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Intrappolato nello zucchero dell’Iran

Bahman non ricorda la vita prima della fabbrica di Haft Tappeh, dove si lavora la canna da zucchero. Il Khuzestan è lussureggiante e tutte le risorse sono lì, ma l’estrazione intensiva, la guerra con l’Iraq, l’espropriazione delle terre degli arabi, le lotte degli operai hanno scavato ferite familiari e nazionali. Le parole inutili a un fratello basij e l’indifferenza del regime

Nessuno sceglie dove venire al mondo, ma se gli fosse concesso Bahman ricomincerebbe lontano dal Khuzestan.

Che sollievo sarebbe neutralizzare ogni memoria, dimenticare la sensazione del cuore che sobbalza, gli aironi appollaiati sopra i bufali d’acqua, le palme da dattero contro il cielo, un cielo azzurro, azzurrissimo, quasi finto, mentre i fratelli lo rincorrono sciabordandogli dietro. E a questo punto, se funzionasse, se la vita potesse davvero assomigliare a un film di fantascienza, dopo aver bandito dai suoi pensieri ogni traccia della guerra, Bahman potrebbe finalmente premere sull’acceleratore e passare come uno schiacciasassi sopra alla fabbrica di zucchero. Perché fra tutti i suoi ricordi, Haft Tappeh è la ferita che non si rimargina, la delusione che si rinnova giorno dopo giorno.

Impossibile risalire alla prima volta che ha oltrepassato quei cancelli. Poteva avere quattro anni e ondeggiava aggrappato alle canne insieme a suo fratello Farhad, o essere più grande, un bambino di sei, sette anni con l’argento vivo addosso che attraversa di corsa un capannone e si bagna la punta del naso dentro a un catino pieno di melassa.

Ma in fondo poco importa, comunque sia andata, Bahman ha l’impressione che non ci sia mai stato un tempo prima dello stabilimento. Del resto, se non fosse stato per lo zucchero, suo padre non avrebbe avuto alcun motivo per lasciare Isfahan e trasferirsi a Shush, e Bahman, a dire il vero, non ha alcun ricordo antecedente alla loro vita in Khuzestan. Quando la sua famiglia arriva a Haft Tappeh la società ha aperto da un paio di mesi. La Rivoluzione bianca dello scià è in dirittura d’arrivo, a Teheran la parola agribusiness è sulla bocca di tutti e i più entusiasti sono i consiglieri americani di Mohammed Reza Pahlavi. In Khuzestan gli agronomi inviati dalla capitale individuano un’area a quindici chilometri dall’antica Susa, l’attuale Shush. Si tratta di diecimila ettari di terreno da destinare alla coltivazione della canna da zucchero e alla sua lavorazione, un’operazione ancora più appetibile se si considera il fatto che il presidente Kennedy ha appena varato un embargo su Cuba che colpisce anche le importazioni di zucchero. Ma Bahman non si interessa a queste cose, questi, per lui, sono gli anni della spensieratezza pura. In prossimità dello stabilimento hanno aperto una scuola, un ambulatorio e un emporio. Poi arriveranno anche un cinema e uno stadio. Nel 1974 i lavoratori di Haft Tappeh fondano un sindacato. La fabbrica va alla grande, dà lavoro a settemila persone e produce centomila tonnellate di zucchero l’anno. È vero, quando scoppia la Rivoluzione islamica, la produzione si contrae, ma lo stabilimento non chiude mai, non lo fa nemmeno per un giorno, e non succederà nemmeno durante gli otto lunghi anni di guerra con l’Iraq.

