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Non esiste una chat innocente

La notifica di un messaggio è una piccola scintilla di piacere, anzi: è una droga. Attiva una reazione, bella o brutta che sia, non importa, quel che conta è raccontare, inventare, non perdere l’attenzione altrui, recuperare il suo sguardo, tenere l’interlocutore incollato. È quel che fa il porno: eccitare nonostante sé stessi. Poi le conversazioni nella vita reale si rivelano serie e noiose, perché suoniamo tutti più interessanti per iscritto

La piccola scintilla di piacere che provo quando vedo la notifica di un messaggio mi fa capire che sono drogata. Me ne accorgo mentre sono drogata davvero, con tutti i sensi più acuti e affilati – sotto l’effetto di un farmaco usato per il disturbo da deficit di attenzione e iperattività. È un farmaco, ma causa pur sempre un trip, con una fase di up frenetica e maniac e una fase tranquilla che volendo potrebbe essere di concentrazione, silenzio mentale, di lavoro ripulito dal carico di: quanto è lungo questo lavoro, quanto è noioso, e forse non servirà a niente, e a ben pensarci forse non lo so neppure fare, quindi non lo faccio. Non lo prendo spesso, questo farmaco. Non sono certa che dare stimolanti a persone iperattive sia necessariamente una buona idea, del resto l’attenzione è un campo di ricerca per tutti, anche per i medici che cercano di orientarsi fra le migliaia di nuove richieste di diagnosi e le poche molecole a nostra disposizione. Il principale problema è che in questa fase di up frenetica mi ritrovo soprattutto a chattare con la gente, e questo mi fa capire che posso anche chiudere i social, posso anche interrompere il ciclo della dopamina, ma ci sarà sempre la maledetta adrenalina, o qualunque sia l’ormone chiamato in causa, ad attivarsi quando un altro essere umano ti dà un riscontro, ed è questo che ci rende – mi rende – così dipendente dalle chat, quando le chat sono scritte da persone con lo stesso bisogno: avere un riscontro della propria esistenza, perfino un incoraggiamento a esistere. Il meccanismo è lo stesso anche da sobri, senza alcuna pillola in circolo, ma non è un caso che sia codificato il fenomeno del drunk texting, per cui da ubriachi si scrivono cose di cui ci si pente il giorno dopo.

Non ci mandiamo più le mail, anche il lavoro da tempo si è spostato su WhatsApp. I nostri telefoni sono pieni di idee geniali scritte a spizzichi e bocconi, poi non so quanto siano geniali, ho il sospetto che servano soprattutto a tenerci in vita, all’erta, e sicuri di esistere. C’è il tema dell’attenzione: lunghe email risultano impossibili, pesanti, in generale accolli; i messaggi sono invece simpatiche sollecitazioni dei nostri centri nervosi. Non parlo nemmeno delle chat amorose, di flirt e del sexting. Anche quelle le conosco, ma penso di esserne guarita; certo non se n’è mai fuori completamente, si è AA per sempre. Penso di essere cresciuta, ma ho letto un pezzo sul New Yorker – “His latex goddess” – in cui un’autrice cinquantenne racconta la sua recente caduta in un rapporto ossessivo con un uomo che lei chiama l’italiano. Da Nino Sarratore all’italiano di questa Anna Holmes, esportiamo maschi tossici come fossero completi di Armani. Quest’italiano non la voleva mai incontrare. Lei ne era intrigata e sorpresa, come se vivessimo ancora nel mondo in cui gli uomini vogliono davvero scopare. Ne era così sorpresa che cominciava a prendere appunti per il New Yorker: così scema eppure così geniale. Lui voleva solo chattare, dalla mattina alla sera, e farle comprare guanti di latex per poi inondarla di complimenti (love bombing), ma anche sacchi di spazzatura neri con cui rivestire il letto e poi fotografarlo. Presumo gli ricordassero il latex, questi materassi infagottati come monnezza. È bello chattare notte e giorno e vivere in uno stato di trance, per un certo periodo, ma magari è auspicabile anche svegliarsi e stare nel mondo (lo sballo migliore è la vita, tipo), perché nelle ossessioni, nelle codipendenze e nei rapporti squilibrati (o con squilibrati) si possono perdere anche anni. Ma noi il modus operandi dell’amore tossico l’abbiamo esportato nella vita quotidiana. Abbiamo delle conversazioni attive che non hanno un inizio e mai un punto di fine, infatti la parola meno utilizzata nei nostri telefoni è ciao. Queste chat mai chiuse ci danno l’impressione di non essere mai soli. Mai soli abbastanza per lavorare davvero, con concentrazione profonda, e allo stesso tempo sempre parte di un ufficio virtuale in cui fervono i lavori. Per metterle in pausa – chiuderle come detto è impossibile – ci vuole forza di volontà. Per anni non ho avuto WhatsApp, mi sono opposta fino all’ultimo perché conosco i miei limiti e le mie oscure tendenze. Ora ho ceduto, ma ce l’ho su un numero separato, che do soltanto a chi voglio, e cioè ormai a tutti. Ora che lo scrivo così mi sembra una perversione anche peggiore.

