è valsa parecchi consensi. Quando dicevano: i leader del mondo devono vedere un uomo forte al comando, esprimevano la convinzione di molti. L’archetipo di uomo forte proposto da Trump è quello di un vecchio narcisista, ma per molti funziona. Ha pur sempre preso una pallottola nell’orecchio.

Tra Tim Walz, i vari governatori che parlano in favore di Kamala, pure Biden che si è “sacrificato” ritirandosi dalla corsa (l’hanno dovuto buttare fuori a calci, ma dettagli), nel Partito democratico propongono questa idea di mascolinità: energia maschile calma, non isterica, ferma, ma comunque evoluta abbastanza da avere una donna presidente, perché comunque “siamo fra persone civili”. Dall’altra parte, Trump, Vance, Musk, propongono una mascolinità che è come una macchina d’epoca truccata: magari può ingannare a una prima occhiata, e dare l’idea di antica stabilità, ma poi cade a pezzi. Cadendo a pezzi, trascinerà con sé tutti noi: soprattutto i corpi non maschi e non ricchi. Ma sarà la nuova norma. Sarà la realtà con cui dovremo fare i conti, decisa dal tipo di maschio con cui non vorremmo mai fare i conti. Anche se la nuova linea della propaganda dem è dire che il vecchio Trump è ridicolo, a me non smette mai di mettere i brividi.

Raffaella Silvestri (Milano, 1984), scrittrice, ha studiato Filosofia di genere a Helsinki e Filosofia delle scienze sociali a Cambridge. Ha scritto i romanzi «La distanza da Helsinki» (Bompiani, 2014) e «La fragilità delle certezze» (Garzanti, 2017). Ha una newsletter, “Velluto”.