In Khuzestan il conflitto è impossibile da ignorare, è in questa regione di confine, dove si concentrano le enormi riserve di gas e di petrolio dell’Iran che Saddam Hussein sferra il suo attacco a sorpresa. È il settembre del 1980 ed è sempre qui, su queste calde pianure, che si consumano le battaglie più sanguinose della guerra. Bahman ha vent’anni quando decide di arruolarsi, non lo hanno ancora convocato, è lui a presentarsi. Il primo anno di guerra è segnato dalla morte del padre. Bahman è abbastanza vicino da sentire il rimbombo della mina che lo fa saltare in aria. Da quel giorno il tempo si dilata, le settimane diventano mesi, ma senza un inizio, senza una fine, sono otto anni, ma potrebbe essere anche un giorno lunghissimo, in cui un orrore soppianta quello successivo. L’ultima immagine è dell’88, Bahman è in un ospedale da campo. Stringe la mano di un ragazzino di cui non ha avuto il tempo di imparare il nome, mentre un dottore con il camice striato di sangue sussurra: «Non c’è niente da fare».

Eppure nulla di ciò che ha visto, inclusi i bambini-soldato, ammacca la fiducia che Bahman ripone nella rivoluzione khomeinista. Un regime fondato a difesa degli ultimi, non potrebbe esserci nulla di più nobile, si dice. E per un lungo periodo seguita a pensarlo. All’inizio degli anni Novanta, il governo Rafsanjani trova altri settantamila ettari, a sud della città di Ahvaz, da destinare alla coltivazione della canna da zucchero e della sua filiera. Bahman non potrebbe essere più fiero di giocare un ruolo in questa storia, la Haft Tappeh è ancora una società sana, addirittura un modello e pazienza se il sindacato in questa fase è sostanzialmente morto, questi sono gli anni della ricostruzione post bellica, gli anni del dialogo costruttivo con l’Europa. Sviluppo e crescita, crescita e sviluppo. Cosa può andare storto? Molto, per quanto riguarda Haft Tappeh, perché il business dello zucchero è una bomba ecologica che ticchetta, un progetto dannoso e sbagliato, del tutto inadatto alle condizioni ambientali del Khuzestan. Un gruppo di professori del dipartimento di Agricoltura dell’Università di Ahvaz lancia l’allarme con una serie di lettere pubbliche, ma l’erosione del suolo, l’inquinamento delle falde, la perdita di un habitat impossibile da replicare per decine di specie protette non sono argomenti all’ordine del giorno. E anche alla fabbrica di inquinamento si parla poco. Bahman si contenta di raccomandare ai nipoti di stare alla larga dai luoghi in cui vengono sversati i liquami tossici. E quando sfiorando le canne gli succede di oltrepassare fazzoletti di terra esausta, ricoperta da una polvere di sale finissima, sospira senza collegare le cause agli effetti.

Di fatto, la visione idilliaca di Bahman inizia a incrinarsi solo dopo il matrimonio. Shirin non è cresciuta in Khuzestan, è nata a Isfahan e la rimpiange. A dire il vero sogna di tornarci e non si spiega l’attaccamento del marito nei confronti della fabbrica. Non se lo spiega soprattutto da quando il provveditorato agli studi le ha affidato un incarico in un piccolo villaggio a maggioranza araba a sud di Shush. E a un certo punto sbotta. Accade una sera d’estate, Mohammed Khatami ha appena vinto le presidenziali e Bahman ha appena cominciato a raccontarle quanto si divertiva da bambino a giocare a nascondino tra i silos di Haft Tappeh. Sono a tavola, Shirin inarca un sopracciglio e dice: «È molto ingiusto quello che hanno subìto e continuano a subire gli arabi a causa della canna da zucchero. Davvero non mi spiego cosa ti renda tanto tronfio». Per tutta risposta Bahman sgrana gli occhi, si alza da tavola, e se ne va. Ma Shirin non ha intenzione di chiudere l’argomento, tace un paio di giorni e poi torna alla carica. E Bahman stavolta resta seduto.