Questa corrispondenza frammentata ma continua è morbosa, asseconda una parte di sé sterile; è un giocare con la creatività per una gratificazione immediata e spicciola. In fondo stare ore a scrivere in una chat, a sollecitare continuamente l’altro, equivale a fare Sherazade, continuare a raccontare, fare i salti mortali per non perdere l’attenzione altrui. Lo faccio anch’io. Uso la creatività e una certa capacità di raccontare (quindi di inventare) per tenere incollato l’interlocutore, in una dinamica interamente basata sul non perdere l’attenzione altrui, anzi continuamente recuperarla; non perdere il suo sguardo, il suo interesse, se non la sua approvazione almeno qualcosa di più basilare e bestiale, il riflesso automatico di non staccare gli occhi e in qualche misura di eccitarsi di quello che tu stai scrivendo. È quello che fa il porno, fa eccitare nonostante sé stessi, fa eccitare il corpo bypassando la mente. Anche le chat più innocenti (non lo sono mai, se superano le comunicazioni di servizio) sono giochi di seduzione (lapsus: giochi di comunicazione) spicciola, spicciolissima: forse ogni chat è proprio uno scambio di nudes, in cui si spinge sempre più in là l’asticella (la realtà preme, l’attenzione fugge). Quando mi scrivono certi amici amiche e colleghi particolarmente simpatici mi illumino, quando mi scrivono gli accolli mi incupisco, ma in ogni caso mi attivo, ed è da questa attivazione che siamo tutti dipendenti. Siamo anche dipendenti dall’atto stesso di distrarci, vogliosi di scappare dalle nostre attività, che sono esse stesse sempre più frenetiche e sterili. Negli uffici non si ragiona più con calma sul senso delle cose, sullo sviluppo dei progetti; rincorriamo affannati il day-to-day. Ma le attività prive di slancio, di scopo e di senso diventano noiosa operatività. Non sorprende realmente che non vediamo l’ora di ricevere una notifica. La natura del lavoro, fin dalla rivoluzione industriale, combinata ai nuovi raffinati strumenti per capitalizzare la nostra attenzione (algoritmi, social, content bite), ha portato a un cambiamento dei nostri cervelli. Il funzionamento del cervello neurodivergente è davvero diverso dal neurotipico, ma anche il neurotipico e cioè l’individuo “normale” è sempre più patologicamente distratto. Si cercano senza convinzione rimedi, o sempre nuove distrazioni.

Anche la conversazione è una forma di intrattenimento e seduzione reciproca, o lo sarà stata. Non la pratichiamo quasi più: quando vediamo dal vivo gli stessi amici con cui chattiamo parliamo in altro modo, di altre cose, cose più serie o quantomeno meno onanistiche. Ho un amico molto arguto con cui commento religiosamente ogni episodio di Uomini e Donne, cercando disperatamente un po’ di vera, autentica “sporcizia” – che non è trash. La sporcizia per quanto mi riguarda sono proprio quei rari guizzi di verità assoluta e fondamentale che si intravedono ogni tanto in U&D. Vedere una donna impietosamente manipolata da un uomo – un uomo che nega e ribalta la colpa, come succede nella vita reale, ma lo fa in modo più stupido, ignorante e ridicolo di quanto avviene nella vita reale, è una cosa profondamente vera, verissima – che ci è successa e che abbiamo subìto perché siamo tutte Ida. Nel senso che viviamo con gli altri nello stesso mondo di Ida, un mondo che ha valori simili al mondo in cui vive Ida – e in cui è quindi normale la postura manipolatoria e sottilmente (o meno) prepotente di alcuni uomini. È un po’ vera anche la nostra stupidità, quella di cui ridiamo quando la vediamo messa in scena. Non è che siamo stupide: siamo tutte ugualmente ignoranti dei nostri processi emotivi. Colte, intelligenti, incolte, limitate, amate, poco amate, ci manca la fondamentale capacità di capire cosa succede dentro di noi, quanti e quali “scelte” abbiamo a disposizione, della nostra psiche. È un argomento che ha la sua dignità, ma con questo mio amico, quando ci vediamo, non parliamo di Uomini e Donne. Abbiamo una chat molto più arguta di quanto siano i nostri scambi nella vita reale. Dalle nostre chat è nato qualche pezzo, dal nostro pigro hanging out non è mai nato niente. Nella vita reale bisogna saper stare al mondo, che vuol dire sapersi comportare. Prima di usare l’ironia bisogna accertarsi che ci siano dei codici condivisi che quell’ironia consentono di riceverla. Suoniamo tutti molto più interessanti e intelligenti per iscritto che dal vivo, dove a volte addirittura ci è richiesto di gestire più persone contemporaneamente: per esempio, un tavolo a cena. Stare insieme alla gente è una capacità che si allena, e noi siamo sempre più isolati: passo settimane su una popolare poltrona Ikea color senape dalla quale lavoro, mangio e comunico con i miei interlocutori, che vedo un paio di volte all’anno se mendico qualche “caffè”. Nei caffè stai rubando tempo alle persone, nelle mail pure. Non ci sono momenti preposti a parlare con le persone che sono tutte impegnatissime ognuno per i fatti suoi. Sarà da qui che è nato il concetto di slide through the DMs, cioè di infilarsi nei messaggi. È una vita passata in un perenne elevator pitch. Cioè quella pratica codificata in America di convincere le persone della bontà di un progetto nel tempo di una corsa in ascensore. Mi chiedo se tutti questi termini sono inglesi perché è una lingua più malleabile, che arriva prima sui fenomeni ed è in grado di coniare neologismi, o se sono fenomeni che sono arrivati prima lì. Probabilmente i fenomeni sociali arrivano insieme, ma lì c’è una critica del costume più sveglia, anche se a leggere “His latex goddess” non si direbbe. Questi giornali americani ragionano molto sulle esperienze relazionali, sui trend sociali, hanno una curiosità più spiccata sulla vita intima delle persone. A volte il linguaggio (i termini che descrivono i fenomeni) aiuta a capire, ma raramente risolve. Anche la psicoterapia, che è il modo migliore che abbiamo trovato di rispondere alle storture e alle sofferenze che nascono dalla fondamentale incapacità di capire sé stessi, è un metodo rudimentale, confuso e imperfetto di conoscere e avere riscontro di sé stessi. E quindi procediamo a tentoni, affidandoci alle eccitanti notifiche della nostra app di messaggistica; qualunque sia l’argomento, se non è Uomini e Donne è l’ultimo film di Guadagnino, giochiamo sempre allo stesso gioco, un gioco da cui dipende la nostra esistenza, uno Squid Game dei sentimenti: ti prego ammirami, ti prego resta con me o torna, se te ne sei andato. E se proprio devi andare, ti prego torna presto: sarò ancora più brava, più deliziosa e brillante, ti darò qualcosa – aiuto pratico, incoraggiamento e conforto – e qualcosa tu darai a me: Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno.

Raffaella Silvestri (Milano, 1984), scrittrice, ha studiato Filosofia di genere a Helsinki e Filosofia delle scienze sociali a Cambridge. Ha scritto i romanzi «La distanza da Helsinki» (Bompiani, 2014) e «La fragilità delle certezze» (Garzanti, 2017). Ha una newsletter, “Velluto”.