Nel villaggio la gran parte degli adulti non parla il persiano, o magari finge di non farlo per segnare la distanza dall’ajam di turno. Ajam in arabo significa muto ed è un modo neanche troppo vagamente dispregiativo con cui gli arabi identificano i non arabi e in particolare i persiani. Tuttavia, in Khuzestan, il termine è talmente comune che capita pure di sentirlo in bocca a un persiano per parlare di un altro persiano che arriva da fuori. Ma per tornare a Shirin, nel contesto in cui si trova, lei è un’ajam, nell’accezione originale della parola, anche perché, oltre al fatto di essere un’estranea, sconta un’aggravante, un marito che lavora nella fabbrica di zucchero. Che sia un’aggravante è evidente dal primo giorno di scuola quando le allieve l’accolgono sussurrando neyshekar (canna da zucchero in persiano). Shirin pazienta, le prese in giro non l’hanno mai scossa più di tanto e “canna da zucchero” non è tra le più scandalose che le siano piovute addosso, o almeno è così che la vede finché capisce. «Erano loro quelle terre, le preziose terre di Haft Tappeh. Hanno sbattuto fuori gli arabi come fossero spazzatura», dice Shirin. «È stata loro la scelta di vendere quei terreni», obietta Bahman. «Favole. Non hanno scelto un bel niente. È stata una confisca ricompensata con due spicci».

Tutto questo accadeva all’epoca dello scià, furono settecento i villaggi arabi “coinvolti” nel progetto di Haft Tappeh, e in seguito un po’ per rabbonire i proprietari dei terreni e un po’ perché di manodopera c’era effettivamente bisogno, agli arabi fu promesso un lavoro in fabbrica. Poi però a Haft Tappeh cominciarono ad approdare iraniani da tutto il paese e agli arabi rimasero solo lavoretti precari. Nulla è cambiato con l’avvento della Repubblica islamica, anzi, se possibile, la situazione è anche peggiorata. «Apri gli occhi: i palmeti stanno morendo e gli arabi sono costretti a crescere pomodori tra i rifiuti dello stabilimento!».

La seconda crepa nello sguardo di Bahman compare nei primi anni Duemila. L’Iran ha iniziato ad acquistare zucchero a basso costo in India e in Brasile. Parallelamente il ministero delle Finanze ha congelato i contratti tra Haft Tappeh e lo stato, con gran beneficio della cosiddetta “mafia dello zucchero” che fa capo all’influente ayatollah Makarem Shirazi. La fabbrica ha smesso di essere un’isola felice. Nel giro di un paio d’anni, duemila operai vengono licenziati. Bahman si salva, ma lo stipendio arriva a singhiozzo e se non fosse per il lavoro di Shirin non riuscirebbero a sopravvivere. Nel 2005 davanti ai capannoni compaiono cartelli con su scritto: «Ho fame». C’è anche Bahman nella fila composta di operai che protestano tenendo i figli per mano. Nel 2007, tra mille ostacoli, risorge il sindacato che organizza scioperi e marce che si concludono davanti al palazzo del governatore. A Teheran nel frattempo è cambiata la musica e nei palazzi che contano la parola del momento è privatizzazione. Haft Tappeh è ancora pubblica, ma nonostante la crisi e il debito che cresce, fa gola a molti. Nel 2012 la dirigenza annuncia un piano di rilancio e acquista nuovi macchinari per incrementare la produzione. Si tratta dell’ennesimo buco nell’acqua e Haft Tappeh finisce all’asta. Ad accaparrarsela, a un decimo del suo valore, sono Mehrdad Rostami e Omid Asadbeigi, due trentenni che fino al giorno prima si sono sempre occupati di finanza. Il rapporto con gli operai è burrascoso fin dall’inizio, un po’ perché i nuovi proprietari appaiono del tutto impreparati, e un po’ perché, secondo i giornali locali, sarebbero intenzionati a vendere i terreni di Haft Tappeh. È guerra.

«La proprietà dei terreni è la nostra linea rossa –tuona il leader del sindacato Esmail Bakshi – I veri azionisti di Haft Tappeh sono i lavoratori e gli abitanti di questa regione». In fabbrica monta il malcontento. L’obiettivo dichiarato è che Haft Tappeh torni pubblica. Rostami e Asadbeigi rispondono portando i basij tra i capannoni e scrivendo lettere di denuncia che permetteranno alle autorità di mettere nel mirino decine di operai, tra cui il carismatico Esmail Bakshi. Non sanno che la loro avventura in Khuzestan è già segnata. Nel 2017 Asadbeigi viene accusato di aver intascato 1,5 miliardi di dollari con il pretesto di un investimento mai realizzato. Quando esce la notizia si è già dato alla macchia (finirà per essere condannato a 14 anni di carcere), ma dal luogo segreto in cui si nasconde, non riesce a resistere alla tentazione di sferrare un ultimo attacco ai Bahman di Haft Tappeh con un surreale videomessaggio.

Seguono mesi complicati, di arretrati mai corrisposti e minacce nel cuore della notte in cui Esmail Bakshi diventa il punto di riferimento di tutti. C’è un momento durante un suo discorso del 2018 in cui Bahman ha la sensazione di poter tornare a credere nel futuro. «Siamo noi le lavoratrici e i lavoratori e siamo noi che sappiamo come si produce lo zucchero. Senza di noi Haft Tappeh non esiste». È solo una fiammella. Bakshi viene arrestato, torturato, rilasciato e riarrestato, e insieme a lui decine di altri operai. Nel 2020 l’anno in cui la fabbrica torna nelle mani dello stato, suo figlio perde il lavoro e Bahman inizia a guardare il mondo con gli occhi di Shirin.

«Vota bene fratello», gli dice Farhad passandosi una mano tra i capelli corvini. È stravaccato sul divano e muove ritmicamente un piede dentro uno stivale nero, Bahman, immobile con le braccia incrociate sul petto, la mascella tesa, gli occhi miti stanchissimi, persi in un punto imprecisato alle sue spalle, annuisce.

«Come sempre», risponde. Perché non ha voglia di discutere. È già successo quando è stata confermata la notizia della morte del presidente Raisi. Ci ha provato, ma con Farhad non riesce più a ragionare. Cosa può dirgli? Che in questi cinquanta giorni è rimasto sigillato nella sua bolla? Che le oscillazioni sul sismografo del potere lo annoiano a morte? Che se ne infischia che l’ex capo del Parlamento Ali Larijani sia fuori dalla corsa e l’ex negoziatore Said Jalili sia dentro? Che questa gente in fondo non conta niente e, anche se contasse, di loro se ne infischierebbe. In Khuzestan tre persone su quattro sognano di andarsene, ma a Teheran chi ci fa caso? No, non ne vale la pena, sarebbe tutto fiato sprecato con suo fratello. Farhad è un perfetto basij, si beve tutto, oppure non crede più a niente.

Un paio d’ore dopo gli telefona la figlia. Ha paura di volare e lo chiama sempre non appena atterra, quasi a confermare di essere ancora viva. È una ragazza sveglia, brillante negli studi, a differenza del fratello. Studia Scienze forestali, a Teheran. «Non puoi immaginare quanto mi manca Shush!», ripete quando si sentono. Eppure Bahman ha l’impressione che sua figlia, a ogni ritorno, riparta più arrabbiata. Una volta è per via del fratello che passa il tempo a bighellonare, un’altra per l’inquinamento e il cambiamento climatico («Lo sai che i bufali d’acqua hanno le zampe talmente gonfie che quando si sdraiano non riescono a rialzarsi?»). E poi per lui. Perché lui dovrebbe cambiare. «Papà, non esiste solo la fabbrica». Certe notti dopo che Shirin si è addormentata sussurrando che è stanca e che se ne vuole andare, Bahman immagina di afferrare una valigia e di riempirla con tutto ciò che potrebbe servirgli in una vita diversa. Ma come sarebbe quella vita? Per quanto si sforzi, Bahman non riesce a visualizzarla, e a occhi chiusi, il profumo dello zucchero riesce ancora a pizzicargli le narici.

Tatiana Boutourline (Firenze, 1975), giornalista e scrittrice. La sua famiglia non ha più potuto tornare in Iran dal 1978. Ha studiato a Oxford, oggi vive e scrive in Italia. Racconta l’Iran sul Foglio dai primi anni Duemila.